La bambina si arrampica sui tetti di lamiera delle baracche per inseguire un topo grosso come un coniglio, poi si ferma a guardare con trepidazione il cielo.
“Penso che pioverà”, dice.
Come il padre, il nonno e il bisnonno prima di lei, Aurora, otto anni, è cresciuta in una baraccopoli di Messina, in Sicilia. Come i suoi parenti, anche lei sa che la pioggia è una brutta notizia. L’acqua gocciola attraverso i tetti rivestiti di amianto, penetra nei muri e allaga le strade. Per mantenere i bambini asciutti, a volte gli adulti devono portarli sulle spalle.
Tante promesse
Nel 1908, un devastante terremoto colpì Messina uccidendo circa metà della popolazione e facendo crollare il 90 per cento della città. Le autorità costruirono delle baracche temporanee, promettendo che in seguito per gli sfollati sarebbero state costruite case più strutturate.
Ma a più di un secolo di distanza, circa 6.500 persone vivono ancora in alloggi di fortuna intorno a Messina, una città incuneata tra pinete, alberi di eucalipto e lo stretto che separa la Sicilia dall’Italia continentale.
“Dopo il terremoto dissero: ‘Starete lì per un paio di giorni’”, spiega Domenica Cambria, 66 anni, raccontando cosa dissero le autorità ai suoi nonni subito dopo il sisma. “Invece è stato per sempre”.
Una catastrofe più recente sembra poter essere stata finalmente l’occasione per mantenere le promesse di 113 anni fa.
Dopo che i focolai di coronavirus nelle baraccopoli della città hanno attirato l’attenzione del governo, nei provvedimenti per frenare la pandemia l’esecutivo ha stanziato cento milioni di euro per migliorare la situazione abitativa di Messina. L’obiettivo è trasferire tutti dalle baracche entro tre anni. “Un paese occidentale, un paese europeo come il nostro, non può tollerare situazioni come quella di Messina”, ha dichiarato a maggio la ministra italiana per il sud e la coesione territoriale Mara Carfagna, annunciando le nuove misure.
Riflettori accesi
Qualche tempo fa, Marcello Scurria, presidente dell’Arisme, l’agenzia comunale per il risanamento e la riqualificazione urbana di Messina, ha parcheggiato vicino alla baraccopoli di Giostra. Lo scorso dicembre nell’area s’era acceso un focolaio, perché il virus si era diffuso attraverso gli stretti vicoli e le case ammassate. Appena il dirigente è sceso dall’auto, gli abitanti del quartiere gli hanno chiesto subito quando sarebbero arrivati i soldi per le nuove case e quando la loro vita sarebbe finalmente cambiata.
Scurria aveva buone notizie.
“Il governo comincerà presto a distribuire le case”, ha detto, “e sarete i primi ad averne una”.
E ha aggiunto che il governo ha anche dato al prefetto poteri speciali per gestire i trasferimenti. Secondo Scurria è stata una mossa decisiva per aggirare la burocrazia che in passato ha paralizzato i tentativi di demolizione e ricostruzione.
I genitori coprono le pareti macchiate di umidità con le foto dei figli mandati a vivere altrove da parenti a causa dell’asma
Per quanto devastante sia stato il suo effetto, sostiene il presidente dell’Arisme, il nuovo coronavirus ha solo aggravato un’emergenza sanitaria già presente in quei quartieri. Nelle baracche umide, costruite con materiali carichi di amianto, i tassi di tumore, asma e polmonite sono alti: in media chi abita qui vive sette anni in meno rispetto al resto della popolazione messinese, afferma un rapporto della Fondazione di comunità di Messina, un’organizzazione non profit che si occupa di promuovere lo sviluppo umano sostenibile.
“Il coronavirus ha acceso i riflettori su una situazione che non volevano vedere”, afferma Cateno De Luca, sindaco di Messina, riferendosi al governo. Dal 2018, quando è stato eletto, De Luca lavora per svuotare le baraccopoli e attirare l’attenzione nazionale sul problema.
Nel più antico di questi quartieri sono ancora visibili le parti in legno delle baracche originarie, rappezzate negli anni con sottili muri di cemento, reti metalliche, compensato, lamiere e tubi di plastica. Altre furono costruite negli anni trenta dal regime fascista di Benito Mussolini. Intorno, sotto i cavalcavia dell’autostrada, dove crescono piante di bouganvillea, si sono moltiplicati gli alloggi più recenti, che sono diventati uno dei segni distintivi della città portuale.
Le famiglie che ci abitano fanno quello che possono per farle sembrare case. Dipingono le pareti con colori vivaci, riparano incessantemente i tetti, le fognature e tappano i buchi scavati dai vermi. Alcuni all’interno usano profumi forti per coprire l’odore della spazzatura che viene dall’esterno. I genitori coprono le pareti macchiate di umidità con le foto dei figli mandati a vivere altrove da parenti a causa dell’asma o di altre malattie. Le madri promettono alle figlie un balcone, come era stato promesso a loro. I sogni su ciò che potrebbero offrire le nuove case sono modesti. “Vorrei avere una porta, un campanello”, dice Carmelo Gasbarro, 47 anni. “E un tetto su cui non si sente la pioggia quando cade”.
Ancor prima del finanziamento speciale, il sindaco De Luca è riuscito a svuotare sette dei 72 gruppi di baracche della città, fornendo nuove abitazioni a trecento famiglie. Ora, con i cento milioni di euro in arrivo da Roma, l’amministrazione punta a sgomberare tutte le baraccopoli rimaste. Ma molti abitanti sono scettici. “Non mi fido più di nessuno”, dice Sebastiano De Luca, 58 anni, che vive in un gruppo di baracche stretto tra un canale ostruito e l’obitorio del più grande ospedale di Messina.
Per decenni i politici hanno visitato i quartieri prima delle elezioni, promettendo alloggi in cambio di voti. De Luca, che non è parente del sindaco, dice che una volta ha contribuito a portare centinaia di voti dei suoi vicini a un candidato che gli aveva assicurato che appena insediato avrebbe distribuito le case. La promessa non è mai stata mantenuta.
“Mi ha preso in giro”, dice De Luca dopo aver trascorso la notte a piedi nudi sotto la pioggia per liberare il canale di scolo dai sacchi della spazzatura e dai rifiuti ed evitare l’allagamento della strada. Il gruppo di baracche in cui vive non è una priorità per l’amministrazione, quindi lui e i suoi vicini – compresa la piccola Aurora – dovranno aspettare un po’ di tempo per entrare nelle nuove case. Si comincerà dalla baraccopoli Taormina che, con circa 430 famiglie, è la più grande della città. Il progetto è abbattere le fragili abitazioni e costruire al loro posto appartamenti a risparmio energetico.
Una vita ad aspettare
Domenica Cambria, la donna che ricordava la promessa fatta nel 1908 dalle autorità a suo nonno, è seduta nella baracca del quartiere Taormina ereditata dai suoi genitori e che a volte condivide con tredici parenti. “Spero che prima diano una casa a voi”, dice a sua nuora Salvatrice Mangano, 39 anni e una figlia che soffre di asma. “No, dovrebbero darla prima a te”, le risponde la nuora. “È una vita che aspetti”.
Come aspettano molti altri, tra cui Provvidenza Fucile, 82 anni, che vive in una baraccopoli vicino al cimitero, diventato uno dei più grandi d’Italia a causa di tutte le tombe delle vittime del terremoto del 1908.
Uscendo dal suo alloggio di legno – dove combatte quotidianamente con le radici degli alberi che spuntano dal pavimento e le serpi che cadono attraverso i buchi del tetto – Fucile non è ottimista sul al piano del governo. “Mio marito ripeteva sempre che saremmo morti in questa baracca”, dice. “E in effetti lui è morto qui”. ◆ bt
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Questo articolo è uscito sul numero 1436 di Internazionale, a pagina 37. Compra questo numero | Abbonati