Carolyn Stewart ha passato gli ultimi cinque mesi a cercare insegnanti per il distretto di Bullhead City, in Arizona, e ora tiene in mano un cartello nell’area per il ritiro bagagli dei voli internazionali dell’aeroporto di Las Vegas, in Nevada. Sopra c’è scritto il nome dell’ultima insegnante che ha assunto.
Stewart, sovrintendente scolastica di 75 anni, chiama ad alta voce un nome che ha appena imparato a pronunciare: “Signorina Obreque? Professoressa Rose-Jean Obreque?”. Una donna sorridente e con una grande valigia le viene incontro. “È la nostra nuova insegnante?”, chiede Stewart, ma la donna scuote la testa e continua a camminare.
La sovrintendente alza il cartello sopra la testa e prende il telefono dalla borsa per vedere se ci sono chiamate o messaggi dal suo ufficio a Bullhead City, circa 150 chilometri più a sud. I 2.300 studenti del distretto sono tornati a scuola da settimane, ma manca ancora quasi il 30 per cento dei professori. Ogni giorno Stewart deve fare i salti mortali per trovare supplenti e incastrare gli orari delle lezioni, mentre continua a ricevere email allarmanti. Un’insegnante ha appena annunciato le dimissioni a causa di un “esaurimento cronico”. Un rapporto dello stato dell’Arizona avverte che dall’inizio della pandemia di covid-19 i risultati dei test di matematica condotti alle elementari e alle medie sono crollati di undici punti percentuali. Il preside della scuola media del distretto le ha mandato un messaggio il cui oggetto era: “sfogo”. Poi continuava: “Le prime due settimane sono state le più difficili che abbia mai affrontato. I miei insegnanti sono già sfiniti. Vengono da me per avere delle risposte, ma io non so dargliene una. Se dovessimo perdere anche solo un insegnante non saremmo più in grado di gestire la scuola”.
Stewart lavora nella scuola pubblica da cinquantadue anni e ha prestato servizio in alcuni degli istituti più impegnativi del paese, ma solo di recente ha cominciato ad aver paura che l’intero sistema scolastico statunitense possa crollare. Secondo il dipartimento del lavoro del governo federale, dall’inizio della pandemia gli Stati Uniti hanno perso 370mila insegnanti. Il Maine ha cominciato a mandare in classe gli istruttori dei campi estivi, mentre la Florida si è affidata a veterani delle forze armate senza nessuna esperienza nell’insegnamento. L’Arizona ha rinunciato al requisito della laurea, ma Stewart fatica comunque a trovare persone disposte a lavorare in un distretto molto povero, per un salario iniziale che arriva appena a 38.500 dollari all’anno (36mila euro).
Ha mandato i suoi collaboratori alle fiere del lavoro dello stato, ma sono tutti tornati a mani vuote. Ha pubblicato annunci nei campus universitari e nelle agenzie interinali di tutto il paese, e alla fine si è ritrovata con appena cinque, sei candidati qualificati per 42 posti vacanti. “Dobbiamo assolutamente trovare qualcuno”, ha detto al consiglio scolastico, e così insieme hanno deciso di assumere venti insegnanti dalle Filippine che avevano una laurea magistrale ed erano disposti a trasferirsi nel deserto dell’Arizona.
Grandi valigie
“Mi scusi, è lei la dottoressa Stewart?”. La sovrintendente si volta e vede una ragazza che a un primo sguardo le sembra una delle sue studenti. Non è alta più di un metro e cinquanta, ha uno zaino nero sulle spalle, trascina due grandi valigie e indica il cartello di Stewart: “Sono io”, dice.
“Signora Obreque!”, risponde Stewart abbracciandola. “Le sue valigie sono più grandi di lei. Lasci che l’aiuti”.
“Grazie, signora, ma ce la faccio. Sono una tipa tosta”. Obreque, 31 anni, raccoglie le borse e si avvia con Stewart verso il terminal, per raggiungere le altre insegnanti filippine arrivate a Las Vegas quel pomeriggio.
“Com’è andato il viaggio?”, chiede Stewart. Obreque spiega di essere partita quattro giorni prima: ha viaggiato per sei ore fino a Manila, dove ha dovuto aspettare che venisse risolto un problema burocratico legato al visto; poi si è imbarcata su un altro volo durato quattordici ore per arrivare negli Stati Uniti. Mentre camminano tira fuori il telefono e comincia a scattare una foto dietro l’altra all’atrio dell’aeroporto, alle scale mobili, ai fast food, ai cartelli con la scritta “Benvenuti a Las Vegas”.
“Il mio primo viaggio all’estero, ed è proprio nel paese dei miei sogni”, dice Obreque. “Sono elettrizzata, non vedo l’ora di entrare in classe”. Insegnerà inglese alla Fox Creek junior high, in una classe di terza media che ha già avuto undici supplenti, compresi il preside, il vicepreside, il direttore della banda, un allenatore di softball, un membro del consiglio scolastico e la stessa Stewart, che a un certo punto si è offerta di sostituire una supplente mandata in un’altra classe.
“Siamo felici di averla qui”, dice a Obreque.
“Grazie per l’opportunità di insegnare negli Stati Uniti”, risponde lei. “Sarà l’apice della mia carriera”.
Obreque sale in macchina insieme ad altre tre insegnanti filippine e comincia a scattare foto agli hotel dei casinò, ai grattacieli del centro, alle piscine dei sobborghi e alle file di palme alla periferia della città. Poi la civiltà comincia a cedere il passo alla polvere rossa e alle rocce frastagliate. Il termometro della macchina segna più di 45 gradi. Obreque mette via il telefono e osserva il deserto. “Pensavo che sarebbe stato più verde”, dice.
“Non è come l’America dei film”, risponde Anne Cuevas, una filippina che insegna a Bullhead City da quattro anni e ha accompagnato la sovrintendente a Las Vegas per accogliere le nuove colleghe. Cuevas è arrivata prima della pandemia ed è stata una delle prime lavoratrici straniere assunte dal distretto quando il sistema scolastico ha cominciato a essere in difficoltà.
Le Filippine e gli Stati Uniti hanno calendari scolastici, programmi di studio e sistemi di valutazione simili, per questo negli ultimi anni le scuole statunitensi hanno assunto più di mille persone dal paese asiatico. Molte di loro hanno una laurea specialistica e un dottorato. Nelle Filippine c’è molta competizione nel mondo dell’insegnamento: ci sono in media quattordici candidati per ogni cattedra e gli assunti sono regolarmente valutati e classificati.
“Qual era la vostra valutazione?”, chiede Cuevas alle colleghe, tutte alla prima esperienza negli Stati Uniti. “Eccellente, tra le prime cinque della mia scuola,” risponde Vanessa Bravo, un’insegnante di matematica di seconda media che ha lasciato a casa il marito e tre figli di quindici, dodici e dieci anni. “Eccellente anche la mia”, dice Sheena Feliciano, figlia di un conducente di risciò a Manila. Guardano verso Obreque, aspettando la sua risposta. “Se sei troppo imbarazzata per dircelo non c’è problema”, scherza Cuevas.
“Più che eccellente”, risponde Obreque. “L’anno scorso sono arrivata prima tra i 42 insegnanti della mia scuola”.
Il suo successo è il frutto di quasi dieci anni di duro lavoro. Dopo aver ottenuto una laurea in scienze della formazione, visto che non riusciva a farsi assumere da una scuola, ha accettato di lavorare in un call center: forniva assistenza tecnica per conto di una compagnia statunitense a undicimila chilometri di distanza, e intanto migliorava il suo inglese. Poi finalmente, alla diciassettesima domanda che inoltrava, è stata assegnata a una scuola rurale nella zona di La Carlota, con uno stipendio di cinquemila dollari all’anno.
I suoi studenti di seconda media erano figli di pescatori e di coltivatori di canna da zucchero. Arrivavano a scuola in anticipo, anche se dovevano camminare più di un chilometro e mezzo. La chiamavano “signora”. Le portavano pranzi cucinati in casa. Alla fine di ogni settimana le scrivevano biglietti per ringraziarla. Speravano di diventare ingegneri, medici o insegnanti, e si offrivano di restare a scuola anche dopo le lezioni per continuare a studiare invece di andare a lavorare nei campi.
Obreque curava un corso pomeridiano per i ragazzi che avevano difficoltà con la lettura. Ha guidato il club dell’innovazione della scuola fino alla vittoria alle finali regionali. Durante la pandemia ha registrato videolezioni e si è spinta fino ai villaggi più remoti per fare visita ai ragazzi a casa. Così è arrivata al primo posto nella classifica degli insegnanti e ha cominciato a ricevere chiamate dalle agenzie di reclutamento dall’estero.
“Insegna ai migliori del mondo in America!”, diceva la brochure di un’agenzia. Obreque e il marito ne hanno parlato a lungo, e hanno concluso che un aumento di stipendio di trentamila dollari valeva il sacrificio di vivere lontani per un po’.
Lei ha fatto colloqui via Zoom con i dirigenti di scuole del New Mexico e dell’Arizona, poi è arrivata l’offerta per insegnare a Bullhead City con un visto J-1, che le avrebbe permesso di vivere negli Stati Uniti per tre anni. Ha chiesto un prestito di ottomila dollari con tassi di interesse molto alti per pagare l’agenzia, il biglietto aereo, due completi per il nuovo lavoro e il primo mese d’affitto di un appartamento con due stanze che avrebbe diviso con altre cinque insegnanti, anche loro straniere.
Prendere il controllo
Il sole sta tramontando sul deserto del Mojave mentre l’auto sale su una collina e poi scende verso Bullhead City, una cittadina di 40mila abitanti che il fiume Colorado separa dai casinò di Laighlin, in Nevada. Costeggiano campi di caravan e ristoranti messicani fatiscenti.
“Benvenute a casa”, dice Cuevas mentre Obreque osserva dal finestrino le poche luci della città.
“È più piccola di come la immaginavo”, commenta Obreque.
Decide di provare con una tattica che ha usato alcune volte nelle Filippine: si mette in piedi davanti agli alunni e resta in silenzio
“Qui tutto è diverso da quello che ti aspetti”, risponde Cuevas.
La mattina dopo Obreque si alza dal materasso sistemato sul pavimento. Sente ancora gli effetti del fuso orario. Indossa uno dei suoi completi nuovi e sale in macchina con altre quattro insegnanti della Fox Creek junior high.
Per prima cosa deve salutare Lester Eastman, il preside. Lo trova che sta studiando gli orari del giorno per risolvere l’ennesimo rompicapo: ha un insegnante di sostegno invece di tre, deve coprire cinque ore di arte, cinque di inglese, dieci di matematica, dieci di scienze e cinque di giornalismo. Tutti i docenti disponibili dovranno occuparsi di una classe in più del previsto. Lui stesso passerà la giornata a insegnare matematica, mentre il vicepreside penserà alle ore di arte. “Come tappare i buchi in una barca che affonda”, commenta Eastman mentre scrive gli orari, poi lascia l’ufficio per accogliere le nuove insegnanti.
“Che ore sono adesso nelle Filippine?”, chiede salutandole con una stretta di mano.
“È domani, signore”, risponde Obreque.
“Bene, vi do un po’ di tempo per guardarvi intorno prima di andare in classe”, dice il preside, poi pensa a cos’altro vorrebbe dire alle nuove arrivate e a come descrivergli Fox Creek. Potrebbe spiegare che la scuola ha ricevuto una F dallo stato dell’Arizona poco prima della pandemia (il dipartimento dell’istruzione assegna ogni anno a tutte le scuole pubbliche un voto che va da A, il migliore, a F, il peggiore). O potrebbe parlare dei punteggi dei test standardizzati, per cui meno del 20 per cento degli studenti è in possesso di buone competenze di inglese o matematica e più della metà è indietro di qualche anno rispetto alla classe frequentata.
Ci sarebbe anche il tema dei quattro miliardi e mezzo di dollari di tagli all’istruzione approvati dallo stato nell’ultimo decennio, che lo hanno costretto ad accorciare la settimana scolastica a quattro giorni e hanno ridotto gli stipendi dei suoi insegnanti, che sono tra i meno pagati del paese. O il fatto che molti insegnanti del distretto stanno lavorando oltre l’età della pensione e fanno molte ore di straordinario perché non vogliono lasciare indietro studenti che sono già stati abbandonati tante volte. C’è la mensa scolastica – tutti gli studenti della Fox Creek hanno i requisiti per ricevere un pasto gratuito o scontato. Ci sono le conseguenze della pandemia, che ha decimato i croupier dei casinò e gli addetti ai servizi alberghieri (in città il covid-19 ha ucciso quasi l’1 per cento della popolazione).
Ma Eastman vuole che almeno per qualche settimana gli insegnanti si concentrino sugli studenti. Dopo anni di didattica a distanza o mista, nel 2021 alcuni di loro sono tornati a scuola a tempo senza sapere come bisogna comportarsi in aula: le interruzioni sono continue, le sospensioni sono quasi raddoppiate, undici insegnanti su 28 si sono dimessi alla fine del 2021, e Eastman ha detto a chi è rimasto di non andare avanti con i programmi finché non sono sicuri di avere la classe sotto controllo.
“Regole. Procedure. Gestione della classe”, ribadisce Eastman. “Questi alunni possono essere come i dinosauri di Jurassic park. Testano la solidità dei recinti. Spostano i confini. È nel loro dna”.
“La disciplina è essenziale”, commenta Obreque. “La fermezza è importante”.
“Alcuni di questi ragazzi prendono chi è timido e tranquillo e se lo mangiano a colazione”, continua il preside. “Se otterrete il loro rispetto farete grandi cose”.
Poi accompagna Obreque in aula, dove per oggi il suo lavoro consisterà semplicemente nell’osservare. La donna prende appunti guardando l’insegnante di educazione fisica che zittisce la classe con il fischietto. Poi arriva Cuevas per la lezione successiva, e invita Obreque a raggiungerla davanti alla cattedra per presentarsi.
“Sono miss Obreque, e sono onorata di essere la vostra nuova insegnante”, comincia lei.
“Miss che?”, chiede un alunno. “Può parlare più forte?”.
Lei annuisce facendo un passo avanti. “Miss Obreque”, ripete, e subito alcuni studenti cominciano a parlare l’uno sopra l’altro.
“È severa?”.
“Quanti anni ha? Sembra una liceale”.
“È sposata?”.
“Può dire di nuovo il suo nome? Miss prof qualcosa?”.
“Alzate la mano, per favore”, dice Obreque. “Staremo insieme in quest’aula per tutto l’anno. Se voi rispetterete me, io rispetterò voi. Se voi mi vorrete bene, anch’io vi vorrò bene”.
Alcuni scoppiano a ridere e poi cominciano a urlare altre domande. “Uno alla volta, per favore”, li interrompe Obreque. Ma viene sopraffatta da un coro di voci, finché Cuevas batte le mani e alza la voce: “Ragazzi, basta!”. Distribuisce il lavoro che devono svolgere sul vocabolario e Obreque osserva la lezione prendendo appunti fino al suono della campanella.
In bagno
“Com’è andata?”, le chiede Eastman più tardi, incontrandola in corridoio.
“Sto imparando molto, signore”, risponde lei.
Lui alza il pollice e torna nel suo ufficio per lavorare all’orario del giorno dopo. Ventisei caselle vuote. Diciannove insegnanti oberati di lavoro che dovranno tappare i buchi nella loro unica ora libera. Una ha il diabete e il medico le ha detto di prendersi più pause per recuperare. Un altro ha confessato a Eastman di avere paura che lo stress gli faccia venire un infarto.
“Sono persone che amano il loro lavoro, ma abbiamo raggiunto un punto di rottura”, dice il preside. Spera che con qualche aiuto e una certa supervisione le nuove insegnanti possano garantire un po’ di sollievo. Clicca su un quadrato bianco che indica una lezione d’inglese in una terza media e scrive: “Obreque”. In piedi davanti alla classe, si stringe le mani per non farle tremare.
“Cominciamo con qualcosa di facile”, dice agli studenti mentre l’insegnante di educazione fisica prende posto in fondo all’aula, nel caso le serva un aiuto. Distribuisce agli studenti un foglio bianco e spiega il loro primo compito: piegare il foglio in tre, scrivere il proprio nome a caratteri grandi e copiare alcune regole da rispettare in classe. “Vedete? È semplice”, commenta sollevando il foglio e facendo vedere come piegarlo in tre. “Ci sono domande?”.
Una ragazza al primo banco alza la mano: “Posso andare in bagno?”, chiede.
“Certo”, risponde Obreque, e un altro studente si alza in piedi. “Anch’io. Bagno”.
“La prossima volta per favore alza la mano”, dice Obreque. “Ok, vai pure”.
I ragazzi si mettono a piegare il foglio mentre Obreque gira tra i banchi per seguire il loro lavoro. Sono 24, la metà di una classe nelle Filippine. Hanno tutti uno zaino e il materiale scolastico necessario. Hanno un’aula dotata di attrezzature tecnologiche all’avanguardia e aria condizionata.
“Ottimo lavoro”, commenta vedendo una ragazza che disegna cuoricini e traccia una cornice intorno al nome. Poi si dirige verso gli ultimi banchi, dove un gruppo di ragazzi sta parlottando in cerchio. “Vediamo i vostri progressi”, dice. Un ragazzo alza il foglio piegato con la scritta “Uomo Ciambella”, mentre i compagni ridono. Un altro ragazzo ha costruito con il foglio un aeroplanino. Un altro lo ha fatto cadere sul pavimento e colpisce il fianco del banco con la matita.
“Va tutto bene?”, chiede Obreque. “Perché non stai partecipando?”.
“Perché questa è rotta”, risponde il ragazzino sbattendo la matita forte contro il banco fino a spezzarla. Raccoglie i due mozziconi e li esibisce come prova. “Cosa vuole che faccia?”, chiede sorridendole. Obreque lo guarda per un attimo e poi dà a se stessa la colpa di quel comportamento. Forse, non ha spiegato chiaramente cosa devono fare. Forse invece di cominciare la lezione con i cartellini del nome, doveva partire dalle regole, così avrebbero saputo come comportarsi. Torna a mettersi davanti alla classe.
“Guardate qui”, dice mentre molti studenti continuano a chiacchierare. “Cinque, quattro, tre…”, dice mentre gli alunni urlano più forte di lei, fino a quando il professore di educazione fisica soffia il fischietto e lancia un avvertimento: “Provate a farlo con me e vedrete cosa succede. Fate silenzio e ascoltate l’insegnante”.
Obreque gli fa un cenno d’intesa e continua. “Voglio che questa classe sia metodica. Non siamo animali. Non siamo nella giungla. Dobbiamo uniformarci alle regole, o non avremo successo nell’apprendimento, giusto?”.
“Sì, ragazzi… non siamo animali”, ripete uno studente, e a quel punto alcuni cominciano a fare versi della giungla finché il professore di educazione fisica soffia di nuovo il fischietto. “Se volete essere rispettati, dimostratemi rispetto”, insiste Obreque. “Gli esseri umani dovrebbero essere in grado di seguire alcune semplici istruzioni. Venite a scuola per imparare, no?”.
“Gli studenti qui sono difficili, ma hanno bisogno di voi”, dice Cuevas alle colleghe. “Forse potete fare qualcosa per motivarli”
“Noo, ci vengo perché sono obbligato dai miei genitori”, ribatte un ragazzo mentre si volta a sorridere al compagno di banco.
“Sì, e anche perché non ti hanno ancora espulso, miracolosamente”, aggiunge un altro compagno urtando la spalla del primo studente.
“E perché le ragazze sono maledettamente carine”, gli risponde quello colpendolo a sua volta al braccio.
“Basta!”, grida Obreque con un tono di voce più alto di quello che aveva mai usato in sette anni di insegnamento nelle Filippine. “Qual è un esempio di comportamento dignitoso e rispettoso? Per favore, alzate la mano e rispondete”.
Un ragazzo al primo banco alza un braccio coperto di griglie del tris disegnate con l’evidenziatore.
“Sì”, dice Obreque. “Grazie di esserti offerto volontario”.
“Posso andare in bagno?”, chiede lo studente.
Lei sospira e annuisce girando lo sguardo nell’aula alla ricerca di un’altra mano. “Qualcun altro?”, chiede. “Nessuno? Ricordate, la collaborazione è molto importante per fare in modo che la classe ottenga buoni risultati”.
“Bagno?”, chiede un altro studente, ma prima di poter rispondere Obreque sente la campanella, e tutti si precipitano fuori. Il professore di educazione fisica rimette in tasca il fischietto. “Mi spiace. Certe volte sanno essere brutali”, le dice e se ne va lasciandola sola nell’aula. Lei cerca di dare un senso a quello che è appena successo. Sedici ragazzi le hanno chiesto di andare in bagno. Solo in sette hanno scritto il nome sul cartellino.
“Posso fare molto meglio di così”, dice a se stessa mentre si prepara per incontrare un’altra classe. Avrebbe cominciato ricordando le regole scolastiche. Avrebbe instaurato l’ordine. Avrebbe preteso rispetto invece di chiederlo.
“Posso andare al bagno?”, domanda uno studente poco dopo l’inizio della lezione. Obreque scuote la testa.
“Non ora”, risponde. “Stiamo lavorando”.
Lo studente dà un pugno sul banco e si volta verso il compagno. “Questa vuole che me la faccia addosso”, commenta, e Obreque gli dice di spostarsi dall’altra parte dell’aula.
“Insomma, siamo in America! Abbiamo il diritto di andare al bagno”, dichiara un altro ragazzo, e altri ancora gli fanno eco per dargli ragione. Obreque sta sforzando le corde vocali in modo che la sua voce superi i loro strilli. “Voglio che ascoltiate!”, dice. “Non siamo nella giungla. Siamo persone, giusto? Non possiamo andare avanti con tutte queste interruzioni”.
Piangere tutti i giorni
“Non possiamo andare avanti!”, urla un alunno quasi ad annunciare vittoria, e anche altri si mettono a ridere e a urlare. “Per favore, un po’ di rispetto!”, insiste Obreque, ma solo pochi sembrano starla a sentire.
“Cinque, quattro, tre, due, uno”, urla Obreque, ma non si calmano, e quando arriva a zero la aspetta solo un’umiliazione ancora più grande. Decide di provare con una tattica a cui ha fatto ricorso alcune volte nelle Filippine: si mette in piedi davanti agli alunni e resta in silenzio, spostando lo sguardo da uno studente all’altro, aspettando che si rendano conto di come si stanno comportando.
Un ragazzo si mastica il colletto della camicia. Una ragazza sta attaccando una matita a ogni dito con il nastro adesivo per poi fingere di artigliare il compagno vicino a lei. Due giocano all’autoscontro con i banchi. Una sta versando dell’acqua da un bicchiere nella bocca di una compagna, che poi sputa l’acqua addosso a uno studente lì a fianco. “Uh, signora miss prof, posso andare a lavarmi via quest’acqua che mi hanno sputato addosso?”, chiede. Un ragazzo in piedi sta facendo lo sgambetto al suo amico. Una ragazza gioca all’impiccato alla lavagna. Un suo compagno si sta avvicinando alla cattedra con un foglio arrotolato in modo da sembrare un microfono e finge di intervistare Obreque: “Allora, cosa pensa della vita a Fox Creek?”.
“Ho sentito la campanella!”, grida uno, e in dieci schizzano via dai banchi.
“Aspettate che vi dia il permesso di uscire!”, protesta Obreque guardando l’orologio perché non ha sentito nessuna campanella e non è sicura che la lezione sia finita.
“Abbiamo sentito la campanella”, conferma un altro studente aprendo la porta per andarsene, e in un attimo tutti sono fuori, l’aula è vuota. Obreque si mette la mano sulla gola dolorante. Cancella il gioco dell’impiccato dalla lavagna e comincia a raccogliere gli aeroplanini di carta e i bigliettini sparpagliati sul pavimento. “Riuscite almeno a capirla?”, dice uno dei bigliettini. Lei lo lascia cadere nel cestino e tira fuori il telefono, dove c’è un messaggio del marito. “Sono orgoglioso di te”, le ha scritto. “Sono sicuro che farai un’ottima impressione”.
Si asciuga gli occhi, rimette il telefono nella borsa e solo a quel punto sente suonare la campanella.
Vorrebbe andarsene da Bullhead City, riattraversare il deserto fino a Las Vegas e prendere un aereo per La Carlota, ma ha ottomila dollari di debito e le Filippine sono lontane undicimila chilometri. L’unico posto sicuro in cui può pensare di rifugiarsi è l’aula vuota di Cuevas, alla fine dell’orario scolastico. Tre altre insegnanti filippine hanno avuto la sua stessa idea. Sono già sedute nella stanza, e cercano di recuperare le forze dopo la giornata di lavoro. Obreque fa cadere la borsa per terra e le raggiunge.
“Non so cosa dire”, esclama.
“Un giorno di scuola qui è come un mese nelle Filippine”, commenta una insegnante.
“Cinque di questi studenti sono come venti a casa”, aggiunge un’altra.
“Non so come gestirli”, continua Obreque. “Non riesco a stabilire un contatto, non riesco a insegnare”. Guarda Cuevas. “Mi dispiace di averti delusa. Ci può essere una sconfitta peggiore che piangere il primo giorno?”.
“Oh, io ho pianto tutti i giorni per sei mesi,” risponde Cuevas. Le altre insegnanti la guardano incredule. La considerano un modello, ben inserita, sicura di sé. Ha aperto un canale YouTube su cui condivide suggerimenti didattici, è appena stata scelta come impiegata del mese dal distretto scolastico di Bullhead City. “Sono stata l’insegnante peggiore per un anno intero”, dice. “Gli studenti mi mettevano i piedi in testa. Avevo perso l’autostima. Volevo tornare a casa”.
Cuevas racconta che ha avuto bisogno di un anno per ripagare il debito con l’agenzia che l’aveva portata negli Stati Uniti, due anni per prendere la patente e tre per lasciare la stanza che condivideva con altre insegnanti straniere e trasferirsi in un appartamento tutto suo. Ha chiesto il prolungamento del visto J-1 per rimanere a Bullhead City altri due anni mentre continuava a riflettere su come costruire un rapporto con gli studenti. “Dovete dimostrargli di tenerci veramente,” dice. Un giorno è andata in un supermercato e ha comprato di tasca sua il materiale necessario per decorare l’aula come se fosse un cinema la notte della prima, con un tappeto rosso, una porta per i vip e uno striscione con la scritta: “Ogni studente è una star”.
Ha cominciato ad assistere agli incontri sportivi, a restare nel pomeriggio per le partite di pallavolo o di basket, e a guardare i video di YouTube per capire le regole del football americano. Vedeva tutti i film della Marvel di cui gli alunni parlavano durante le lezioni. Telefonava ai genitori non solo quando era preoccupata, ma anche per congratularsi di un buon risultato. Un po’ alla volta ha superato il formalismo tipicamente filippino e ha cominciato a parlare con i ragazzi della loro vita. Loro le hanno mostrato una versione dell’America molto diversa da quella che lei si era immaginata: famiglie violente, persone che vivono per strada, morti per overdose, ideologie complottiste, solitudine, suicidi, alcolismo e povertà. Una situazione brutta almeno quanto quella che aveva incontrato nelle Filippine.
“Per tanti versi, sono ragazzi feriti, che soffrono,” spiega. E proprio questo l’ha portata ad ammirare i colleghi per la loro dedizione e ad apprezzare gli studenti per la loro resilienza, la loro irriverenza, la loro spavalderia, la loro sincerità e, soprattutto, per la loro vulnerabilità.
È diventata una delle insegnanti più amate in una scuola che non riusciva a trovarne abbastanza. Eppure tra otto mesi il visto scadrà e lei dovrà tornare nelle Filippine.
“Gli studenti qui sono difficili, ma hanno bisogno di voi”, dice alle colleghe. “Forse potete fare qualcosa per motivarli, per trasmettergli speranza”.
“Non so se riuscirò ad aiutarli”, dice Obreque.
“Non c’è nessun altro che possa farlo”, risponde Cuevas.
Il giorno dopo la migliore insegnante di La Carlota è in piedi davanti alla sua aula. “In classe si entra così”, dice agli studenti formando una fila e accompagnandoli dentro. “Così si gettano via i rifiuti”, dice passando accanto al cestino della carta straccia e lasciando cadere un foglio. “Così si sta seduti e si ascolta”, dice sedendosi dietro un banco e restando ferma. “E così si partecipa alla lezione,” dice alzando la mano destra.
Tre paragrafi
La lezione del giorno consiste nella comprensione di un testo di tre paragrafi. Un tipo di compito che i suoi alunni di seconda media nelle Filippine svolgerebbero in venti minuti, ma a Fox Creek, secondo il rapporto dello stato, solo il 19 per cento dei ragazzi e delle ragazze di terza media ha buone competenze di lettura. Così Obreque ha pensato di cominciare con calma usando una tecnica che aveva imparato all’università, basata sulle cosiddette competenze cognitive di ordine superiore: si tratta di fare semplici domande di comprensione dopo ogni frase della storia, per rendere gli alunni più sicuri e incoraggiare la partecipazione. Obreque consegna il testo, preso dal programma della scuola, e legge ad alta voce il titolo: “Vita, libertà e Ho Chi Minh”.
“Bene, il titolo della nostra lettura di oggi è vita, libertà e cos’altro?”, chiede.
“Ho chi Minh?”, rispondono alcuni ragazzi.
“Sì, bravissimi”, dice Obreque soddisfatta. Chiede che qualcuno legga ad alta voce e, visto che nessuno si offre volontario, indica un ragazzo al primo banco.
“Sul serio?”, chiede lui. Obreque annuisce. “Bene. Come le pare”, dice il ragazzo curvandosi sul foglio. “Nel 1941 Ho era già noto per essere un… mi dispiace, non conosco la prossima parola”.
“Accanito”, dice Obreque leggendo con lui.
“Ok. Sì. Accanito. ‘Un accanito sostenitore dell’indipendenza vietnamita. Ho…’”.
“Ho!”, esclama un altro ragazzo ridendo.
“Sta’ zitto e fammi leggere”, protesta il primo studente.
“Ohoh! Attento a come parli, fratello. Non siamo nella giungla, ti ricordi?”.
“Si, e allora com’è che sto per darti un cazzotto sul muso?”.
“Basta!”, grida Obreque, ma diversi alunni continuano a ridere e a strillare, finché arriva un altro insegnante dall’aula accanto. “Pensate che mi diverta a sentirvi oltre la parete?”, dice. “Non è divertente, è imbarazzante. Comportatevi meglio”.
Stanno cercando di leggere sette frasi da mezz’ora, e Obreque comincia a perdere la voce. “Per favore, mi sto facendo male per farmi sentire”, dice mettendosi una mano alla gola, e poi torna a indicare il testo e chiede a un altro ragazzo di leggere un passaggio che spiega come Ho Chi Minh si era ispirato alla Dichiarazione di indipendenza americana.
“Okay”, dice Obreque quando lo studente ha finito di leggere. “Ho Chi Minh viveva dall’altra parte dell’oceano. Perché pensate che abbia preso a esempio gli Stati Uniti?”.
Gli studenti la guardano.
“Perché l’America? Cosa c’è di così speciale nell’America?”.
“Soldi facili e fast food”, risponde uno.
“Sì, d’accordo. Il fast food è un prodotto di esportazione. Ma cos’è che rende grande questo paese?”.
Aspetta un attimo mentre gli studenti chiacchierano, scrivono biglietti, piegano aeroplanini, si dimenano sulla sedia, fissano il vuoto e appoggiano la testa sul banco, finché una ragazza finalmente alza la mano e si mette in piedi.
“Bagno?”, chiede. Obreque annuisce e si volta verso il resto della classe.
“L’America è un faro di libertà, giusto?”, chiede. “Avete l’istruzione. Avete l’indipendenza. Potete raggiungere qualunque obiettivo, giusto?”.
Si guarda intorno e non vede mani alzate, nessuna risposta, niente di niente per placare il dubbio che si sente crescere dentro, e allora prova a porre di nuovo la domanda.
“Gli Stati Uniti non dovrebbero essere un modello per il mondo?”. ◆ gc
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Questo articolo è uscito sul numero 1493 di Internazionale, a pagina 50. Compra questo numero | Abbonati