Le donne del mar Caspio hanno sempre avuto la reputazione di essere le più libere dell’Iran. Ieri come oggi, si danno da fare nelle risaie, con la schiena curva, insieme agli uomini. Bevono il tè con loro nella penombra delle chaikhana, case del tè. Spese, matrimoni, acquisti e vendite: raramente le grandi decisioni familiari si prendono senza di loro. Al punto che le barzellette deridono la “sottomissione maschile” di fronte alle tipiche e potenti matrone del nord del paese.
Molouk era una ragazza di questa regione verdeggiante, dal temperamento deciso. I suoi figli e nipoti – il cui anonimato è necessario in tempi di crisi politica e repressione – ricordano tutti di aver sentito parlare del famoso giorno in cui osò dire di no alle autorità. È una vecchia storia, il paese stava attraversando un’altra crisi politica. E il velo della giovane fu, già allora, giudicato “inappropriato”. Oggi alcuni dei suoi discendenti manifestano intonando “Donna, vita, libertà”, solidali con le proteste in corso.
A tappe forzate
La nascita di Molouk coincise con l’anno del colpo di stato militare del 1921 che spazzò via da Teheran la dinastia Qajar (1794-1925), corrotta e condizionata dalle ingerenze russe e britanniche. Il golpe segnò la folgorante ascesa del colonnello della Brigata cosacca persiana, Reza Khan, futuro scià dell’Iran. All’epoca, mentre le famiglie preparavano le figlie al matrimonio fin dalla più giovane età, Molouk studiava con la benedizione dei genitori. Fino alla consegna dei diplomi, un pomeriggio del giugno 1936. Per l’occasione indossò il suo hijab più bello, come le altre studenti. Ma sul palco l’orgoglio si trasformò in sconcerto: il direttore impose a tutte di togliere i veli che coprivano i loro capelli: “Ordine dello scià”.
Solo Molouk si rifiutò, e fu rimandata a casa senza il diploma. “In assenza dei genitori, togliersi il velo era inimmaginabile”, afferma Massoud, uno dei suoi nipoti, che oggi ha quasi sessant’anni. “Era un’epoca in cui, qualunque fosse il loro ambiente sociale o la loro religione, la grande maggioranza delle donne si copriva i capelli per pudore”. Di fronte a quello che considerava un insulto alla reputazione della famiglia, il padre di Molouk non le permise di continuare a studiare. Lei aveva appena compiuto quindici anni, non finì mai gli studi e vide, impotente e gelosa, una delle sue amiche “rubarle” il sogno di diventare medica.
Molouk non lo sapeva ancora, ma la modernizzazione a tappe forzate, lanciata qualche anno prima dall’ambizioso sovrano iraniano, aveva raggiunto le rive del Caspio. Sulla scia del re dell’Afghanistan Amanullah Khan (1919-1929), che vietò il matrimonio forzato e la poligamia, e promosse l’istruzione delle ragazze (e la cui moglie Soraya nel 1928 fece scalpore durante un viaggio con i capelli al vento in Europa), anche lo scià dell’Iran voleva trasformare il suo paese. Non gli importava che la mancanza del velo della sovrana afgana a Teheran, in visita ufficiale l’anno successivo, avesse suscitato l’indignazione del potente clero sciita.
Il modello di Reza Pahlavi era Mustafa Kemal Atatürk: un militare diventato capo di stato, come lui. Ne ammirava il polso, il nazionalismo e la volontà riformatrice. Nel suo unico viaggio all’estero, in Turchia nel giugno del 1934, lo scià scese lungo il Bosforo al fianco di Atatürk. Dopo un decreto che imponeva agli iraniani di sostituire fez, tarboush e turbanti con copricapi all’europea, l’8 gennaio 1936 entrò in vigore la legge kashf-e hijab (svelamento), la cosiddetta legge di liberazione delle donne iraniane, adottata dal governo di Mohammad Ali Foroughi nel 1935.
“La decisione di vietare l’hijab s’inserisce in un contesto particolare. Alla fine della dinastia Qajar gli iraniani avevano scoperto l’occidente, grazie ai racconti di chi andava a studiare in Europa o degli uomini d’affari”, spiega un sociologo iraniano a Teheran, che ha chiesto di restare anonimo. “Tutti erano colpiti dall’aspetto delle donne occidentali, presenti nella società accanto agli uomini, mentre in Iran erano nascoste sotto l’hijab e confinate in casa. Per alcuni l’occidente cominciava a incarnare la modernità, in contrasto con un Iran considerato arretrato e ingabbiato nelle tradizioni. L’hijab diventò il simbolo del lato conservatore di cui l’Iran moderno doveva liberarsi. Il divieto dello scià fu il picco di questa corrente di pensiero”.
Unica concessione: il clero e gli studenti di religione erano autorizzati, se avevano un permesso, a portare un turbante. A Mashhad, città santa dell’islam sciita nel nordest dell’Iran che ospita il mausoleo dell’ottavo imam Reza, cresceva la rabbia. Il 13 luglio 1935 l’esercito aprì il fuoco su una folla di fedeli che avevano raggiunto la moschea Goharshad per protestare. L’agenzia di stampa sovietica Tass parlò di “molti morti”, senza fornire cifre esatte. Secondo alcune stime iraniane, oggi non verificabili, le vittime furono 1.600.Di quell’episodio sanguinoso Molouk non sapeva niente. In ogni caso, non ne parlò mai con i suoi discendenti. I più giovani, cresciuti sotto la Repubblica islamica, l’hanno studiato a scuola. Cinquant’anni dopo, il massacro della moschea Goharshad è diventato un pilastro della propaganda. I murales che lo raffigurano sono onnipresenti nelle grandi città. Nel 2013 il 13 luglio è stato proclamato “giorno dell’hijab e del pudore”. Nel 2017, a una mostra dedicata alla strage, la guida suprema Ali Khamenei ha elogiato i religiosi che nel 1935 si opposero allo scià e a chi l’aveva spinto “a vietare l’hijab, svolgendo un ruolo colonialista”. Il “primo tra loro” fu Hajj Aqa Hussein Qomi, che andò a Teheran per ricondurre il sovrano sulla via dell’islam. “Fu incarcerato e lo scià non gli concesse udienza”, ha raccontato Khamenei. Qomi fu esiliato nella città di Najaf, in Iraq, destinata a diventare il quartier generale dell’opposizione clericale al potere monarchico iraniano.
Più che il massacro in sé, ha insistito Khamenei, nato quattro anni dopo quell’episodio nella città in cui era avvenuto, “la questione essenziale è l’hijab”: “Potete trovare tante storie e ricordi sull’hijab. Quando li avrete messi insieme, sarà una grande collezione”. Nel 2017, quando questa curiosa profezia è stata pronunciata, il potere dei mullah viveva un nuovo slancio. Il favorito dell’ayatollah, l’ultraradicale Ebrahim Raisi, cominciava la sua ascesa fino alla vittoria nelle elezioni presidenziali del 2021.
All’avanguardia
Ovviamente nessuno poteva immaginare che una folla di donne – accompagnate da amici, fratelli, vicini – si sarebbe sollevata contro l’hijab, ma anche contro il regime della Repubblica islamica.
Sta di fatto che nel gennaio 1936 il New York Times osservò che “la moglie e la figlia dello scià hanno mostrato l’esempio alle donne iraniane, comparendo senza velo”, mentre il sovrano “per la prima volta si è rivolto in pubblico a delle donne senza velo”. La società dovette adattarsi; le autorità vigilavano. A sedici anni, sposata e incinta del primo figlio, Molouk fu fermata da un poliziotto. “Perché porti l’hijab?”, le chiese, cercando di strapparglielo. Un po’ di soldi allungati da un passante solidale convinsero l’agente a lasciarla andare, ma da quel momento Molouk e le donne del suo gruppo cominciarono a uscire solo di notte, in carrozza, per sfuggire alle molestie. “Nostra nonna era devota e praticante, ma anche all’avanguardia”, sostiene Massoud. Le sue cinque figlie sono andate a scuola fino alla maturità, alcune anche all’università. Dovevano pregare, ma erano libere di indossare l’hijab. “Anche Molouk non lo faceva in modo rigoroso. Nelle foto del matrimonio della sua terza figlia, scattate nel 1966, tiene il velo in mano”. Alcune foto della sua figlia maggiore la mostrano truccata e vestita alla Ava Gardner, con una minigonna o un abito attillato. Con il tempo, il provvedimento si fece meno severo. Dopo che nel 1941 il figlio di Reza Khan, Mohammad Reza Pahlavi, salì al trono il divieto fu revocato.
Due delle figlie di Molouk lavoravano: una come insegnante, l’altra come produttrice in tv. Tutte si sposarono, a volte contro la loro volontà. Una osò divorziare dal marito violento. Lo scandalo fu tale che il padre osservò un lutto di quaranta giorni. Ma la figlia resistette: anche se la tradizione condanna le divorziate a vivere nella vergogna in casa dei genitori, lei si risposò. La più conservatrice era la madre di Massoud, che passò la vita tra faccende domestiche e opere caritatevoli. “Erano gli anni settanta e il risveglio rivoluzionario islamico aveva fatto presa su molte famiglie. Tutte le donne del nostro ambiente diventarono chadori”, cioè indossavano il chador, ricorda Massoud riferendosi al velo che copre tutto il corpo. Suo padre era un sostenitore di Ruhollah Khomeini, espulso dall’Iran nel 1964, che viveva a Najaf, dove si moltiplicavano le invettive contro la politica di Mohammad Reza Pahlavi, considerato succubo dell’occidente.
La sorella di Massoud, Azar, conferma che a casa nascondevano i libri con le fatwa (opinioni giuridiche su questioni religiose) di Khomeini per paura della Savak, i servizi di sicurezza dello scià: “ Possedere i suoi scritti era un reato”. L’ultimo scià dell’Iran si sforzava di occidentalizzare il paese, mentre indeboliva l’opposizione con il pugno di ferro. Nel 1974 Azar, che aveva sedici anni, decise di portare l’hijab, con grande gioia della madre e della nonna, che esclamò: “Il tuo velo è un regalo per me”. Oggi, a sessant’anni, Azar spiega la sua decisione con il desiderio di soddisfare le matriarche della famiglia. Il gesto fu accolto con disprezzo dalla sua insegnante d’inglese: “Sei bella, hai buoni voti, perché porti il velo? Preghi anche?”. Il velo era diventato inoltre una pericolosa scelta politica a favore dell’opposizione al regime autocratico e autoritario dello scià.
Gli agenti della Savak erano ovunque. Non ci si poteva fidare di nessuno. La paura regnava, come la censura. Alcuni giornali chiusero. La semplice accusa di appartenere a un gruppo islamista o comunista portava al carcere, se non alla morte. Nel frattempo lo scià organizzava cerimonie sontuose. Gli spettacolari abiti dell’imperatrice Farah facevano bella mostra sulle riviste Paris Match e Life. La crescita economica del paese, stimolata dal petrolio, avvantaggiava solo una piccola parte di iraniani e lo sfarzo della famiglia imperiale era un oltraggio. Le tensioni sociali aumentavano la percezione che lo scià fosse indifferente alle tradizioni religiose del paese.
Di notte Massoud e suo padre stampavano clandestinamente i comunicati dell’imam Khomeini, che si era rifugiato a Neauphle-le-Château, in Francia. Di giorno protestavano. Anche Azar. Insieme ai suoi compagni e professori chiedeva di chiudere il liceo e unirsi alle manifestazioni. Religiosi, laici, comunisti, liberali: tutto il paese era conquistato dalla rivoluzione. Alcuni studenti furono uccisi. Durante le cerimonie funebri, organizzate secondo la tradizione musulmana al quarantesimo giorno di lutto, si verificavano nuove contestazioni, a loro volta represse nel sangue, creando un ciclo di manifestazioni e repressione simile a quello che avviene oggi in Iran dopo la morte di Mahsa Jina Amini il 16 settembre. Il 16 gennaio 1979 lo scià lasciò il paese. “Ero al settimo cielo”, ricorda Azar. “Scesi in strada con i miei fratelli per distribuire dolci”.
Il 1 febbraio 1979 Khomeini fu accolto a Teheran come un salvatore. Azar aveva gli occhi puntati sulla televisione, che trasmetteva l’evento in diretta. Qualche settimana più tardi, l’ayatollah rese il velo obbligatorio. Il quotidiano Ettelaat trascrisse nell’edizione del 6 marzo 1979 il discorso che Khomeini pronunciò davanti agli studenti di religione di Qom: “Le donne islamiche devono uscire con l’hijab. Non devono truccarsi. Possono lavorare, ma devono portare il velo islamico”.
L’8 marzo, in occasione della giornata internazionale dei diritti delle donne, una decina di migliaia di iraniane liberali appartenenti alle classi medie e alte, o ai gruppi di sinistra, manifestarono nel centro di Teheran contro questa imposizione. “All’alba della libertà, la libertà è assente!”, gridavano, mentre erano accusate di essere “bambole occidentali” e colpite con le pietre dai militanti islamisti e dalle sostenitrici di Khomeini in chador, diventato il simbolo per eccellenza della fede nell’islam e del sistema politico che Ruhollah Khomeini voleva instaurare.
La conchiglia e la perla
La Repubblica islamica dell’Iran fu istituita in seguito a un referendum, nell’aprile 1979, al quale la famiglia di Massoud votò sì. Fu costituita una milizia, incaricata di sorvegliare l’abbigliamento delle donne e il loro comportamento, e di arrestare chi trasgrediva. I muri furono coperti di manifesti con slogan come: “Sorella mia, l’hijab ti protegge come la conchiglia protegge la perla”.
“Con la sconfitta della sinistra e dei liberali nel 1980 e la loro eliminazione dal panorama politico nel 1981, gli islamisti poterono rendere il velo obbligatorio”, ha scritto nel 2004 Valentine M. Moghadam, nata in Iran negli anni cinquanta e all’epoca docente di sociologia all’Illinois state university, negli Stati Uniti, in un articolo intitolato “Le donne nella Repubblica islamica: status legale, posizioni sociali e azione collettiva”. “Anche i cosmetici erano vietati”, ha aggiunto la sociologa. “Alcune giovani che sfidavano le regole portando il rossetto in pubblico subirono una punizione inedita da parte di chi doveva far rispettare la morale pubblica: l’eliminazione del rossetto con un rasoio”.
A metà degli anni ottanta i diritti delle donne erano di nuovo limitati. La poligamia tornò legale e l’età del matrimonio delle ragazze fu abbassata a nove anni, dai quindici sotto lo scià. In base a una legge votata dal parlamento nel 1984 le donne senza velo erano punite con settantadue frustate. Molti monarchici e liberali (artisti, uomini d’affari, donne attive nella società) lasciarono l’Iran. Altri scelsero di restare. La cantante Gougoush, idolo della cultura pop iraniana degli anni precedenti la rivoluzione, fu costretta a tacere: alle donne era vietato cantare da sole. “L’hijab fu uno strumento per islamizzare la società”, spiega un sociologo di Teheran che ha chiesto di restare anonimo. “I leader se ne servirono per respingere i valori dell’epoca precedente e consolidare il potere. Allo stesso tempo, non volevano dare un’immagine arretrata: sotto il regime rivoluzionario le donne con il velo potevano essere presenti nella società”. Queste regole rassicuravano le famiglie tradizionali, permettendo alle ragazze di proseguire gli studi e di prendere in considerazione ogni tipo di professione. Tanto più che la guerra scatenata dall’invasione dell’Iran da parte dell’Iraq (1980-1988), inghiottiva molti ragazzi, i cui volti di “martiri” tappezzavano i muri delle città. Come molti altri, Massoud partì per il fronte. Poi lasciò l’esercito per abbracciare la religione. Ai suoi occhi “le donne erano ‘nude’ quando non portavano il chador”. “Quanto ero retrogrado!”, riconosce oggi. Cambiò idea dopo la morte dell’ayatollah Khomeini, il 3 giugno 1989. Il suo successore Ali Khamenei, meno carismatico, non lo convinceva. Tutta la famiglia cominciò a disinteressarsi della politica. La più giovane delle sue sorelle, Sheida, nata nel 1981, portava il velo dall’età di sette anni per andare a scuola, come stabilito dalla legge. A nove la famiglia glielo impose anche negli spazi privati. “A casa nostra era così. Non c’era modo di disobbedire”, racconta oggi.
Sheida, che a suo dire è sempre stata la ribelle della famiglia, a quindici anni decise di togliersi il velo. Massoud era furioso. La madre le ripeteva: “Sei molto più bella con il velo”. Ma lei si ostinava, spinta da un clima di rinnovamento. Il presidente Mohammad Khatami (1997-2005) era un riformatore, attento a temi come l’apertura politica, il ruolo della società civile, la stampa libera e la tolleranza. Ostentava il turbante nero dei sayyed, i “discendenti del profeta”, ma non esitava a farsi fotografare con le donne e a guardarle negli occhi, contrariamente ai religiosi, che preferiscono non farlo. Nel 2000, in un’intervista al quotidiano Hambastegi, dichiarò: “Il problema non è cosa indossano le donne. L’essenziale è che siano presenti in tutti i settori della società”.
Una leggera brezza di libertà si avvertiva in alcuni film dell’epoca, che mettevano in scena donne emancipate, come The may lady, di Rakhshan Bani-Etemad (1998) o Due donne, della regista Tahmineh Milani (1999). I quotidiani riformisti (Jameeh, Toos, Yas) si moltiplicarono. Chiedevano più libertà e denunciavano i crimini commessi dall’ala conservatrice, di cui l’ayatollah Ali Khamenei era la figura di punta: una serie di omicidi di oppositori e intellettuali iraniani nel 1998, commessi dal ministero dei servizi di sicurezza, e l’attacco brutale ai dormitori del campus dell’università di Teheran l’8 e il 9 luglio da parte dei basij (forza paramilitare legata ai Guardiani della rivoluzione, l’esercito ideologico del paese). La “primavera della stampa”, come fu definita, durò poco. “Nonostante i suoi limiti il periodo di Khatami ci aprì gli occhi”, afferma Massoud. “Ci rendemmo conto che avevamo dei diritti”. Lui abbandonò gli studi religiosi per insegnare arabo e religione a Teheran: “La società stava cambiando. E anch’io”. Nel 2002 partì con moglie e figli per un viaggio a Parigi e a Londra. Al ritorno la moglie decise, con la sua approvazione, di sostituire il chador con un foulard. “L’incompetenza e la corruzione della Repubblica islamica hanno contribuito a farmi cambiare idea sull’hijab”, spiega. Il cambiamento è applaudito da Sheida, il cui destino fu segnato a venticinque anni, il giorno in cui nel suo portafogli fu scoperta la foto di un ragazzo. La famiglia la costrinse a sposarlo: “Mia madre non mi lasciò scelta, non glielo perdonerò mai”, dice.
L’amante diventò un marito violento. E nel 2005, dopo l’arrivo del presidente ultraconservatore Mahmoud Ahmadinejad, la società sperimentò un altro giro di vite. Fu creata una nuova polizia religiosa (la stessa che il 13 settembre ha arrestato Mahsa Jina Amini a Teheran perché era “velata male”) e i diritti delle donne furono ulteriormente limitati, soprattutto in materia di divorzio. La separazione era proprio quello che voleva Sheida, e che suo marito – e sua madre – le negavano. Stanca di combattere, la giovane fuggì in Turchia, dove dal 2021 vive con suo figlio.
