Il governo irlandese ha subìto una sconfitta umiliante nei referendum dell’8 marzo, che volevano rendere i riferimenti alle donne e alla famiglia nella costituzione più in linea con il presente. Per capire perché è successo, servono sia un’inquadratura in primo piano sia un campo lungo. L’esecutivo è caduto sui dettagli. Ma forse, cosa ancora più importante, ha frainteso cos’è oggi l’Irlanda.
Il primo piano è a fuoco. Dopo tanti errori, sappiamo quello che serve per fare bene i referendum: un’assemblea di cittadini, una relazione di tutti i partiti all’oireachtas (il parlamento), un esame del dáil (la camera bassa) e un’indicazione chiara agli elettori su quale potrebbe essere la nuova legislazione. È così che si testa la forza di una proposta.
Le consultazioni dell’8 marzo erano pensate per asportare la sensibilità cattolica degli anni trenta mettendo al suo posto i valori dell’Irlanda degli anni duemila
Il governo, per motivi incomprensibili, ha svuotato i primi due passaggi e si è sottratto agli altri due. Un’azienda non lancerebbe un nuovo gusto di gomma da masticare senza aver prima fatto un’indagine di mercato. Dublino invece ha cercato di vendere delle formule complesse con un “fidatevi, vi piacerà”. Si è posizionata in quel terreno in cui l’arroganza sconfina nella stupidità.
Se allarghiamo l’inquadratura, tuttavia, riusciamo a vedere un elemento più grande: un buco a forma di chiesa cattolica nell’immaginario politico dell’Irlanda. Qualcosa di grosso è svanito, ma il governo non ha saputo cosa mettere al suo posto. Le frasi della costituzione al centro dei referendum – la prima sulla definizione di famiglia, limitata a un’unione fondata sul matrimonio, e la seconda sul riferimento ormai superato ai compiti casalinghi delle donne – non sono solo frammenti di lessico giuridico. Esprimono una visione del mondo. Io non ammiro questa visione, e non piace nemmeno alla maggior parte degli irlandesi. Ma se togli alcuni pezzi di un mosaico, devi avere in mente un’immagine completamente nuova.
La concezione del mondo implicita nella costituzione irlandese del 1937 è quella della dottrina sociale cattolica degli anni trenta. Come tutte le ideologie religiose conservatrici, mette al centro il desiderio di controllare i corpi e le scelte delle donne. Le idee astratte sulla donna e la famiglia sono i pilastri del patriarcato. Sappiamo quanto inospitale è stata quella sacra casa per le persone confinate nei suoi seminterrati o respinti alle sue porte. Sappiamo quanta crudeltà era contenuta tra le righe della costituzione. Tuttavia, quelle dichiarazioni avevano un senso per gran parte della popolazione. Erano collegate ad altre cose all’interno della carta (il divieto di divorziare) e al di fuori (il divieto della contraccezione e una serie di leggi misogine). Come disse lo storico Emmet Larkin nel 1976, “la chiesa si era integrata a tal punto nel modo di vivere irlandese da essere diventata tutt’uno con l’identità nazionale”.
Insomma, le clausole costituzionali che il governo ha tentato di cancellare non sono solo dichiarazioni sul funzionamento dello stato. Sono portali attraverso cui è possibile accedere a una storia profonda. Forse per almeno un terzo della popolazione questa visione del mondo è ancora valida. Ma per la maggioranza è evaporata da tempo. L’apparato giuridico e sociale che la sosteneva è stato smantellato. I referendum sull’uguaglianza nel matrimonio del 2015 e quello sull’aborto del 2018 hanno confermato che ci troviamo in una realtà in cui quella visione del mondo non è più l’ideologia dominante. E, nonostante i sogni nostalgici dei conservatori, non tornerà.
Ma cosa prenderà il suo posto? I referendum dell’8 marzo avrebbero dovuto essere un trapianto di cuore, pensato per asportare la sensibilità degli anni trenta mettendo al suo posto i valori dell’Irlanda degli anni duemila. Il problema è che le parole nuove non avevano un cuore. Oggi al posto della dottrina cattolica come ideologia dominante si è imposto un managerialismo senza passione. Certo, la maggior parte degli irlandesi vuole vivere in un paese ben governato. Ma governare bene un paese implica molto di più che tenere in piedi la baracca: c’è un fine morale. Non c’è bisogno di farsi ingannare dalla fantasia reazionaria che considera l’Irlanda cattolica un paradiso per capire che, pur con tutte le sue ipocrisie e meschinità, quel paese dava alla gente un’idea di qualcosa di più grande dell’efficienza economica. O per rendersi conto di come il collasso di quel sistema di convinzioni lasci un vuoto nella vita collettiva.
Non è difficile immaginare cosa potrebbe riempire quello spazio vuoto. Ci sono valori repubblicani forti condivisi da molti irlandesi: onestà, uguaglianza, il desiderio di vivere in modo sostenibile. Quando le viene chiesto di affrontare complesse questioni costituzionali e politiche, la gente comune torna sempre a quei valori e cerca di tradurli in parole. La lezione di questo fiasco è: ascoltatela. ◆ fdl
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Questo articolo è uscito sul numero 1554 di Internazionale, a pagina 36. Compra questo numero | Abbonati