Editoriali

Un passo avanti contro la malaria

Il 6 ottobre, con l’approvazione del primo vaccino contro la malaria da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità, il mondo ha fatto un enorme passo avanti nella lotta contro questa malattia. Endemica ai tropici, la malaria uccide ogni anno tra le 500mila e le 750mila persone, in gran parte bambini. Si calcola che tra spesa per le cure mediche e perdita di produttività, la malaria costi complessivamente 12 miliardi di dollari all’anno. Inoltre, per quanto curabile, nella sua forma più grave può provocare danni cerebrali permanenti, il coma e perfino la morte. Il 94 per cento delle vittime della malaria, in larga misura bambini sotto i cinque anni, si concentra nell’Africa subsahariana, non a caso intrappolata in un circolo vizioso di povertà.

Pur essendo disponibile al momento solo per i bambini piccoli, il vaccino è comunque un investimento prezioso. Libera le generazioni future dai limiti imposti dalla malattia e libera tempo e risorse altrimenti impiegati per prendersi cura di chi si ammala.

Nel 2011 un rapporto della piattaforma globale Roll back malaria rilevava che il 72 per cento delle aziende in Africa era stato danneggiato dalla malattia. A causa della malaria, inoltre, le famiglie perdono fino a un quarto del reddito e, siccome la maggior parte delle vittime sono donne e bambini, perdono anche i loro pilastri e le future fonti di entrate. La somministrazione di massa del vaccino farà risparmiare risorse che potranno essere usate per altre urgenze sanitarie. Ma per i governi africani non è il momento di abbassare la guardia. Il vaccino affronta solo parte del problema, dato che per molte persone a rischio non è utilizzabile. Quindi i governi dovranno investire adeguatamente per il controllo, la prevenzione e il trattamento della malattia. Inoltre è importante che la ricerca continui per migliorare il vaccino e renderlo efficace anche negli adulti. ◆ gim

Dalla Cina un rischio globale

A lungo considerata una questione regionale di media intensità, la disputa su Taiwan è ormai fonte di preoccupazione globale. Erano quarant’anni che Pechino non minacciava così lo stato insulare, separato politicamente dalla Repubblica popolare dal 1949. La tensione è cresciuta dopo le frequenti allusioni del presidente cinese Xi Jinping a una prossima “riunificazione” e le 150 incursioni che i jet militari cinesi hanno fatto dal 1 ottobre vicino alla zona di difesa aerea taiwanese.

La retorica nazionalista di Xi e il rafforzamento militare della Cina alimentano le preoccupazioni di Taiwan, raro esempio di democrazia nella regione. Per il regime di Pechino che esista un modello cinese alternativo a soli 180 chilometri dalle sue coste è inaccettabile. Dopo il colpo fatale al principio “un paese, due sistemi”, che aveva garantito l’autonomia di Hong Kong dopo il suo ritorno alla Cina nel 1997, Taiwan è chiaramente la prossima tappa nella realizzazione di “una sola Cina”.

Per gli Stati Uniti, convinti che Pechino voglia spodestarli dalla posizione di leadership militare ed economica nel mondo, è una sfida cruciale. Dal 1979, quando riconobbe la Repubblica popolare, Washington non è più formalmente vincolata alla difesa di Taiwan ma deve solo fornirle i mezzi per difendersi in caso d’attacco. Oggi, in un’atmosfera sempre più bellicosa, con la Cia che definisce la Cina “la più grande minaccia geopolitica”, gli Stati Uniti sanno che un’invasione cinese di Taiwan segnerebbe la fine del loro dominio nell’area dell’Indo-Pacifico. Finora la loro ambiguità rispetto a come reagirebbero a un’eventuale aggressione cinese ha fatto da deterrente. Anche la Cina alterna proclami e atti ostili a dichiarazioni rassicuranti. Ma le linee cambiano pericolosamente: la caduta di Kabul ha rafforzato la convinzione di Pechino sul declino della potenza statunitense. E la maggioranza degli americani sostiene la necessità di difendere Taiwan.

C’è da sperare che Xi Jinping non sia così folle da scatenare una guerra. Bisogna fare il possibile perché Pechino e Taipei riprendano il dialogo interrotto nel 2016. Un’aggressione cinese potrebbe far scoppiare un conflitto con gli Stati Uniti, mettendo a rischio non solo la stabilità dell’Asia orientale, ma la pace nel mondo. ◆ ff

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