In Iran la pronipote di Molouk non ha conosciuto la rivoluzione né la guerra. Stilista di ventinove anni, Samira ha saputo liberarsi di molti limiti. Da dieci anni ha lasciato la casa di famiglia sul mar Caspio per studiare matematica all’università di Teheran. Suo padre era severo e la “rimproverava perché si tingeva le unghie di rosso”. Nella capitale Samira si è fidanzata con un ragazzo. I due vivono insieme. Sua madre lo sa, suo padre finge di non sapere. Quello che sarebbe stato inconcepibile qualche anno fa non le costa nemmeno un rimprovero. “Mio padre è molto cambiato negli ultimi anni. Questa evoluzione la vedo anche nella società iraniana”, dice Samira. Pensa che “internet ha giocato un ruolo importante, mostrando alle persone com’è la vita altrove”.
Vivere normalmente
In questi giorni, mentre l’Iran è in rivolta, il padre le ripete che la Repubblica islamica ha esagerato nella volontà di controllare il velo, che l’hijab sarebbe dovuto diventare una scelta, com’è successo nella loro famiglia. Massoud sostiene che la contestazione provocata dalla morte di Amini è una battaglia delle donne, ma anche degli uomini che cercano di “vivere normalmente, lontano dai precetti delle Repubblica islamica”. Non esita a incoraggiare le ragazze e racconta con fierezza: “Un giorno ho fermato due di loro senza il velo. La mia barba le ha spaventate”, perché è uno dei tratti degli uomini fedeli al regime. “E ho detto: ‘Questa città è più bella con voi, così come siete’”.
A casa sua in Turchia, Sheida segue le manifestazioni con orgoglio e angoscia. Piange ogni volta che un adolescente è ucciso. Per lei questi eventi s’inseriscono nella battaglia condotta dalle donne come lei nelle loro famiglie: “Le ragazze lottano per recuperare il diritto di scegliere. Io contestavo il patriarcato. Loro contestano il patriarcato supremo: lo stato”.
“La lotta delle iraniane si è ampliata così tanto che ci si riconoscono anche gli uomini, le minoranze etniche e religiose, e altri gruppi che hanno subìto ingiustizie”, commenta il sociologo di Teheran. L’hijab, l’elemento scatenante della rivolta, è diventato il simbolo del potere iraniano che – non da quarantatré anni, ma da un secolo – non smette di tentare di appropriarsi dei corpi e delle vite. Molouk è morta nel 2006, all’età di 85 anni, nella sua città sul mar Caspio. Fino all’ultimo respiro questa donna testarda ha rimuginato con amarezza sul giorno maledetto in cui fu costretta a lasciare la scuola, a causa del velo. ◆ fdl
1794 Mohammad Khan Qajar dà il via alla dinastia Qajar.
1921 Il comandante militare Reza Khan prende il potere.
1926 Reza Khan è incoronato scià.
1941 Lo scià è costretto ad abdicare in favore del figlio, Mohammad Reza Pahlavi.
1978 Scoppia la rivolta contro le politiche autoritarie dello scià.
gennaio 1979 Lo scià lascia l’Iran.
febbraio Il leader dell’opposizione religiosa, l’ayatollah Ruhollah Khomeini, torna dopo quattordici anni di esilio in Iraq e in Francia.
aprile In seguito a un referendum è proclamata la Repubblica islamica dell’Iran.
giugno 1989 Khomeini muore. Ali Khamenei diventa guida suprema.
16 settembre 2022 Cominciano le proteste in seguito alla morte di Mahsa Jina Amini, arrestata dalla polizia religiosa con l’accusa di aver indossato il velo in modo inappropriato. Bbc
Ghazal Golshiri è una giornalista di Le Monde che si occupa di Medio Oriente. Tra il 2016 e il 2019 è stata corrispondente in Iran.
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Questo articolo è uscito sul numero 1491 di Internazionale, a pagina 52. Compra questo numero | Abbonati