La punteggiatura è morta. O no? Se vi è capitato di scrivere in un messaggio “sono al tel ti richiamo” oppure “nn cè posto?” siete in buona compagnia. Da quando esistono i messaggi, a tutti prima o poi è capitato d’infrangere le regole della buona grammatica, sacrificando una virgola o un apostrofo sull’altare della velocità o della convenienza. Gli studi dimostrano che i “messaggismi”, come gli errori di ortografia consapevoli, le abbreviazioni o le omissioni, non danneggiano le capacità linguistiche ma le migliorano, a patto che vadano di pari passo con una corretta competenza grammaticale.
La soppressione di un minuscolo segno tipografico come la virgola o l’apostrofo, tuttavia, può rappresentare un problema quando avviene in testi pubblici, per esempio su un manifesto o un’insegna, o magari nel nome di una strada. Se è lo stato a violare le regole del linguaggio cambia qualcosa? Un tempo c’era la Società per la protezione dell’apostrofo (Aps) nella lingua inglese, un’associazione che denunciava gli abusi e diffondeva le buone abitudini ortografiche. Poi, a novembre del 2019, è arrivato l’annuncio della sua scomparsa, dovuta non solo alla veneranda età del fondatore John Richards, 96 anni: la società chiudeva, si leggeva nel comunicato, per colpa “dell’ignoranza e della pigrizia dei tempi moderni”. L’annuncio ha fatto il giro del mondo, facendo aumentare di seicento volte il traffico del sito deliziosamente obsoleto dell’Aps, che poi è scomparso momentaneamente dal web scatenando le proteste contro la chiusura dell’istituzione. Forse la punteggiatura sta cambiando, però ci teniamo ancora.
Ma, al di là di tutto, le regole della grammatica sono necessarie? Oppure sono la superata eredità di un’epoca conservatrice, pignola ed elitaria? Abbiamo davvero bisogno degli apostrofi e delle virgole o possiamo farne a meno in nome della brevità? Se la punteggiatura può sparire senza togliere il senso alle parole, allora a cosa serve? Come ogni altra forma di creazione culturale, la punteggiatura ha una storia tumultuosa, in cui convivono bene pubblico e interesse privato.
In senso lato, la punteggiatura consiste in ogni glifo o segno all’interno di un testo che non sia una lettera dell’alfabeto, compresi gli spazi, anche se non è stato sempre così: nelle iscrizioni sulla pietra e anche nei manoscritti di epoca classica i testi ERANOSCRITTIINQUESTOMODO su rotoli che si dispiegavano potenzialmente all’infinito. Le motivazioni della scrittura continua senza punteggiatura non sono del tutto chiare, ma potrebbero essere collegate al concetto di scrittura come registrazione del discorso invece che come pratica in sé. Poiché ci accorgiamo a stento delle minuscole pause inserite tra le parole durante il discorso, non è ovvio formalizzare con un segno – che, in realtà, non è un segno, ma uno spazio vuoto – qualcosa che facciamo e percepiamo a livello inconscio.
Lo scopo principale della scrittura nell’antica Grecia e a Roma era fare discorsi e orazioni politiche, non pubblicare testi. Prima di salire sul palco, un oratore lavorava sul testo, scrivendo dei segni a suo piacimento per indicare le sillabe lunghe e quelle corte, le pause retoriche e le respirazioni, e i collegamenti tra le parole quando leggeva ad alta voce. Il concetto di leggere un testo per il quale non ci si era preparati non esisteva.
L’abitudine di scrivere senza punteggiatura sarebbe durata diversi secoli, nonostante gli sforzi individuali di figure come Aristofane di Bisanzio, bibliotecario di Alessandria d’Egitto. Intorno al 200 aC, Aristofane pensò di facilitare la pronuncia del greco per gli stranieri inserendo dei piccoli cerchi in diversi punti delle righe per evidenziare la diversa lunghezza delle pause ed enfatizzare il ritmo della frase, anche se non ancora la sua forma grammaticale. A questo avrebbe provveduto Isidoro di Siviglia, clerico ed enciclopedista del settimo secolo dC.
Isidoro inventò il punto, la virgola e i due punti, ripensando la punteggiatura di Aristofane, basata sulle pause nella lettura, in termini di segmenti grammaticali della frase. Un enunciato di senso e struttura compiuti era contrassegnato con un puntino in alto sulla riga, che poi si sarebbe spostato in basso trasformandosi in quello che oggi conosciamo come il punto. Un enunciato di senso compiuto ma potenzialmente ampliabile era marcato con un puntino al centro: i futuri due punti. Infine, un enunciato che non aveva né un senso né una struttura grammaticale compiuta era contrassegnato con un puntino in basso, che poi si sarebbe trasformato nella virgola. Mentre in passato solo la frase nella sua interezza era evidenziata con un segno di divisione, grazie alla nuova invenzione era possibile distinguere anche le parti che la costituivano. Le idee di Isidoro ebbero ampia diffusione e, già alla fine del settimo secolo, i monaci irlandesi aggiunsero al sistema dei punti gli spazi tra le parole. Queste evoluzioni erano il segno di un cambio di percezione della scrittura, che da modalità di registrazione del discorso diventò uno strumento di registrazione delle informazioni. Il significato non aveva più bisogno di passare dall’occhio alla mente attraverso la voce e l’orecchio, ma era assimilato direttamente, in silenzio.
La motivazione principale era di tipo pedagogico: con il declino dell’impero romano ci fu un progressivo peggioramento della conoscenza del latino e qualsiasi aiuto alla comprensione poteva contribuire ad arginare la deriva. Anche perché il latino è basato sulle declinazioni e le desinenze delle parole, che variano a seconda dei casi, e potevano essere confuse facilmente. La diffusione del cristianesimo e della Bibbia accelerò l’urgenza di migliorare la leggibilità della scrittura per fissarne il significato: se la Bibbia era la vera parola di dio, era fondamentale assicurare una filiera di trasmissione certa e invariabile.
Come ogni altra forma di creazione culturale, la punteggiatura ha una storia tumultuosa, in cui convivono bene pubblico e interesse privato
Il cristianesimo sviluppò un suo sistema d’intonazione della lettura ad alta voce, i cui segni contribuirono alla diffusione della punteggiatura nel medioevo. Pronunciare a voce alta le parole della Bibbia dopo che erano state tradotte e stabilite in latino non ne alterava il senso. A differenza del giudaismo e dell’islam, caratterizzati da una forte tradizione orale, il cristianesimo è stato fin dall’inizio una religione scritturale. Uno dei più antichi manoscritti della Torah risale al nono secolo e mostra tracce di aggiunte di vocali e segni di cantillazione per aiutare l’esposizione orale, le pause e le melodie con cui articolare le frasi. Questi segni si ritrovano anche nel Corano, il cui testo è strettamente legato alla declamazione ad alta voce perché l’angelo Jibril lo rivela al profeta attraverso la recitazione. I segni coranici chiamati alamat al-waqf sono singole lettere scritte sopra la riga a indicare diversi tipi d’interruzione, che vanno dalle pause a suggerimenti come “è meglio fermarsi”, “è possibile fermarsi” o “bisogna fermarsi”. La funzione principale di questi intervalli e collegamenti sonori non è far prendere fiato a chi legge, ma dare significato e bellezza al testo.
Oggi i testi in arabo e in ebraico contengono gli stessi segni d’interpunzione delle lingue occidentali, anche se raramente chi scrive li usa tutti. I segni occidentali sono stati introdotti nell’arabo moderno intorno alla fine dell’ottocento, insieme al colonialismo. In un articolo del 1893 sul giornale egiziano al Fata, la scrittrice libanese Zaynab Fawwaz suggeriva di adottare i segni d’interpunzione occidentali secondo il modello francese. Lo scopo era democratizzare l’arabo scritto, rendendolo accessibile anche a chi non conosceva bene la grammatica, che era privilegio di un’élite di persone istruite. Introducendo la punteggiatura (una sorta di semaforo del testo, che indica al lettore quando e come il significato comincia e finisce), Fawwaz sperava di favorire l’alfabetizzazione in arabo, sfruttando la diffusione del francese come lingua di testo nel Maghreb. Nel 1900, Ahmad Zaki scrisse il primo romanzo in arabo con la punteggiatura occidentale, facilitando la lettura attraverso un glossario e una premessa che sottolineava l’utilità dei segni per preservare l’arabo.
Lo sviluppo della punteggiatura è un fenomeno caotico e diffuso: le abitudini dei singoli scrittori, le diverse forme dei segni che cambiano continuamente da un manoscritto all’altro o semplici ragioni pragmatiche di spazio complicano la sua storia. La punteggiatura non si è sviluppata secondo una linea evolutiva retta, ma più come un rizoma, una griglia orizzontale fatta di abitudini, esplorazioni e convenzioni più o meno consolidate in cui spesso le ramificazioni hanno la stessa funzione, anche se presentano un aspetto diverso. A volte queste ramificazioni spariscono per poi tornare a distanza di anni, oppure spuntano dal nulla e per un motivo o per l’altro arrivano a dominare l’organismo.
Alla fine del medioevo la virgola, i due punti e il punto si affermarono definitivamente. Presto furono affiancati dal punto esclamativo e da quello interrogativo, a conferma di un bisogno di enfasi emotiva e di chiarezza dell’intonazione: ciò che nel discorso risulta completamente chiaro può diventare ambiguo nella forma scritta, nonostante gli avverbi, gli aggettivi e le costruzioni grammaticali interrogative.
La speranza, o la necessità, di chiarire il senso delle parole separate dall’inflessione vocale o dal linguaggio del corpo favorì l’avvento della punteggiatura. Un raro caso d’invenzione documentata è rappresentato dalla nascita delle parentesi in De nobilitate legum et medicine (1399), opera sulla superiorità della legge sulla medicina: il letterato italiano Coluccio Salutati aggiunse delle parentesi spigolose e appuntite al testo scritto dal suo amanuense, mostrando la cura che metteva nei dettagli della forma scritta.
In realtà la parentesi, come figura retorica della digressione, esisteva già prima dell’invenzione del suo segno grafico. Nell’Institutio oratoria, il retorico romano Quintiliano latinizza la digressione come interpositio: al pari del suo corrispettivo greco parenthesis, l’interpositio serve a spostare l’attenzione verso l’immagine fisica di qualcosa che si pone spazialmente in mezzo o al di sotto di qualcos’altro. La breve digressione sintattica, dunque, è una figura conosciuta fin dall’antichità, ma ci sarebbero voluti quasi millecinquecento anni per cristallizzare questa relazione tra proposizione principale e subordinata attraverso le pareti semipermeabili delle parentesi. Con il collegamento sempre più stretto tra scrittura, commercio e comunicazione politica, furono introdotti altri segni per facilitare e velocizzare la lettura.
Nel corso del quattrocento le parentesi diventarono tonde, ma erano usate raramente e forse sarebbero state dimenticate se non fosse stato per l’invenzione della tipografia, intorno al 1450. A favorire la loro diffusione furono soprattutto alcuni stampatori tedeschi. In generale, per la punteggiatura la tipografia fu una benedizione: la nuova tecnologia permetteva non solo la stampa rapida di un numero elevato di copie a prezzi relativamente bassi, ma anche la riproduzione di segni identici tra loro. La punteggiatura continuò a essere oggetto di notevole confusione e ci sarebbero voluti anni prima di arrivare al sistema attuale, ma la standardizzazione facilitò la leggibilità, preparando la strada per l’uso diffuso delle parentesi e di altri segni d’interpunzione.
I tipografi tedeschi, francesi e italiani non erano solo artigiani, spesso erano anche letterati ed eruditi che ebbero un ruolo fondamentale nell’introduzione e la diffusione dell’uso e della forma dei segni d’interpunzione. La superstar dei tipografi-intellettuali europei, il veneziano Aldo Manuzio, inventò il punto e virgola per il dialogo De Aetna (1496) del poeta italiano Pietro Bembo, raffinando ulteriormente l’uso della pausa. Ancora oggi non è ben chiaro come e quando usare il segno, che è diventato oggetto di feroci critiche e offese ingiuriose. Lo scrittore statunitense Kurt Vonnegut lo ha definito un “ermafrodito travestito che non rappresenta assolutamente nulla”; per lo scrittore statunitense Edward Abbey i punti e virgola sono addirittura “una valanga di merda sul dattiloscritto”. Quando però nel 2012 la rivista svedese Språktidningen ha lanciato un sondaggio tra i lettori chiedendo quale fosse il loro segno d’interpunzione preferito, il punto e virgola ha prevalso su tutti con un distacco del 10 per cento.
In mano a un maestro dell’oratoria, il punto e virgola è una specie di sospensione tra ritardo e approdo, una promessa di conclusione venata di reticenza. Nella sua lettera dalla prigione di Birmingham, in Alabama, Martin Luther King descrive l’indeterminatezza della condizione dei neri attraverso una serie di frasi separate da punti e virgola. Solo chi non ha vissuto in prima persona l’oppressione, l’ingiustizia e la violenza, dice King, può rimandare l’uguaglianza a data da destinarsi invece d’istituirla subito. La lettera enumera tutti i tipi di esperienze orribili, dai linciaggi ai nomignoli degradanti al trauma psicologico della segregazione, attraverso continue frasi separate da punti e virgola, dando vita a un’esperienza testuale sospesa tra limitazione e ridondanza. Dopo un’intera pagina inondata di punti e virgola, la voce di King s’infrange sul punto fermo con schiacciante gravità: “Quando non si smette mai di lottare contro la sensazione degradante di non essere nessuno, allora capirete perché per noi è difficile aspettare”.
Dalla fine del seicento gli scrittori hanno avuto a disposizione una molteplicità di segni, tra cui punti interrogativi ed esclamativi, parentesi e virgolette per le pause e le aggiunte, trattini per le interruzioni e le frasi incomplete, tre puntini per esprimere esitazione o incertezza, e poi trattini brevi, virgole, e commerciali, asterischi, note a piè di pagina, punti, spazi e innumerevoli altri segni tipografici. Per nessuno di loro c’erano regole rigide: tutto era ancora in divenire. La scrittura toccava ormai ogni ambito della vita pubblica e privata, e le si accompagnava il desiderio di rappresentare attraverso segni d’inchiostro i capricci della mente, le inflessioni della voce e l’intensità dei sentimenti.
I due punti non sono stati l’unico segno d’interpunzione a fare la storia: nel 1905, i tipografi di Mosca pretesero di essere pagati non solo per stampare le lettere ma anche la punteggiatura, che richiedeva la stessa quantità di lavoro e di tempo dell’alfabeto. Il cosiddetto sciopero delle virgole scatenò un boicottaggio popolare in tutto il paese, spingendo lo zar a concedere alla Russia la sua prima costituzione. Anche una virgola, a quanto pare, può far ribollire il sangue.
Frustrato dagli equivoci che derivavano dall’impossibilità di cogliere il tono nella scrittura, nel 1575 il tipografo inglese Henry Denham inventò un segno per rappresentare il sarcasmo. Sperava che un’immagine riflessa del punto interrogativo avrebbe segnalato la presenza di una domanda retorica, rendendo più facile capire le intenzioni dell’autore. L’invenzione, però, non ebbe seguito.
Altri, nel corso dei secoli, hanno provato a introdurre nuove forme di punteggiatura: nel 1668, il filosofo naturalista inglese John Wilkins suggerì il punto esclamativo capovolto per esprimere l’ironia; nel 1781, il filosofo francese Jean-Jacques Rousseau disse di desiderare un point d’ironie; nel 1899, il poeta francese Alcanter de Brahm provò a ripristinare il punto interrogativo riflesso di Denham; nel 1966 lo scrittore francese Hervé Bazin propose per scherzo un segno simile alla lettera psi dell’alfabeto greco fusa con un punto esclamativo. Nel 1962 il pubblicitario statunitense Martin Speckter inventò il punto esclarrogativo per le domande retoriche, una sovrapposizione del punto interrogativo e di quello esclamativo, mentre alla fine del novecento chi chiacchierava online ha sperimentato il sartalics (il corsivo inclinato all’indietro, a indicare sarcasmo). L’ultimo della serie è il SarcMark, registrato come marchio nel 2010, una specie di spirale simile a un guscio di lumaca che può essere aggiunta ai caratteri dello smartphone.
Nessuno di questi segni ha avuto successo, quindi per aiutarci usiamo l’ennesimo segno d’interpunzione: il cancelletto, o hashtag, che da simbolo della libbra e segno di numerazione in Nordamerica si è trasformato in un’etichetta di categoria e meta-commento su Twitter e altri social network. Scrivere #sarcasmo ci dà un’informazione a posteriori su come interpretare il tono di ciò che è scritto. In effetti, ci siamo talmente abituati a commentare con gli hashtag che le abitudini di scrittura hanno cominciato a fare capolino anche nelle nostre conversazioni quotidiane, che riflettono sempre di più i ragionamenti a posteriori del meta-commento (come: “Ha dimenticato il nome del suo capo. Hashtag imbarazzante!”). Il fatto che nessuno di questi segni sia stato aggiunto alla punteggiatura e che l’hashtag sia ancora percepito come un elemento ingombrante nel parlato, suggerisce che forse l’ambiguità del testo è qualcosa d’importante e necessario, da cui ci sentiamo attratti e di cui abbiamo bisogno, e non un problema da risolvere in ogni situazione. Sottolineare l’ironia in un dialogo di Jane Austen attraverso la punteggiatura avrebbe un effetto anestetizzante, un po’ come spiegare una barzelletta.
Con l’arrivo del computer e di internet ci siamo trovati davanti a tutta una nuova gamma di segni d’interpunzione. Due punti e parentesi sono stati riconvertiti in emoticon che cercano di rappresentare le basi minime dello stato d’animo (varie sfumature di felicità e tristezza). Oggi quasi tutte le piattaforme di scrittura digitale offrono una vasta gamma di emoji per ogni sorta di sentimento, situazione e oggetto. Ma mentre usiamo gli emoji – cioè delle immagini – per sdrammatizzare un testo ambiguo, continuiamo a ricorrere alla punteggiatura per enfatizzare, urlare o sottintendere. A quanto pare le immagini arrivano fino a un certo punto, mentre la punteggiatura (compreso l’uso delle maiuscole) offre uno spettro di espressione scritta più sottile. GIUSTO?????!!!!!????
Proprio come i compositori tipografici russi, ci arrabbiamo ancora per la punteggiatura. Gli studi sulla punteggiatura nelle situazioni informali delle chat mostrano che rispondere a una domanda con un messaggio di una riga seguito da un punto, per esempio “certo.” oppure “ok.” invece di “certo” e “ok” risulta brusco e non sincero. Il punto esprime qualcosa di definitivo e può dare un’idea di scortesia e scarsa collaborazione se usato nei messaggi del telefono. Se il nostro interlocutore fa lo sforzo supplementare di aggiungere la punteggiatura a un messaggio che serve semplicemente a scambiare informazioni e non per comunicare qualcosa di più complesso, allora vuol dire che sottintende un significato più profondo. Quando invece la comunicazione digitale è meno simile al parlato e diventa un modo per scambiare messaggi più lunghi rispetto a un invito spontaneo o a una battuta ammiccante, la punteggiatura (compreso il punto) resta in gran parte intatta. Il linguista Tyler Schnoebelen ha esaminato 157.305 messaggi di testo sul suo telefono e ha constatato che quelli che contenevano meno di 17 caratteri o quelli brevissimi come “lol”, “ahah”, “yes” e “ok” non avevano quasi mai punteggiatura. I messaggi più lunghi di 72 caratteri e che contenevano parole come “penso”, “credo”, “so”, “sembra” e “triste” usavano invece la normale punteggiatura con le convenzioni rispettate offline, a conferma del fatto che siamo in grado di usare la punteggiatura o no a seconda della finalità e dello stile del testo.
A dispetto delle apparenze, se diamo un’occhiata ai nostri messaggi ci accorgeremo che la punteggiatura è tutt’altro che morta. È vero, sta cambiando, ma lo ha sempre fatto. Alcuni segni potranno prendere nuove forme, acquisire nuove funzioni e nuovi significati, e anche questo è già successo. Il futuro dipenderà dalla tecnologia che usiamo per scrivere e da quello che ci serve. O che vogliamo. ◆ fas
Florence Hazrat
è una ricercatrice dell’università di Sheffield, nel Regno Unito. Questo articolo è uscito sulla rivista online Aeon con il titolo A history of punctuation.
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Questo articolo è uscito sul numero 1467 di Internazionale, a pagina 104. Compra questo numero | Abbonati