Alle due del mattino eravamo di nuovo felicemente persi. Portici poco illuminati e portoni si riflettevano sulle acque verdi dei canali. Io e mia figlia Vivian, 16 anni, eravamo a caccia di leoni a Venezia, un appuntamento fisso ormai da sei anni.
Se ritornare ogni volta in questa antica trappola per turisti mi fa sentire vagamente stupido, mi consola pensare che anche uno dei visitatori più affascinanti al mondo, il poeta russo in esilio Iosif Brodskij, premio Nobel per la letteratura, ha fatto la stessa cosa per diciassette inverni, dando vita a quelli che molti considerano la bibbia dei diari di viaggio, Fondamenta degli incurabili (Consorzio Venezia Nuova 1989, Adelphi 1991), un centinaio di pagine di meditazioni vivide, profonde, spesso divertenti e impressionistiche sulla città che Brodskij definì “il capolavoro più grande che la nostra specie abbia prodotto”.
Il fascino di Venezia su Brodskij era accentuato dall’aver trascorso l’infanzia a San Pietroburgo (all’epoca Leningrado), un’altra città di canali, dove aveva vissuto in un appartamento in una strada trafficata accanto ai palazzi zaristi. “Anch’io, vissi un tempo in una città dove i cornicioni corteggiavano le nuvole con le statue”, scrisse.
La mia attrazione, invece, deriva forse dalla mia infanzia danese vicino alle placide acque del mar Baltico. E per Viv? Passeggiare per la città è l’unico sport di resistenza in cui gareggiamo alla pari e in cui ciò che la circonda supera lo schermo del telefono. Qui è una principessa guerriera.
Le guardie dell’Arsenale
Recentemente si è parlato di Venezia per la decisione di far pagare un ingresso ai visitatori, in modo da arginare le orde estive di turisti in stile parco Disney, ma in una notte di marzo la città era quieta ed evocativa come una tomba ornata. Zaffate di alghe marine sotto zero arrivavano dall’Adriatico. Viv aveva dispettosamente tirato fuori il suo cellulare, pur sapendo che possiamo usare le app di mappe solo come ultima spiaggia. “Non ancora”, le ho detto, e lei l’ha rimesso in tasca.
Abbiamo salito i gradini dell’ennesimo ponte, uno degli oltre 450 della città, e sbirciato la calle che portava alla piazza dove c’era il nostro leone, illuminato come un altare. La bestia di marmo, nota come il Leone del Pireo, fu saccheggiata dal porto di Atene nel 1687 e per me e Viv è ormai familiare quanto il cane di casa. È diventato un punto di riferimento delle nostre passeggiate. Protagonista indiscusso tra i quattro leoni, tutti diversi, che fanno la guardia ai cancelli dell’Arsenale, la ferocia dell’animale è addomesticata dal sapere che sui suoi fianchi si possono riconoscere iscrizioni runiche incise da mercenari vichinghi, nostri parenti.

Resisto all’abituale desiderio di dilungarmi sulla storia lunga 23 secoli del leone. Perché uccidere la sua bellezza con informazioni prese dalle guide turistiche? Il vero piacere di girovagare per Venezia è annegare il proprio ego in una grandezza indefinibile. “La città è talmente narcisista che ti trasforma la mente in un amalgama, alleggerendola del suo significato”, scrisse Brodskij. “Dopo un soggiorno di due settimane – anche alle tariffe di bassa stagione – ti ritrovi in bolletta e, insieme, sereno, come un monaco buddista”.
Negli anni sessanta la personalità libera e i suoi versi lo misero nei guai con le autorità sovietiche, che lo sottoposero a persecuzioni sempre più arbitrarie. Il poeta, che fino a quel momento era poco conosciuto, diventò il simbolo di una vicenda nota in tutto il mondo, finché nel 1972 i sovietici lo cacciarono dal paese con poco più di una piccola valigia di pelle in cui lui mise due bottiglie di vodka.
Si stabilì ad Ann Arbor, negli Stati Uniti, e insegnò all’università del Michigan, continuando a scrivere poesie. Quando nel 1987 vinse il Nobel conquistò la fama e, con le sue letture melodiche, riempiva le sale ovunque: non era più solo uno scrittore carismatico. Fondamenta degli incurabili _comincia con Brodskij che nel 1972 arriva per la prima volta a Venezia, in treno, alla stazione Santa Lucia, sperando di sedurre una conoscente del posto. La donna lo respinse, ma lui restò incantato dalla città di cui descrisse odori, superfici, atmosfere e sapori come un tenero amante: “L’amore è una _liaison tra un riflesso e il suo oggetto. È questo, in definitiva, che ti riporta a questa città”.
Tornò quasi ogni inverno, per godersi Venezia senza turisti. “L’inverno è una stagione astratta: smorza i colori e impone le leggi del freddo e delle giornate brevi”, scrisse. “Tutto è più sodo, più netto”.

Nel quartiere bohémien di Dorsoduro, sulla riva sud del Canal Grande, dove in alcuni bar ci sono cartelli che avvertono “niente turisti”, ho incontrato il pittore statunitense Robert Morgan, 82 anni, a cui Brodskij dedicò Fondamenta degli incurabili. Morgan abita a Venezia da mezzo secolo e lavora ancora nel suo studio. Dipinge vedute della città sfumate d’azzurro. Conobbe Brodskij quando entrambi non avevano trent’anni e con lui strinse un legame durato fino alla morte del poeta. “Ci prendemmo in simpatia perché eravamo due single lontani da casa e innamorati di questo posto. Camminavamo e parlavamo, spesso tutta la notte, senza una meta precisa, anche se tendevamo a ritrovarci in mezzo a donne, cocktail e cicchetti”, mi ha raccontato Morgan.
I cicchetti, la versione veneziana delle tapas, assolvono la città da decenni di mediocre ristorazione turistica. Spuntini che si sono rivelati essenziali anche nelle nostre abitudinarie passeggiate notturne. Invece di cenare nei ristoranti, io e Viv passavamo da un bar all’altro sgranocchiando merluzzo fresco, piccoli sandwich e verdure sottaceto.
Un tè con Susan Sontag
“Iosif ironizzava sul fatto che qui, ovunque mangiasse, avrebbe mangiato meglio del consiglio dei commissari del popolo russo che gli aveva creato così tanti problemi”, mi ha detto Morgan.
Il pittore mi ha invitato nel suo appartamento, tra quadri luminosi e fiori freschi, curato dalla moglie Ewa, una scrittrice di 52 anni. Ho preso un tè accompagnato da storie e pettegolezzi. Lo spirito vivace di Brodskij ha rianimato il suo amico ottuagenario. “Osservava tutto attraverso il fumo di una sigaretta e un bicchiere di whisky irlandese. Prendeva appunti mentalmente, sempre, pure se stava intrattenendo un intero tavolo”, ha ricordato Morgan.

Uscito dal suo appartamento ho camminato per una decina di minuti verso est fino a raggiungere calle Querini 252, una casa color salmone che è stata lo scenario di un provocatorio incontro letterario in Fondamenta degli incurabili. Una targa di marmo sopra lo stretto portone d’ingresso spiega che qui ha vissuto il poeta statunitense Ezra Pound, in compagnia dell’amante Olga Rudge, durante la seconda guerra mondiale, quando Pound trasmetteva per radio negli Stati Uniti la propaganda fascista. Brodskij scrisse di aver varcato quella porta nel 1977, cinque anni dopo la morte di Pound, insieme alla sua ragazza, la scrittrice Susan Sontag, per un tè con Rudge. Era sorvegliato da un busto di Pound dall’aspetto fallico, alto circa un metro. Anche se da giovane Brodskij aveva tradotto Pound in russo, le dichiarazioni a favore di Mussolini di Rudge e la presenza oppressiva del busto spinsero Sontag e Brodskij ad andarsene via molto presto. Oggi il busto è esposto alla National gallery of art di Washington.
Una mattina, dopo una passeggiata notturna, io e Viv siamo arrivati in piazza San Marco. Oltre la laguna stava sorgendo un pallido sole invernale i cui deboli raggi hanno inaspettatamente colpito le cinque cupole del duomo, accendendole come fari contro un cielo plumbeo.
Brodskij ha descritto le mattine invernali come fatte di “ ossigeno umido, caffè e preghiere”. Così i rintocchi delle campane hanno annunciato la messa del mattino, mentre i camerieri dei caffè portavano fuori tavoli e sedie. Era la nostra ultima tappa, come succedeva a Brodskij, che spesso si sedeva su queste sedie, con una sigaretta e un caffè. Il vizio del fumo e una salute cagionevole lo portarono alla morte all’età di 55 anni, a New York. Sua moglie, Maria Sozzani, che aveva conosciuto solo sei anni prima quando lei da studente aveva frequentato le sue lezioni, lo fece seppellire nel cimitero sull’isola di San Michele, a nord di Venezia.
Era stato un uomo drammatico, e anche al suo funerale non mancò un ultimo dramma. Morgan e Roberto Calasso, l’editore italiano di Brodskij, arrivarono al cimitero prima del corteo funebre e scoprirono che la sua tomba era accanto a quella di Pound. “Abbiamo spiegato che non era possibile seppellirlo lì, il personale del cimitero trovò in fretta e furia un posto qualche metro più in là. Quando arrivò la bara stavano ancora scavando”, ha raccontato Morgan.
L’isola dei morti
L’ultima sera io e Viv siamo arrivati con un vaporetto a San Michele, i cui cipressi torreggiano sopra le mura del cimitero come vele fantasma. “Adesso sapevo che cosa può significare per l’acqua essere accarezzata dall’acqua”, scrisse in modo sensuale Brodskij della traversata verso quest’isola della morte. Spesso si soffermava qui tra le tombe di tanti russi esiliati, in particolare del compositore Igor Stravinskij e dell’impresario del balletto Sergej Djagilev, sulla cui lapide i ballerini lasciano ancora le loro scarpette.
Io e Viv ci siamo avvicinati alla familiare lapide stondata di marmo bianco al confine della sezione protestante: due donne ucraine, in minigonna nonostante il freddo, stavano facendo dei selfie. Brodskij seduce anche dalla tomba.
San Michele chiude alle sei del pomeriggio. Siamo tornati al piccolo molo oltre i cancelli del cimitero mentre le luci notturne di Venezia riflettevano le torri medievali sulla laguna. La nebbia serale danzava oltre i muri e intorno ai cipressi. Mentre aspettavamo il vaporetto, uno dei gatti del cimitero si è avvicinato a Viv ricordandomi una frase di Fondamenta degli incurabili: “Se dovessi reincarnarmi, vorrei vivere a Venezia. Potrei essere un gatto o qualsiasi altra cosa, va bene anche un topo, purché a Venezia”. ◆ nv
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Questo articolo è uscito sul numero 1606 di Internazionale, a pagina 70. Compra questo numero | Abbonati