Canicola ci ha abituato alle rivelazioni. Come quella del padovano Miguel Vila, per citare la più recente e limitandoci agli italiani. E come ora il libro del bolognese Pastoraccia, ambientato, allo stesso modo dei lavori di Vila, nella provincia piatta, più esattamente nella bassa ferrarese. Ma i libri di Vila sono coloratissimi e pop. In quello di Pastoraccia trionfa invece il non colore, nel senso che oltre ai bianchi e ai neri ci sono anche, fondamentali, i grigi del retino. L’autore crea immagini molto raffinate, che denotano un uso dello spazio straordinario insieme a una reale acutezza nelle inquadrature. Siano immagini piccole, anche minimali, o grandi, quasi dei quadri a doppia pagina, ci si perde nella contemplazione di paesaggi desolati dove si trasfigura non solo la metafisica di De Chirico ma anche l’abbandono delle città industriali ritratte da Mario Sironi. Qui, in questa storia quasi atemporale malgrado una precisa cronologia, dove si susseguono alienazioni e amnesie, vere o simulate, e una donna torna a esistere soltanto quando è trovata morta, si ritrae una borghesia marcia, vuota, attraverso l’astrazione e la sottrazione grafica. Così, fuori campo, emerge una sorta di non-esistenza, in definitiva comune a tutti in questo museo delle statue richiuso su di sé. E Matilde, la donna alla quale è stato negato tutto, alla fine è la vera protagonista. Il convitato di pietra della vicenda, è il caso di dire. Francesco Boille
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Questo articolo è uscito sul numero 1482 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati