El Jacalito non era esattamente un bar o una sala concerti. Qualunque fosse il suo status giuridico (è stato chiuso molte volte dalle autorità), per dodici anni, fino alla chiusura definitiva nel 2016, per i nostalgici del latin rock, era un’isola felice, una delle poche rimaste a Città del Messico. L’altra, il Multiforo Alicia, che tutti credevamo intoccabile, ha chiuso quest’anno. A quanto pare, noi millennial siamo stati gli ultimi appassionati di questa musica.
L’elettronica e il reggaeton si sono impossessati della vita notturna messicana, e sono sempre meno i locali che suonano rock en tu idioma, “rock nella tua lingua”, come fu etichettato il genere alla fine degli anni ottanta. Dopo una serata electropop o techno in un cocktail bar fighetto di Roma Norte, i nottambuli entravano al Jacalito accolti dal frastuono, amplificato dalle dimensioni minuscole della sala e dai bassi esagerati delle casse da quattro soldi: i riff selvaggi dei Soda Stereo, le voci urlate dei Café Tacvba, la batteria brutale dei Molotov. E ballavano, bevevano e cantavano finché non erano troppo ubriachi o il locale chiudeva.
I nottambuli erano accolti dal frastuono: i riff dei Soda Stereo, le voci dei Café Tacvba. E ballavano, bevevano e cantavano finché non erano troppo ubriachi o il locale chiudeva
Il locale stesso ricordava gli hoyos funky (buchi funky), gli spazi che negli anni settanta ospitavano illegalmente i primi concerti rock. I bagni puzzolenti, la mancanza di un vero bar, il senso di clandestinità: gli ingredienti erano gli stessi. Quello che si ascoltava al Jacalito, però, non era underground: era la versione più commerciale del latin rock, quella suonata dalla fine degli anni ottanta in poi, quando le case discografiche usarono finalmente le orecchie e cominciarono a investire cifre più consistenti per organizzare concerti e produrre album. Anche in questo sound ripulito, però, si percepiva lo spirito di rivolta che faceva sentire i frequentatori degli hoyos funky dei ribelli anticonformisti. Era presente nella voce delicata di Gustavo Cerati, il cantante del gruppo argentino Soda Stereo. In Cuando pase el temblor (1985), una canzone che mescola influenze new wave e ritmi andini: “C’è una crepa nel mio cuore… So che t’incontrerò tra queste rovine… Svegliami quando finisce il terremoto”. È presente in Gimme tha power (1999) della band messicana Molotov, nel flusso del testo colorito e in parte rappato rivolto ora ai messicani ora al governo, all’epoca ancora in mano al Partido revolucionario institucional che da settant’anni spadroneggiava nel paese: “E se ti trattano come un delinquente, non è colpa tua, ringrazia il presidente”. E poi “Dammi, dammi, dammi tutto il power così te lo mettiamo nel culo”.
Cantare queste cose, per un ragazzo che intorno al 2015 frequentava il Jacalito, voleva dire comunicare con tempi e luoghi distanti, ma in qualche modo vicini. Anche noi ci sentivamo disperati, anche noi avevano bisogno di uno sfogo: non perché vivessimo sotto una dittatura o perché una giunta militare avesse schiacciato la nostra democrazia, ma perché c’era comunque qualcosa che ci opprimeva. O così credevamo.
In Rompan todo. La storia del rock in America Latina, un documentario in sei puntate uscito nel 2020 su Netflix, ricorre continuamente la parola “libertà”. Il rock è “fottuta libertà”, dice il cantautore argentino Fito Páez all’inizio della prima puntata. “Chiedevamo solo un cambiamento per la libertà”, dice Armando Suárez del leggendario gruppo messicano Chac Mool. “Qual era per te il messaggio o il sentimento di quell’epoca?”, domanda l’intervistatore a Norberto “Pappo” Napolitano, uno dei primi chitarristi rock argentini. “Be’, la libertà”, risponde lui, senza esitazioni. “Era la ragione di tutto. Vivere in libertà”.
Rompan todo è il primo documentario esaustivo sul rock latinoamericano, e sposa l’idea che dietro alla musica ci fosse una motivazione politica. Il racconto ripercorre le tappe fondamentali del movimento – i concerti storici, i gruppi più importanti, gli album più influenti – presentandole non come una realtà lontana dalla lotta politica ma come una risposta diretta a quelle turbolenze.
La prima parte della serie, che va dagli anni cinquanta agli anni ottanta, analizza le tensioni tra le dittature e i giovani che le contrastavano attraverso le proteste e i movimenti artistici. Si sofferma in particolare sulla presidenza di Luis Echeverría in Messico e sui regimi militari di Jorge Videla in Argentina e Augusto Pinochet in Cile. La seconda parte si focalizza su conflitti politici ed eventi politico-economici più specifici – le guerre della droga in Messico e in Colombia, la firma dell’Accordo nordamericano per il libero scambio (Nafta), la crisi finanziaria degli anni novanta in Argentina – e su come le ultime incarnazioni del latin rock hanno reagito a questi processi o, a volte, li hanno sfruttati commercialmente.
La storia comincia nel 1958 con Ritchie Valens, un azzimato cantante che faceva furore negli Stati Uniti con la sua versione rock’n’roll di La bamba, una canzone tradizionale messicana. Anche i ragazzi a sud del Rio Grande cominciarono ad apprezzare il brano, in parte per le origini messicane di Valens, in parte perché era la dimostrazione che il rock poteva essere cantato in spagnolo. Fino a quel momento, la musica commerciale era stata per lo più importata dagli Stati Uniti: Elvis Presley, Frank Sinatra, le big band. Valens insegnò ai giovani messicani che potevano tradurre i testi nella loro lingua e perfino scrivere cose loro.
Il risultato era una musica che condivideva lo spirito allegro e ottimista del rock’n’roll ma che suonava nuova. “Un sacco di musicisti guardano la nostra musica dall’alto in basso”, dice Rafael Acosta del gruppo messicano Los Locos del Ritmo. “Dicono che siamo solo degli imitatori”. Eppure, nonostante la sua banalità, questo rock canalizzava quello che i giovani messicani vedevano o proiettavano in Valens: uno spirito di rivolta. Anche se il bersaglio, all’epoca, era solo il dominio della musica statunitense e inglese.
Dopo essere arrivato in Messico dal Nordamerica, il rock’n’roll si diffuse rapidamente a sud. I primi rocker sudamericani tendevano a imitare le loro band preferite: in Uruguay, Los Shakers diventarono una sorta di Beatles locali. Ma l’imitazione richiedeva un vero stile. “Sono stati capaci di estrarre l’essenza musicale dei Beatles, decodificarne il dna e tradurlo nella cultura uruguayana”, osserva il musicista argentino Pedro Aznar.
Come racconta Rompan todo, con l’arrivo degli anni sessanta, quando il rock si lasciò alle spalle lo stile composto ed educato e alcune band cominciarono ad avere successo, emerse una frattura. “All’inizio il beat e il pop andavano a braccetto”, dice l’argentino Gustavo Santaolalla, che interviene spesso nella serie e l’ha anche prodotta. “Poi il beat si è trasformato in musica commerciale, mentre il pop è diventato più progressista”. Non è un caso se lui si schiera dalla parte non commerciale, visto che è stato uno dei produttori di maggior successo di quella musica per tutti gli anni novanta e i primi duemila. È la musica che ha seguito il solco tracciato dai Beatles, quella “associata alle proteste studentesche, alle droghe, all’amore libero”, come dice il dj messicano Camilo Lara. “Abbiamo cominciato ad avere una coscienza sociale”, spiega il suo connazionale Martín del Campo. “Alcuni di noi s’interessavano di filosofia, di problemi che riguardavano la società e la politica”, racconta Emilio del Guercio, che suona nel gruppo argentino Almendra.
I governi autoritari dell’America Latina non vedevano di buon occhio questi fermenti di cultura hippy. “La polizia ci seguiva dappertutto e ci provocava di continuo”, ricorda Litto Nebbia, della band argentina Los Gatos. “Ci sbattevano sempre in galera”, dice del Guercio. “Alla fine ci lasciavano andare, ma prima dovevamo passare lì un po’ di tempo. Una volta hanno tagliato i capelli a uno della band. Tagliarci i capelli era come amputarci un braccio”.
All’orizzonte c’erano problemi ben più gravi. Nel 1968 il presidente Gustavo Díaz Ordaz decise di sedare le proteste studentesche che minacciavano le Olimpiadi di Città del Messico, così il ministro dell’interno Luis Echeverría inviò le forze armate, scatenando quello che sarebbe passato alla storia come il massacro di Tlatelolco, che provocò 325 morti e migliaia di feriti. La dittatura “morbida” non poteva essere più definita così. La maschera della democrazia era caduta: dietro c’era un partito che si era impadronito della presidenza nel 1929 ed era rimasto al potere grazie al sequestro, la tortura o l’omicidio dei dissidenti.
L’autoritarismo si stava diffondendo. Un serie di colpi di stato – nel 1955, nel 1962 e nel 1966 – vide una parata di despoti prendere il potere in Argentina. In Perù nel 1968 s’insediò una giunta militare. In Cile si stava preparando il golpe che nel 1973 avrebbe rovesciato Salvador Allende. Gran parte dell’America Latina, in altre parole, era alla mercé di questo o quel dittatore, e avrebbe continuato a esserlo fino alla fine degli anni ottanta.
L’ultimo sussulto fu un festival organizzato nel 1971 sulle rive del lago Avándaro, vicino a Città del Messico. Avándaro – la Woodstock messicana, come viene ancora chiamata – fu una tre giorni all’insegna di droghe, nudismo e rock. Inizialmente doveva essere una serata musicale per attirare il pubblico di una gara automobilistica che si sarebbe svolta il mattino dopo. Gli organizzatori si aspettavano 25mila persone, invece ne arrivarono oltre 250mila. Sul palco si esibirono molti dei primi gruppi rock messicani: i Three Souls in My Mind (progenitori degli El Tri, poi diventati una delle band più famose del paese), Los Dug Dug’s e i Peace and Love. Buona parte delle canzoni, con i loro testi banali e le loro melodie che ne imitavano altre, non era niente d’indimenticabile, ma la particolarità fu che canzoni erano rivolte direttamente al governo, dal 1970 guidato da Echeverría. La più significativa era Tenemos el poder, abbiamo il potere, dei Peace and Love. “Il ritornello orecchiabile intonato da decine di migliaia di bocche finì per spaventare l’esecutivo”, ha scritto nel 2011 il critico musicale messicano Federico Rubli Kaiser. La stampa controllata dal regime denunciò l’evento accusandolo di promuovere la degenerazione e addirittura il satanismo. Poco dopo, il rock fu sostanzialmente messo al bando e dovette passare in clandestinità.
Era facile vedere in tutto questo la reazione di un potere spaventato. Qualcuno, però, si domandava se i giovani rockettari avessero davvero la forza, o la voglia, di mettere paura a un governo sanguinario. Nel suo pionieristico saggio sul rock latino e la cultura che lo circondava, pubblicato lo stesso anno del festival, l’autrice messicana Margo Glantz descriveva il movimento da lei stessa ribattezzato Onda (“estar en la onda” era un’espressione gergale messicana per dire essere “in”) come un collettivo di artisti, soprattutto scrittori e musicisti, che con il loro stile esprimeva una sensibilità controculturale. Nel loro rifarsi al rock e al beat statunitensi, scriveva Glantz, questi artisti non combattevano per un ideale politico: la loro era solo una posa.
Uno combatte per una causa perché sa cos’è l’oppressione, osservava Glantz, perché è direttamente interessato dall’esito della lotta, e questi ragazzi non lo erano. Costituita in gran parte da giovani della classe media, l’onda non contemplava la presenza di adolescenti indigeni, contadini, o anche solo provenienti dalle piccole città. “La gioventù ribelle che si oppone alla società e critica le vecchie generazioni, in realtà, è un fenomeno comune nella storia”, scriveva. “Questi ragazzi usano il linguaggio del sottoproletariato e lo vestono con i ritmi della musica rock”. I frequentatori degli hoyos funky e dell’Avándaro, secondo Glantz, non volevano il cambiamento politico, volevano solo essere en la onda.
Eravamo così anche noi, una generazione dopo. El Jacalito ha permesso a tutti quelli che non avevano vissuto gli anni sessanta e settanta di crogiolarsi nell’imitazione di quella ribellione velleitaria. Una volta Paco Ayala, il bassista dei Molotov, ha detto che la canzone Puto (1997) – in cui il titolo, un insulto omofobo, viene gridato rabbiosamente contro un destinatario non specificato – non è stata scritta pensando ai gay ma “ai politici vigliacchi e corrotti”. La spiegazione mi ha sorpreso. Qual era, in effetti, il motivo per cui facevamo tremare le pareti del Jacalito urlando all’unisono “Putoooo!” ogni volta che la parola ricorreva nella canzone? Ce l’avevamo davvero con i politici? O volevamo semplicemente scaricare la tensione gridando un generico vaffanculo? La risposta di Glantz sarebbe stata inequivocabile: quella era musica per dei ribelli senza una causa.
Alla fine, il latin rock entrò a far parte del mainstream. La svolta arrivò con quando il Regno Unito vinse la guerra delle Falkland del 1982. Incattivito dalla resa forzata, il governo argentino, ancora guidato da una giunta militare, vietò la musica inglese e così le emittenti locali cercarono materiale in lingua spagnola che fosse abbastanza innocuo da poter essere mandato in onda, ma allo stesso tempo abbastanza popolare da convincere gli ascoltatori a rimanere sintonizzati. Il latin rock era la scelta più ovvia. Per sancire l’ingresso del genere nella cultura ufficiale, il governo riesumò il festival Buenos Aires Rock, che si era tenuto l’ultima volta dieci anni prima. Le band non sembravano avere problemi a lavorare con un potere contro il quale si erano sempre schierate. Anche in Messico si stavano aprendo nuove opportunità commerciali per il rock locale dopo l’elezione, sempre nel 1982, di Miguel de la Madrid, primo di una serie di presidenti più favorevoli al mercato. In Argentina la democrazia fece il suo ritorno nel 1983, quando si tennero le prime elezioni dall’inizio della dittatura del 1976, e in Cile nel 1990, dopo il referendum che mise fine al regime di Pinochet.
La regione si aprì al commercio globale e agli investimenti esteri, e le aziende nordamericane dell’intrattenimento ne approfittarono. Nel 1990, l’unica casa discografica che pubblicava musica rock in Messico era la Arrabal Producciones; nel 1998, l’86 per cento del mercato era controllato da etichette straniere – Bmg, Warner Music, Polygram, Emi, Sony Music, Universal Music – più la messicana Fonovisa. Nel 1993 l’arrivo di Mtv in America Latina fu uno spartiacque, perché radicò le imprese statunitensi e diede un profilo internazionale al rock locale. L’emittente contribuì a rendere i musicisti famosi all’estero. Il rock messicano riempiva gli stadi in Cile, quello argentino li riempiva in Messico, e negli Stati Uniti e in Europa vendeva bene. Gli autori non potevano più coltivare la loro immagine da outsider: erano diventati delle celebrità.
L’iniezione di denaro contribuì anche ad alzare il livello delle produzioni. E il successo, a sua volta, portò il latin rock a prendere più consapevolezza di sé. Diretto discendente di quello nordamericano, era sempre stato un genere destinato ad allargare il suo pubblico. Oggi i gruppi della prima ora suonano molli e datati. Quelli nati dagli anni ottanta in poi alzarono l’asticella. Non solo registravano in studi professionali con strumenti d’importazione, ma suonavano con più energia e gridavano più forte. Ascoltandoli era impossibile rimanere fermi.
Questa evoluzione era studiata a tavolino. Santaolalla, che lavorava per case come la Sony Bmg e la Warner Music, era abilissimo a riconoscere le band che avrebbero potuto attirare le folle. “Lo chiamavo il guru”, dice Tito Fuentes dei Molotov all’inizio di Rompan todo. Santaolalla lanciò molti dei più grandi nomi del genere negli anni novanta e duemila: Maldita Vecindad, Molotov e Café Tacvba in Messico; Juanes in Colombia; Los Prisioneros in Cile; Bersuit Vergarabat in Argentina e molti altri. Gli appunti al documentario si sono concentrati soprattutto su questa selezione, e in particolare su chi ne fu lasciato fuori. Molti si sono lamentati dell’esclusione delle donne, di band importanti anche se meno commerciali, delle scene musicali di interi paesi come Brasile, Ecuador, Venezuela, Panamá e Perù. La critica Macarena Polanco ha ribattezzato la serie “la passione del rock secondo Santaolalla”.
Per quanto queste accuse siano fondate, è inevitabile che un documentario che parla di un argomento così ampio faccia una selezione. Forse gli artisti scelti dalla serie non sono i più interessanti, ma sono comunque i più rappresentativi e popolari. E spesso sono stati scoperti da Santaolalla.
C’è però un’omissione più grave, se la storia che Rompan todo pretende di raccontare è quella della resistenza della musica all’autoritarismo in America Latina. È l’esclusione della nueva canción, un genere più impegnato e vittima di una repressione ben più dura.
La nueva canción, come il latin rock, sbocciò negli anni sessanta e settanta, ma seguì la traiettoria opposta, diffondendosi dal sud al nord. Era un movimento molto radicato nel territorio. Si usavano soprattutto la chitarra e la voce, a cui spesso si aggiungevano strumenti indigeni come il charango, la quena e la zampoña. Ascoltare la nueva canción voleva dire entrare in contatto con l’America Latina rurale: la voce di Mercedes Sosa faceva eco ai ritmi di San Miguel de Tucumán, la città in cui era nata, nel nord dell’Argentina: percussioni profonde, quasi primitive, accompagnavano il suo canto ardente. L’ensemble degli Inti-Illimani – bombo, archi, quena – era letteralmente il prodotto dei boschi delle Ande, da dove venivano gli strumenti usati nelle prime esibizioni del gruppo a Santiago alla fine degli anni sessanta. Non c’era nessuna ricerca di virtuosismo musicale o raffinatezza estetica. L’esperienza della nueva canción era imperniata sui testi delle canzoni – che parlavano di gauchos, di giustizia, della realtà sociale del paese – e sull’idea di suonare per entrare in contatto con la gente che soffre.
La nueva canción nacque dagli incontri clandestini – peñas – che i giovani organizzavano nelle case o, a volte, nelle chiese durante gli anni della dittatura in Cile e in Argentina (il clero, protetto in qualche misura dalla violenza dello stato, era spesso coinvolto nei movimenti di sinistra). Gli amici s’incontravano in questi spazi per comporre e suonare canzoni, mangiare e bere insieme e formarsi politicamente, soprattutto sulla “filosofia della liberazione”. Sviluppata da intellettuali latinoamericani come Enrique Dussel, Rodolfo Kusch, Arturo Roig e Leopoldo Zea, la filosofia della liberazione fondeva l’economia marxista e la teologia con l’obiettivo di fare luce sulla vita politica della regione e analizzare l’autoritarismo che l’opprimeva. Parte del lavoro di questi intellettuali era favorire l’alfabetizzazione e la presa di coscienza tra i poveri nelle favelas brasiliane, nei villaggi sperduti del nord dell’Argentina, nelle comunità isolate delle Ande. E anche se il movimento era nato nelle università, si radicò rapidamente tra le fasce emarginate della popolazione. I suoi sostenitori non erano figli di avvocati o banchieri della classe media ma appartenevano ai due estremi dello spettro socioeconomico: da una parte contadini e operai, dall’altra l’élite intellettuale rappresentata da poeti e filosofi.
Siamo di fronte a due modi chiaramente distinti di fare musica per reagire all’oppressione. Mentre il latin rock è urlato e punta alla distrazione, la nueva canción è mite, quasi suadente. Le voci del primo vibrano di disperazione, l’altra è quasi sempre pacata. I testi rock parlano di esperienze individuali, la nueva canción si rivolge alla collettività. Il rock tende a essere un’espressione del desiderio, la nueva canción sembra una dichiarazione di princìpi. La canzone più famosa di questo genere, Gracias a la vida, sottolinea l’importanza di distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato e di contare sul proprio lavoro e la propria fatica. Più immediatamente riconoscibile nella versione di Mercedes Sosa ma resa famosa negli Stati Uniti da Joan Baez all’inizio degli anni settanta, la canzone fu scritta dalla poeta cilena Violeta Parra un anno prima che si suicidasse, nel 1967. Le parole sono allo stesso tempo dolci e aspre, delicate e cariche della tragedia incombente, sia nella vita di Parra sia in America Latina dopo il 1968, l’anno del massacro degli studenti a Città del Messico.
Sarebbe sbagliato dire che il rock latino e la nueva canción non si sono mai fusi, ma sarebbe altrettanto scorretto dire che sono la stessa cosa. Rompan todo fa di tutta l’erba un fascio in un episodio in cui accenna brevemente a uno dei principali esponenti della nueva canción, il cantante cileno Victor Jara. A differenza dei musicisti rock, nel documentario Jara non viene presentato come un artista da apprezzare per la sua musica (lo si sente cantare in sottofondo nei pochi minuti che gli vengono dedicati), ma come il martire. Il suo nome viene citato solo per dire che fu assassinato nel 1973 dal regime militare che rovesciò Allende. Dato che la musica praticamente non si sente, lo spettatore non può sapere che, in realtà, questa tragedia non ha niente a che fare con il rock latino.
L’episodio finale di Rompan todo racconta di come il latin rock è stato politicamente rinvigorito dall’insurrezione del 1994, quando l’Esercito zapatista di liberazione nazionale, un collettivo di militanti in maggioranza maya del Chiapas, lo stato più povero del Messico, si dichiarò indipendente. Dopo la ratifica del Nafta, le terre comunali indigene avevano perso la protezione legale per non essere vendute. L’insurrezione era l’ultima spiaggia degli zapatisti. “A un tratto, la nostra generazione, che consideravamo un po’ nichilista, sposò la causa zapatista”, dice Camilo Lara.
I Café Tacvba e altri gruppi oggi classici come Santa Sabina, La Lupita, Botellita de Jerez e Maldita Vecindad tennero un concerto di beneficenza sul piazzale dell’Unam, l’università più grande dell’America Latina, a Città del Messico, devolvendo parte dell’incasso agli zapatisti. Animate da un senso di urgenza politica, le esibizioni furono ancora più rumorose del solito. Rubén Albarrán dei Café Tacvba ricorda: “Credo che quel concerto ci abbia riempiti di energia e di vibrazioni positive. Ci siamo detti, ‘Wow, la nostra musica è al servizio della società!’”.
In tutto questo, Óscar Chávez, il più importante esponente della nueva canción in Messico, andò di persona in Chiapas e per anni continuò a fare visita ai militanti. Nel 2000, il comandante David, uno dei leader zapatisti, gli scrisse una lettera aperta scusandosi per l’assenza dei capi del movimento a un concerto che Chávez aveva tenuto a Oventic, la capitale del territorio zapatista. “Non è comune che un artista della statura morale e del prestigio di Óscar Chávez si esibisca su una terra insorta”, scrisse dal suo nascondiglio. “Ci creda, per noi è più vicino di quanto queste parole possano esprimere; sentiamo che il suo canto avrà la stessa eco che la speranza ha sempre da queste parti”. Chávez continuò a esibirsi fino alla vecchiaia alla Peña Tecuicanime di Città del Messico, dove l’ingresso costava circa dieci dollari e dove i musicisti condividevano non solo musica, ma anche i pasti (molletes, comprese nel prezzo del biglietto) e il tempo per conversare con il pubblico. È morto di covid nel 2020, in uno dei tanti ospedali pubblici scandalosamente sottofinanziati di Città del Messico.
Forse è ingiusto accusare i musicisti rock di essere diventati ricchi e di aver dato alla resistenza politica solo “energia e vibrazioni positive” anziché, come alcuni artisti della nueva canción, la vita. Dal loro punto di vista, fare rock poteva essere un modo per sentirsi vicini alla lotta degli attivisti e degli intellettuali. Ma sostenere, come fa Rompan todo, che il valore del latin rock sia nel suo presunto peso politico significa oscurare i suoi meriti reali – quello di aver dato una valvola di sfogo ai giovani e di aver trasformato una cultura importata in un’esperienza locale – e dimenticare che altri artisti hanno combattuto e sofferto davvero in nome del progresso.
Anni fa, a Buenos Aires, in qualità di unico messicano a un karaoke, mi hanno chiesto di cantare una canzone che tocca il cuore del mio paese. Nella lista dei brani disponibili c’erano molte canzoni rock, alcune orribili, altre bellissime, e anche alcuni classici della nueva canción che amo. Eppure, non ho potuto fare a meno di scegliere la cosa più ovvia e allo stesso tempo più inaspettata: gli argentini Soda Stereo. Il latin rock ci permetteva di esprimere un sentimento di esperienza condivisa. La nueva canción non era in grado di fare lo stesso, proprio perché aveva posizioni politiche radicali, quindi divisive. Però al loro meglio, entrambi i generi hanno cercato di reagire a un senso d’impotenza.
Noi latinoamericani non c’infiammiamo per i Soda Stereo, i Caifanes o Los Prisioneros perché dicono cose in cui crediamo, come invece facevano Victor Jara, Mercedes Sosa e Óscar Chávez. Non è questo che ci aspettiamo da loro. Il rock latino ci coinvolge perché abbiamo ancora bisogno di una catarsi, perché ci sentiamo ancora soffocati da società profondamente repressive. Perché anche se le dittature fanno ormai parte del passato, ci sentiamo ancora intrappolati nella periferia del globo.
Sì, vogliamo essere liberi, ma ogni tanto vogliamo semplicemente unirci agli altri: non per cambiare la nostra condizione ma, almeno per una notte e dopo fiumi di birra, non esserne oppressi. ◆ fas
Emmanuel Ordóñez Angulo è uno scrittore e professore messicano. Insegna negli Stati Uniti, alla Rutgers university, nel New Jersey, e alla New York university. Questo articolo è uscito sulla New York Review of Books con il titolo Give me all the power. È una recensione della serie tv Rompan todo. La storia del rock in America Latina (Netflix 2020).
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Questo articolo è uscito sul numero 1536 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati