È arrivato il momento che gli Stati Uniti, e con loro la comunità internazionale, decidano se il ciclo interminabile di violenza tra Israele e i palestinesi deve continuare, oppure se bisogna tentare di farlo cessare. Gli Stati Uniti continueranno a dare armi a Israele per poi criticarne l’uso eccessivo, oppure sono finalmente disposti a prendere provvedimenti concreti, per la prima volta nella loro storia? E soprattutto, il più crudele attacco israeliano contro Gaza andrà fino in fondo? Oppure si coglierà l’opportunità creata dal conflitto per fare un passo avanti verso una pace duratura?
A nulla servirebbe rivolgere un appello a Israele. Il governo di Benjamin Netanyahu, e quello che probabilmente lo rimpiazzerà, non ha e non avrà mai l’intenzione, il coraggio e la capacità d’innescare un cambiamento. Quando il primo ministro risponde agli interventi statunitensi sulla creazione di uno stato palestinese dicendo di “essere contrario a iniziative imposte dall’alto” o che “un accordo sarà raggiunto solo attraverso negoziati”, non si può fare altro che ridere e piangere allo stesso tempo. Ridere, perché nel corso degli anni Netanyahu ha fatto di tutto per far fallire i negoziati. Piangere, perché in realtà è Israele a usare la forza: la sua politica nei confronti dei palestinesi si basa su una coercizione unilaterale, violenta, aggressiva e arrogante. Tutto a un tratto Israele è contro le imposizioni? Ci vuole parecchio coraggio a sostenerlo di fronte a tutti.
Gli Stati Uniti continueranno a dare armi a Israele per poi criticarne l’uso eccessivo, oppure sono disposti a prendere finalmente provvedimenti concreti?
È inutile aspettarsi che l’attuale governo israeliano cambi la sua natura. Sarebbe inutile anche attenderselo da un esecutivo guidato da Benny Gantz, che fa parte del gabinetto di guerra del primo ministro, o da Gadi Eisenkot, ex capo di stato maggiore, o da Yair Lapid, leader dell’opposizione ed ex primo ministro. Nessuno di loro è disposto ad ammettere l’esistenza di uno stato palestinese con sovranità e diritti pari a Israele. Al massimo, in una giornata in cui sono davvero di buon umore, potrebbero accettare la creazione di un bantustan (i territori in Sudafrica o in Namibia assegnati ai neri dal governo sudafricano nell’epoca dell’apartheid). Non è da queste persone che verrà una soluzione. Meglio lasciare che Israele si crogioli nel suo rifiuto.
Tuttavia non possiamo permetterci di perdere questa occasione. Il mondo presto dovrà ricostruire, a sue spese, le rovine della Striscia di Gaza, fino alla prossima volta che Israele la demolirà. La stabilità globale sarà minata finché durerà l’occupazione, ed è ulteriormente compromessa ogni volta che Israele s’imbarca in una nuova guerra. Il mondo riconosce che l’occupazione dei territori palestinesi è dannosa, ma non ha mai alzato un dito per fermarla. Ora si presenta un’opportunità per farlo: dopo questa guerra Israele sarà più debole e dipendente dall’esterno. Bisognerà approfittare di questa situazione per cambiare le cose, anche per il bene di Tel Aviv.
Basta con le parole. Basta con gli inutili vertici organizzati dal segretario di stato statunitense Antony Blinken e con le parole pungenti del presidente Joe Biden. Non portano da nessuna parte. L’ultimo presidente sionista, forse l’ultimo a preoccuparsi di quello che sta succedendo nel mondo, deve agire. Per cominciare, potrebbe imparare qualcosa dalle parole semplici e vere di Josep Borrell, capo della politica estera dell’Unione europea, che ha detto: “Se pensi che troppe persone siano uccise, forse dovresti fornire meno armi per evitare che tante persone siano uccise”.
La questione, però, non è solo mettere fine alla guerra, ma riguarda soprattutto quello che succederà quando sarà finita. Se dipendesse da Israele, con qualunque governo, torneremmo al rassicurante grembo dell’apartheid e alla legge del più forte. Il mondo non può accettarlo e non può lasciare la decisione nelle mani dello stato israeliano. Tel Aviv ha risposto e ha detto no. Ora è arrivato il momento per una soluzione sul modello degli accordi di Dayton del 1995, che decretarono la fine della guerra in Bosnia Erzegovina. Quella fu una soluzione imperfetta, imposta con la forza, che però mise fine a uno dei conflitti più crudeli del novecento. E che, contro ogni previsione, resiste da 29 anni.
Uno stato palestinese potrebbe non essere più una soluzione praticabile, dopo che la presenza di centinaia di migliaia di coloni israeliani ha fatto naufragare la possibilità di crearne uno. Ma il mondo deve mettere Israele di fronte a una scelta chiara: o le sanzioni o la fine dell’occupazione; o i territori o le armi; o le colonie o il sostegno internazionale; o uno stato democratico o uno stato ebraico; o l’apartheid o la fine del sionismo.
Se il resto del mondo si dimostrerà irremovibile, ponendo le alternative in questi termini, Israele dovrà fare una scelta. È il momento di costringere lo stato israeliano a prendere la decisione più importante della sua storia. ◆ fdl
Questo articolo è uscito sul quotidiano israeliano Haaretz.
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Questo articolo è uscito sul numero 1551 di Internazionale, a pagina 38. Compra questo numero | Abbonati