È dai tempi di Caboto (Logos edizioni 2018), gioiello di Lorenzo Mattotti realizzato con il grande sceneggiatore argentino trapiantato in Spagna Jorge Zentner, che non si vedeva un’opera capace di unire rilettura storica e poesia visionaria. Anche qui, come in Caboto, c’è un navigatore che si fa esploratore e conquistatore intransigente, se non spietato: Ferdinando Magellano. Storicamente siamo dalle parti di Caboto, anche se cronologicamente un po’ prima, tra il 1520 e il 1522, ma il capitano della spedizione spagnola è appunto il portoghese Magellano, odiato dall’equipaggio delle quattro navi che guidava nelle Americhe. Cammamoro, esordiente siciliano, compie un exploit con un racconto dal quale non ci si stacca mai, fortemente onirico e poetico-visionario, poiché maneggiando i colori trasfigura le forme raggiungendo una sorta di psichedelia del sogno. Frantumando e invertendo di continuo la cronologia degli eventi, con dolcezza e crudezza espressiva, ma al contempo in modo ammaliante, racconta la follia dell’esplorazione coloniale, l’essersi rinchiusi nell’ego e nell’ossessione della conquista, che rovescia un paradiso della notte in un inferno dell’oscurità. Imprigionati nell’ottusa brama di conquista, non riescono nemmeno a immaginare di poter sbagliare, che l’odiato indigeno, all’apparenza colpevole di tutto, è forse il più leale e nobile di tutti. Una parabola-sberleffo anticoloniale che si fonde nel fantastico. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1506 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati