Una bambina di quattro o cinque anni sta colorando su un tavolino basso. La memoria può fare brutti scherzi: l’immagine è sfocata e abbastanza instabile. So però che quella bambina sono io e che sua nonna, che sta badando a lei (dove sono i suoi genitori? Non lo so) l’ha sorpresa a darsi delle arie.
“Voglio farlo vedere alla mia mamma e al mio papà”, dice la bambina, indicando il disegno.
Ogni cosa – nome, casa, appartenenza, opportunità di vita – può essere negoziata e cambiata. L’adozione va più a fondo anche di quei diritti che consideriamo parte dell’individuo
“Non sono la tua mamma e il tuo papà”, dice la vecchia strega seduta sul divano. “La tua vera mamma e il tuo vero papà sono da qualche altra parte”.
Nel mio ricordo la bambina non si vede in faccia; continua a colorare. Ma le parole hanno poteri magici. Vera… vero… da qualche altra parte. Questa frase risucchia la realtà da tutto ciò che la circonda: il tappeto rosso, il tavolo di formica blu, l’imbottitura del divano da cui sua nonna la sta guardando.
È una frase capitale della mia vita, perché questo è il momento in cui scopro di essere stata adottata.
Reprimerò questo ricordo per decenni, e per tutti i soliti motivi. Come ogni bambina, voglio essere felice. Eppure ciò che rende l’adozione un’esperienza così straniante, così letteralmente unheimlich, così spiazzante, non ha nulla a che vedere con le famiglie infelici o gli abusi infantili. Anzi, credo che il motivo per cui pochissime esperienze di bambini adottati diventano di dominio pubblico sia proprio che non sono le classiche storie strappalacrime. Al centro dell’adozione c’è una serie di domande esistenziali sull’identità e sui fondamenti del sé.
Spesso i bambini adottati sono costretti a porsi domande come “Chi sono io?” e “Cosa significa essere me?” quando sono ancora troppo giovani per affrontare un’esperienza così destabilizzante. E non possono mai metterla da parte. Questo intreccio sfuggente e instabile tra narrazioni alternative è ciò che li definisce.
Quasi inevitabilmente, alla rivelazione di mia nonna segue una scena in bagno – forse quella sera, forse a distanza di giorni – in cui la me bambina, dopo aver sentito un commento apparentemente irrilevante di mia madre su come i bambini crescono nella pancia, protesta in lacrime: “Ma io sono sempre la tua bambina, vero?”. Cercavo, come avrei fatto per anni, una sorta di inalienabilità. Mi ricordo lo specchio del bagno, la luce fredda.
Naturalmente, però, nel triangolo dell’adozione non esiste alcuna inalienabilità. L’adozione si basa esattamente su questo. All’interno di questa alienabilità, ogni cosa – nome, casa, appartenenza, opportunità di vita – può essere negoziata e cambiata. L’adozione va più a fondo anche di quei diritti che consideriamo parte dell’individuo e ci aiutano a definirlo: l’autodeterminazione, la vita, la libertà, la ricerca della felicità. L’adozione dice che nemmeno l’identità dell’individuo è intrinseca. Nemmeno, per dirla in un altro modo, l’individualità stessa.
Per il bambino, questa alienabilità totale significa che in lui o in lei non c’è niente d’intrinseco che garantisca un legame con qualcuno. Ciò che è stato scelto può essere scartato. La mancanza esistenziale di coscienza del dono con cui convivono gli adottati spiega perché, ai nostri occhi, le storie dei “genitori” adottivi che restituiscono i “loro” figli al sistema quando le cose non vanno bene non sono solo abusi: sono un orrore indicibile. Non le leggiamo solo con compassione, ne siamo lacerati.
Eppure, alcuni genitori biologici abbandonano i figli, o sono costretti a consegnarli ad autorità di vario tipo, oppure per indigenza o malattia non sono in grado di crescerli. Alcuni muoiono. I loro figli sono rapiti da regimi, enti di beneficenza, trafficanti di esseri umani. Vista così, la vita familiare normale – bambini che crescono in famiglie biologiche di qualsiasi tipo: acquisite, a metà, monoparentali, gay, con fecondazione in vitro, con i nonni – è paurosamente casuale. E anche nelle famiglie biologiche non c’è una garanzia assoluta d’inalienabilità. Dai divorzi nascono battaglie per l’affidamento; i fratelli si separano da adulti; spesso i genitori offrono un amore severo ai figli tossicodipendenti.
Ma non vogliamo pensare a queste cose. È già abbastanza difficile cercare di capire chi siamo, pagare le bollette, guadagnarci in qualche modo da vivere. Avere qualcosa su cui contare nella buona e nella cattiva sorte – qualcosa che faccia pensare all’assoluto, anche nel contesto della più mondana delle vite – è molto allettante. La retorica politica delle “famiglie che lavorano” – evocata da tutti i grandi partiti del mondo – attraversa l’intero spettro ideologico. Ma è la destra, naturalmente, a fare maggiore resistenza contro tutte le persone che ritiene prive dello status sociale della famiglia nucleare, di solito prendendo di mira le madri single e la comunità lgbtq+.
Anche gli adottati sono privi di quello status sociale. E questo mi porta a chiedermi perché, quel pomeriggio d’estate nella nostra casa suburbana nel sudovest dell’Inghilterra, mia nonna abbia deciso di tirare fuori la storia della mia adozione. Dai diari di famiglia che ho ereditato, ho scoperto che era contraria all’idea fin dall’inizio. Eppure, a quei tempi, la fecondazione in vitro non esisteva, e non c’era altra soluzione all’infertilità. Ogni settimana, in chiesa, pregavamo per la “donna sterile”, e quando sono diventata abbastanza grande per capire cosa volesse dire ho cominciato a sentirmi in imbarazzo per mia madre. Forse mia nonna, inconsciamente, dava la colpa a mio padre. Ho cominciato a notare che nessuno dei due miei genitori adottivi andava d’accordo con i suoceri. Secondo i genitori di mio padre mia madre era sfacciata e pretenziosa, mentre la famiglia di mia madre considerava mio padre, figlio di un parroco di campagna, troppo terra terra.
Dov’ero io in tutto questo? Siccome ero una bambina problematica, credo che ognuna delle due fazioni m’identificasse con l’altra. Fino alla pubertà sono stata la cocca di papà; di sicuro, a cinque anni ero già un topo di biblioteca come lui. In un mio ricordo d’infanzia, quando avevo due anni, mia madre – che era dislessica – mi strappa un giornale dalle mani.
Forse mia nonna considerava me e mio padre una specie di guaio in cui si era cacciata sua figlia. O forse si stava solo affidando al pensiero magico. Del resto, l’idea dell’alienabilità dei legami familiari più stretti può fare paura. E l’adozione, che si fonda su questo rischio, lo ricorda costantemente alla società mentre al tempo stesso lo nega, fingendo che questo processo correttivo sia un lieto fine che spazza via tutti i problemi.
In realtà, può essere solo un finale più lieto, non lieto in assoluto. Naturalmente, ogni bambino che riesce a sfuggire a un istituto e a crescere circondato dall’amore di una famiglia adottiva ha un finale più lieto. E se è vero che amare il figlio biologico di un estraneo è più difficile che farlo con il proprio – altrimenti perché le matrigne avrebbero una reputazione così terribile nella saggezza popolare? – queste famiglie e questi bambini sono innumerevoli. Ma dire che tutto questo ha lo stesso valore di un legame familiare che non si è mai interrotto significa confondere un imprevisto con il bene assoluto. È come sostenere che un’operazione perfettamente riuscita dopo un incidente sia come non aver avuto mai l’incidente.
La nuova famiglia adottiva, che si forma come una cicatrice, è costruita sulla perdita e la rottura. Deve provare a rimarginare tutti i lati della sua triade: quello dei genitori biologici che hanno perso (o scelto di perdere) un figlio; quello dei genitori adottivi che spesso devono affrontare l’infertilità e la rinuncia al sogno di “un bambino tutto loro”; e quello dell’adottato, che crescerà senza il privilegio rassicurante di una famiglia “tutta sua”.
Con il passare degli anni sono arrivata alla conclusione che mia nonna volesse anche stuzzicarmi. La mia psiche di bambina, tentacolare come un’anemone marina, si chiudeva di fronte alla sofferenza. E si era effettivamente chiusa. Mia nonna si era sentita spinta a fare ciò che aveva fatto perché ero un’estranea all’interno della famiglia. Un’estranea talmente strana e anomala da riuscire a superare più esami (e molto più difficili) dei suoi quattro nipoti biologici.
Ma avevo dovuto sforzarmi per farlo e, come si deduce da questo sforzo, nella mia esperienza convivere con l’adozione significa convivere con l’ansia. La pressione sociale che ci spinge a essere riconoscenti c’impedisce di parlare dell’enorme difficoltà di essere stati adottati. Da bambini si è teneri e carini per definizione, ma intorno agli adottati ci sono sempre aspettative negative. Non che io fossi tenera e carina: la strategia di mia madre era tenermi sempre leggermente denutrita e piena d’impegni, costantemente malaticcia, per sottolineare il suo animo caritatevole nel crescere una bambina le cui origini, nella migliore delle ipotesi, potevano definirsi comuni.
Molti adottati che ho conosciuto sono (o erano) teneri e carini. Si sforzavano di brillare come io mi sforzavo di fare la brava. Obbediente e operosa, volevo disperatamente compiacere il prossimo. Ogni tentativo di farsi amare è un tentativo di seduzione. La mia teoria, basata solo sull’esperienza di quello che ho visto succedere a diversi miei coetanei, è che i bambini adottati sono particolarmente vulnerabili alle molestie. Casi che sono finiti sui giornali, scandali noti solo ai compagni di classe: forse sono stata fortunata a essere una bambina scialba e goffa. Non posso dimenticare tutti quelli che hanno abbandonato la scuola o che si sono uccisi.
Tutti questi sforzi innocenti nascono dalla consapevolezza di essere una fonte di ansia per le nostre famiglie adottive. La nostra macchia diventerà evidente con il passare del tempo? Diventeremo cattivi, disonesti oppure – era una preoccupazione in particolare per le ragazze, ai miei tempi – promiscui? Ma anche il contrario: quali talenti, quali capacità, quali punti di forza inaspettati potranno emergere dal profondo mistero delle nostre origini di figli non biologici? Da bambina, per esempio, ero attirata dai libri come un’anatra dall’acqua. Ma ero anche inevitabilmente più impacciata degli adulti che vivevano con me. Questo stadio naturale dello sviluppo era interpretato come una caratteristica intrinseca – la scarsa coordinazione – a cui crescendo mi sono adeguata: i bambini sono molto accondiscendenti. Sospetto che rispetto agli altri bambini i figli adottivi tendano più spesso ad assumere dei ruoli all’interno della famiglia: buono, cattivo, cervellone, stupido, sportivo, carino, biondo, cupo, divertente… Nel mio caso in casa ci comportavamo tutti come se io fossi una bomba inesplosa. Il vetro intagliato sulla credenza, con le bellissime porcellane accatastate all’interno, sembrava tremare al mio passaggio, e io tremavo a mia volta. Avevo paura che, senza nemmeno toccarlo, avrei potuto scheggiare o rompere qualcosa.
Essere un figlio adottato è un’attività competitiva. In altre parole: essere abbastanza bravi, assimilarsi, combattere per essere accettati, non essere, ma essere come. Per me voleva dire, tra le altre cose, non avere mai il permesso di uscire di casa con i miei amici adolescenti. L’adozione è impegnativa per tutti, anche quando funziona. Per questo trovo incomprensibile la moda di mettere sui social network i video degli adottati e degli adottanti che s’incontrano per la prima volta. Non è solo un problema di curiosità morbosa: è che le persone che li postano e li guardano sembrano incapaci di coglierne l’evidenza.
Oggi, molte adozioni nazionali, almeno nel Regno Unito, sono aperte. Il bambino o la bambina intorno a cui è istruita la pratica sa da dove viene. La famiglia adottiva a volte rimane addirittura in contatto con quella d’origine nei primi anni dell’infanzia. Quando ero piccola, invece, le adozioni non solo erano quasi sempre retroattivamente chiuse ma erano gestite alla cieca, senza scelta reciproca. Non c’era nessun incontro prima che il bambino fosse consegnato per sempre alla famiglia adottiva. Si riteneva che non fosse importante, perché il bambino era considerato completamente intercambiabile tranne, forse, per il sesso. Il bambino era come una tabula rasa che i genitori adottivi potevano modellare a piacimento. Torneremo a questo presupposto, ora che più bambini indesiderati diventeranno disponibili per l’adozione dopo le limitazioni all’aborto negli Stati Uniti e alla luce del generale ridimensionamento della tutela dei diritti delle donne nel nord del mondo?
Qualsiasi cosa succeda in futuro, oggi l’adozione internazionale – dove è permessa – continua a essere cieca. Dopo tutte le commissioni e le pratiche, due o tre persone estranee, grandi e piccole, s’incontrano. I video che mostrano questi incontri di solito sono accompagnati dall’hashtag #happymoment, momento felice, anche se evidentemente non lo è. Ogni cosa difficile sull’adozione diventa visibile, a cominciare dal controllo esercitato dall’agenzia per le adozioni. Un bambino sbalordito, spesso in lacrime, viene portato, come una sposa in un matrimonio combinato, alla presenza di due estranei con i quali dovrà passare il resto della vita. Anche le emozioni dei genitori adottivi sono visibili: è l’apoteosi di anni di speranze (se sono delusi, certamente non possono farlo vedere lì). Questo piccolo individuo ora dovrà sostenere le loro grandi aspirazioni. I nuovi genitori di solito gli offrono un giocattolo da quattro soldi per attirarlo nell’imboscata di un abbraccio (“Bambini, non accettate caramelle dagli sconosciuti!”). La volgarità di questi regali di benvenuto sembra riassumere la contingenza dell’adozione, il suo ethos implicito: ma sì, va bene così.
Grazie a dio non sono stata adottata quando già camminavo, ma dopo qualche mese di palleggiamenti tra diverse madri affidatarie. Ciononostante, so tutto del mio #happymoment. So dalla mia mamma biologica, che ho rintracciato anni fa, che un’addetta di un’agenzia mi ha portato via da lei e ha bussato a una porta vicina: i miei genitori erano dall’altra parte della strada. Ha sentito ridere la mia mamma adottiva, una risata che conosco intimamente. So anche che durante la lunga corsa in taxi a Londra verso l’agenzia la mia madre biologica mi ha chiesto scusa e ha pianto un po’.
So dal diario del mio papà adottivo che stavamo quasi per non presentarci. Siamo arrivate per la consegna con 50 minuti di ritardo, lasciando ai miei nuovi genitori solo dieci minuti per interagire con me all’agenzia prima che mi portassero con sé.
Non so quanto sono costata, ma so che mia nonna disse a mia madre che avrebbero potuto spendere un po’ di più e prendere una bambina più piccola. So dal mio fascicolo che mancava meno di una settimana a Natale e che se non mi avessero trovato una casa prima delle vacanze sarei finita in un istituto. Il mio fascicolo dice anche che è stato difficile collocarmi perché ero una femmina. E anche perché, come ha annotato qualcuno nel fascicolo, la mia madre biologica è brutta e io le somiglio.
So dalla mia madre adottiva che meno di un’ora dopo le ho vomitato addosso sul treno, e che mio papà ha chiesto alle persone nello scompartimento di smettere di fumare. Da quando è rimasta vedova lei continua a tirare fuori questa storia. Come sua madre, sembra che mi associ a mio padre. Nello stesso modo, è stata lei a farmi ricordare quella vecchia scena con mia nonna. Mi ricordavo lo sgomento del “Ma io sono sempre la tua bambina, vero?”, però mi ero dimenticata il motivo. La ricerca di rassicurazione era un ricordo-schermo: dietro c’era l’abisso del distacco.
Ci sono mille modi per dire a una bambina che è stata adottata: l’adozione non è specifica di alcune culture. Ci sono sempre stati orfani, trovatelli e persone che volevano accoglierli nelle loro famiglie. Ce lo dicono le fonti più disparate, dalla storia di Mosè tra il sesto e il quinto secolo avanti Cristo alle adozioni dei giovani apprendisti pittori raccontate nelle Vite di Giorgio Vasari del cinquecento. Eppure l’adozione è carica di significati culturali e di solito non sono gli adottati a sceglierli. È strano, per esempio, che anche in un’epoca di accettazione delle identità essenziali come la nostra – attraverso le politiche identitarie nella transizione di genere – l’adozione rimanga un’eccezione che definisce un individuo a prescindere dalla sua esperienza e dalla sua comprensione di sé.
Anche le famiglie più felici non possono sciogliere completamente il nodo dell’adozione, che parte necessariamente da una destabilizzazione dell’identità e quasi impone una stabilizzazione riparatrice. I modi in cui gli adottati vedono e vivono questo nodo centrale sono i più vari. Per alcuni l’identità adottiva e la vita che ci costruiscono intorno è reale e tutto il resto appartiene più o meno al mondo delle favole. Per altri la natura prevale sull’ambiente. Altri ancora sentono coesistere al loro interno una serie di tratti ereditari e appresi. Ma qualunque sia la loro interpretazione dell’identità, il loro status giuridico rimane invariato. Magari un adottato vuole vedere riconosciuta la propria identità naturale, ma le procedure come la richiesta di cittadinanza accettano solo i documenti e non il test del dna come prova dell’identità. O magari qualcuno vuole negare completamente quella parte della propria identità e legarsi in tutto e per tutto alla propria famiglia adottiva. Come la transizione di genere, che è considerata una cancellazione dell’identità originaria di un individuo, anche la condizione ibrida dell’identità adottiva può essere vissuta come una bugia da cancellare. Ma pure questo non è possibile. Non esiste una forma legale per annullare quel residuo di appartenenza biologica che è al centro dell’esperienza dell’adozione. Né l’adottato può fare la transizione contraria verso l’appartenenza biologica, perché imporrebbe una totale riscrittura genetica dei rapporti di parentela.
Per quanto un’adozione possa essere felice, l’identità di nascita rimane. È nella poesia l’Eredità di Thomas Hardy, del 1917: “Il volto di famiglia / continuerà a vivere / proiettando tratto e traccia / e saltando da un posto all’altro”. O è nella domanda di un medico sull’anamnesi familiare. O è qualcosa che affiora in superficie, una vecchia cicatrice, nei momenti in cui la famiglia è più sotto pressione, come un matrimonio o una successione.
In altre parole, quali che siano le convinzioni dell’adottato, resta parte della sua esperienza una specie di astigmatismo del sé, una dualità. Forse può aiutare uno sguardo laterale. Nella sua autobiografia Storia della mia vita, del 1855, la scrittrice francese George Sand racconta di quando da bambina le dissero che “in realtà” era più grande e che, essendo nata prima che i genitori si sposassero, non era stata registrata all’anagrafe:
So davvero chi sono da non più di due o tre anni. Sono effettivamente nata, come registrato all’anagrafe; sono veramente me stessa, il che non smette di farmi piacere, perché c’è qualcosa di preoccupante nel dubitare del proprio nome, della propria età e del proprio paese. Sarei potuta morire senza sapere se avessi vissuto, in persona o al posto di qualcun’altra.
“Al posto di qualcun’altra”: la consapevolezza dell’adozione è senza dubbio la prima sindrome dell’impostore. Chi non l’ha vissuta potrebbe rispondere: “Ma non importa come ti chiami: l’identità vera è essere la persona che vive e fa quello che fai tu”. Bene: ma se questa dualità, questo scivolare tra due storie di sé, fosse parte di quella esperienza? L’identità, allora, deve contenere quella pluralità. Come il drago che si mangia la coda su un capitello romanico, l’identità come consapevolezza si fonde incessantemente con la consapevolezza dell’identità.
L’adozione è una specie di campo di addestramento di queste forme sperimentali d’identità. Credo che se fosse universalmente riconosciuta come tale, gli adottati troverebbero lo spazio culturale per essere rispettati semplicemente come persone normali che hanno superato circostanze particolari nei loro primi anni di vita. Circostanze che non preoccupano la maggior parte delle persone, ma che generano problemi e paure – su chi siamo, come amiamo e dove siamo al sicuro – che tutti condividiamo. ◆ fas
Fiona Sampson è una poeta e scrittrice britannica. Questo articolo è uscito sul sito Aeon con il titolo The adoption paradox.
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Questo articolo è uscito sul numero 1578 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati