Le coste erano coperte di pesci morti, “molti dei quali non si erano mai visti prima”. Andrés Lorenzo Curbelo, sacerdote del villaggio di Yaiza, era a Lanzarote quando, il 1 settembre 1730, la terra si aprì. Annotò quello che vide. Nel giro di pochi giorni le montagne si sollevarono e fontane roventi schizzarono in cielo. L’eruzione durò sei anni. Lava e cenere ricoprirono un quarto dell’isola. Quel disastro naturale le diede l’aspetto che ha oggi. A distanza di trecento anni gran parte dell’isola è ancora coperta dalla lava, con un paesaggio aspro e primitivo.

La quarta isola più grande delle Canarie, a 140 chilometri dalla costa marocchina e a mille chilometri dalla terraferma spagnola, è una popolare destinazione turistica, soprattutto d’inverno, quando in Europa piove e fa freddo.

Sull’isola abitano 150mila persone, ma in estate arrivano almeno tre milioni di turisti. Come a Gran Canaria, Tenerife e Fuerteventura, gli abitanti sono scesi in piazza contro il turismo di massa, anche se a Lanzarote, un’isola con un territorio arido e dove si coltiva poco, molti lavorano nel settore turistico. “La protesta non è diretta contro i turisti”, spiega Philine Morgenstern, tedesca, che vive sull’isola da vent’anni e lavora come guida turistica ed escursionistica. Il problema è il modo in cui si sta sviluppando l’accoglienza per i visitatori: “Si costruisce troppo e si affitta solo ai turisti. Chi abita qui tutto l’anno non riesce a trovare una casa”. Lo slogan delle proteste è Canarias tiene un límite (le Canarie hanno un limite).

Tunnel di lava

Eppure Lanzarote aveva scelto la strada della sostenibilità. A partire dalla metà degli anni sessanta, quando sulle isole vicine e sulla terraferma spagnola si costruivano alberghi senza pensare all’ambiente, un uomo sviluppò un’idea completamente diversa. César Manrique, nato sull’isola nel 1919, architetto, pittore e scultore, ci tornò alla fine degli anni sessanta dopo anni trascorsi a Madrid e a New York. Oggi la sua casa è un museo che racconta come unire natura e arte.

La Lanzarote in cui era cresciuto Manrique era povera, anche la scuola era un lusso. L’avvento del turismo prometteva prosperità. Negli anni sessanta il presidente dell’isola, che era un suo ex compagno di scuola, trovò in Manrique un alleato per elaborare un turismo sostenibile che avrebbe portato benefici sia ai residenti sia ai turisti. Il loro piano prevedeva villaggi in uno stile architettonico tradizionale, nessun edificio alto più di una palma, un limite al numero di posti letto e il divieto di affiggere grandi manifesti pubblicitari lungo le strade. La natura sarebbe stata vera attrazione turistica, resa accessibile con i jameos del agua, tunnel di lava in cui Manrique costruì un caffè e sale per eventi. Voleva che l’isola fosse un “paradiso di pochi”, un centro di attrazione per visitatori “curiosi, istruiti e sensibili”.

Purtroppo quell’idea non si è realizzata, ma almeno i centri turistici di Lanzarote non sono così estesi come altrove, e si concentrano sulla costa a sudest e a sud dell’isola: Costa Teguise, Puerto del Carmen e Playa Blanca. Al centro e al nord la situazione è più tranquilla, soprattutto perché gli ospiti dei pacchetti turistici passano il tempo soprattutto nei loro resort.

Manrique, morto in un incidente stradale nel 1992, approverebbe le attuali proteste contro il turismo di massa? Bettina Bork, che ha lavorato per anni con lui e che vive sull’isola dal 1993, dove gestisce il centro culturale Arte de Obra, racconta che molte delle idee dell’architetto sono state sacrificate alla crescita turi­stica.

I turisti possono venire sull’isola con la coscienza pulita? “Certo”, dice Bork, “Manrique direbbe: ‘Venite pure, ma passate la vostra vacanza in modo diverso’”. Per esempio come ospiti di alloggi gestiti o dati in affitto da persone del posto e prendendosi il tempo necessario per scoprire il paesaggio straordinario, invece di un rapido tour in autobus. A volte, però, è necessario: la stretta strada che si snoda attraverso il Parco nazionale di Timanfaya può essere percorsa solo con un tour guidato. Nel 1974 la zona a sudovest dell’isola è stata dichiarata parco nazionale. Il sottosuolo ribolle ancora per le eruzioni avvenute nel settecento: i cespugli secchi che i custodi del parco gettano in una buca prendono subito fuoco.

Ai margini del parco nazionale, è possibile anche andare da soli e a piedi, per esempio percorrendo il sentiero Ruta del litoral, dodici chilometri lungo la costa dove le onde s’infrangono sulla lava. È come se il mare continuasse sulla terraferma. I cespugli di euforbia balsamica si aggrappano alla roccia come coralli.

Anche la Caldera de los Cuervos, un moncone vulcanico appuntito a cui si può girare intorno, è facile da raggiungere, sia a piedi sia in mountain bike. In un punto la parete rocciosa è crollata e permette di vedere il cratere. Nelle vicinanze, un sentiero porta alla Montaña colorada, una montagna di colore rosso scintillante. Ai suoi piedi c’è un blocco di lava, alto un metro, che si è solidificato in volo.

Terreno aspro

Per salire alla Caldera de la Rilla si percorre un sentiero stretto attraverso un paesaggio di cenere. “Ora fate silenzio e chiudete gli occhi”, dice Juan Carlos, la nostra guida. Anche lui ha partecipato alle manifestazioni contro il turismo di massa “perché amo il mio lavoro”. Sul bordo del cratere regna il silenzio.

Ora riaprite gli occhi: ecco il deserto di pietra, apparentemente sterile. La lava solidificata sembra un’opera d’arte. Ma non è una roccia inutile: grazie alla ghiaia lavica a grana fine, chiamata picón, il vino prospera anche sull’isola secca. La vite si coltiva in una depressione a forma d’imbuto e le pareti naturali semicircolari proteggono le piante dal vento.

Però a Lanzarote l’agricoltura è faticosa e richiede molto lavoro manuale. La guida indica le aree terrazzate sui pendii durante un’escursione nel nord dell’isola. Qui non si coltiva più nulla, il terreno è esposto all’erosione. Non ne vale la pena, è più facile guadagnare con il turismo. Anche i dromedari, che un tempo erano imbrigliati all’aratro e trasportavano sulla schiena l’acqua o il raccolto, si sono riqualificati: ora trasportano i turisti.

Bork non vuole rinunciare all’idea di un turismo sostenibile, vorrebbe riportare gli animali per rivitalizzare l’agricoltura tradizionale e quindi parte del patrimonio culturale dell’isola: “I turisti sono invitati a dare una mano invece di restare in albergo. Scoprirebbero molte più cose”. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1596 di Internazionale, a pagina 76. Compra questo numero | Abbonati