Lanciando la sua sanguinosa offensiva su Gaza dopo i massacri commessi il 7 ottobre 2023 da Hamas, Israele temeva l’apertura di un secondo fronte a nord, su un teatro di operazioni noto e facilmente infiammabile. Dopo i violenti scontri dell’estate 2006 in cui l’esercito israeliano affrontò i combattenti sciiti del gruppo libanese Hezbollah, le schermaglie tra questi due nemici storici intorno alla “linea blu” che separa il Libano dallo stato ebraico – paesi ufficialmente in guerra dal 1948 – non sono mai cessate.
Il sud di Israele invece sembrava al sicuro da interventi militari esterni, protetto da accordi di pace firmati da tempo con i vicini Egitto e Giordania e dal processo di normalizzazione avviato nel 2020 con vari stati del Golfo. Eppure, è proprio qui che il tanto temuto secondo fronte si è concretizzato. Inizialmente alcuni attacchi lanciati dalla lontana costa yemenita dai miliziani huthi hanno preso di mira il porto israeliano di Eilat, sul mar Rosso. L’estensione degli attacchi alle navi mercantili dirette in Israele e la risposta militare statunitense e britannica a partire dall’11 gennaio fanno temere una destabilizzazione mondiale del commercio nel caso che rimanga bloccato uno snodo cruciale della navigazione.
Duplice traiettoria
Non c’erano segnali di questa minaccia. Lo Yemen, paese dilaniato dalla povertà e indebolito dai conflitti interni, non è mai stato considerato un attore geopolitico di rilievo. L’ascesa degli huthi (fino a poco tempo fa considerati dei ribelli con ambizioni nazionali), la portata del loro arsenale e la loro capacità di causare danni sono state sottovalutate da tutti, tranne forse dall’Arabia Saudita. Lo stesso vale per i loro legami con l’Iran, definiti a volte di “totale asservimento” a volte “di puro opportunismo”.
Gli Stati Uniti, ormai in prima linea in questa nuova deflagrazione regionale, oggi pagano il prezzo di un simile disinteresse. E con loro molte altre potenze. In pochi giorni gli huthi sono diventati protagonisti in Medio Oriente, tanto più minacciosi in quanto la loro organizzazione resta sostanzialmente sconosciuta.
La loro “promozione” alla ribalta internazionale deriva innanzitutto da risultati locali: oltre a essersi imposti come padroni indiscussi della capitale Sanaa, gli huthi controllano ormai la parte più popolosa dello Yemen. E questo grazie a due fattori. Il primo, di natura interna, è quello dell’insurrezione cominciata nel 2004 contro il regime di Ali Abdallah Saleh, il presidente impossibile da spodestare nello Yemen unificato dopo la fusione nel 1990 tra la Repubblica araba dello Yemen, a nord, e la Repubblica democratica popolare dello Yemen, a sud. Il secondo, più ideologico, è la manifestazione fin dalle origini di un antimperialismo aggressivo che condanna il ruolo degli Stati Uniti e del suo alleato israeliano in Medio Oriente.
Basandosi su questa duplice traiettoria, gli huthi – che si definiscono Ansar Allah (partigiani di Dio) e si considerano gli unici rappresentanti legittimi dello stato yemenita – si trovano a una svolta incerta della loro storia. È lecito chiedersi se la sfida lanciata agli Stati Uniti non sia solo l’espressione di un’arroganza che potrebbe portarli alla sconfitta in un paese sottomesso a influenze esterne che lo riducono a un sottosviluppo endemico.
“Gli Stati Uniti hanno percorso novemila chilometri per dare sostegno a Israele. Perché non dovremmo avere il diritto di prestare aiuto ai palestinesi quando per noi si tratta di un obbligo morale?”, ha chiesto Abdel Malik al Huthi, l’enigmatico leader di Ansar Allah in un discorso trasmesso il 18 gennaio dall’emittente pubblica controllata dai suoi sostenitori. “Uno scontro diretto con gli Stati Uniti non spaventa il popolo yemenita, al contrario. L’aspettiamo da tempo. Era giunto il momento di combattere il nostro principale nemico che fino a oggi avevamo affrontato indirettamente”, ha aggiunto riferendosi alla coalizione di paesi arabi lanciata nel 2015 da Riyadh e sostenuta da Washington per contrastare gli huthi. Ergendosi a nuovo paladino della causa palestinese, Al Huthi fa appello alla mobilitazione internazionale: “Le manifestazioni di solidarietà con la Palestina devono continuare, anche nei paesi occidentali, in Europa e in America”.
Il tragitto percorso dal movimento è impressionante, dai primi slogan comparsi all’inizio degli anni duemila sui muri di una piccola città del nord dello Yemen fino a questo discorso carico di fiducia e di sfida nei confronti dell’occidente. Le origini della storia degli huthi sono legate alla rinascita dello zaidismo, una scuola di pensiero dell’islam sciita insegnata nell’ottavo secolo da Zayd Ben Ali, discendente del genero di Maometto (nel campo del diritto lo zaidismo è però vicino al sunnismo sciafeita al quale si rifà la maggioranza degli yemeniti). Per circa un millennio questa corrente sciita si è diffusa sugli altopiani dello Yemen occidentale sotto forma di una gerarchia sociale estremamente rigida guidata da un imam. Abolito da un colpo di stato militare nel 1962, fu rimpiazzato da una repubblica sostenuta militarmente dall’Egitto nasseriano ma combattuta dal regno saudita, allarmato all’idea di veder prosperare un simile modello politico alle sue frontiere. In quello stesso decennio lo Yemen del Sud, protettorato britannico organizzato intorno ad Aden, dopo la decolonizzazione passava sotto la sfera d’influenza sovietica.
La rete si allarga
Il rinascimento zaidita si fondava su un senso di emarginazione, che continuò a crescere dopo la creazione della Repubblica araba dello Yemen. Nel solco zaidita, il movimento dei Giovani credenti, fondato nel 1992 da Hussein Badreddin al Huthi, mirava a contrastare l’influenza delle correnti sunnite radicali, salafita e wahabita, importate dal vicino saudita e che stavano prendendo piede anche nel suo bastione settentrionale, nel governatorato di Saada. A dimostrazione delle complessità locali, chi traeva più vantaggi dalla giovane repubblica – primo tra tutti il presidente Ali Abdallah Saleh (1978-2012) – era spesso di confessione zaidita, senza però definirsi esclusivamente in base a questa variabile religiosa.
Il pluralismo politico previsto dalla nuova costituzione dello Yemen unificato e la frammentazione del potere, dovuta alla persistenza di una forte rete tribale, consentirono a Hussein Badreddin al Huthi di essere eletto in parlamento nel 1993. I rapporti con il governo si fecero più tesi dopo il tentativo di secessione del sud – motivato dal risentimento degli zaiditi militanti (la convinzione di essere vittime di un’emarginazione politica, economica e sociale) – che fu represso sanguinosamente nel 1994 da Saleh appoggiato dagli islamisti di Al Islah, un partito vicino ai Fratelli musulmani.
Un altro fattore di tensione emerse durante la “guerra contro il terrorismo” guidata da Washington dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, compiuti dall’ancora sconosciuta Al Qaeda, il cui leader Osama bin Laden proveniva da una famiglia yemenita originaria dello Hadramaut. Da allora gli occidentali hanno guardato il paese solo attraverso il prisma dei gruppuscoli jihadisti attivi in regioni dove lo stato faticava a imporsi.
Per salvaguardare il suo potere, Saleh abbandonò la costosa politica di neutralità che aveva scelto durante la guerra del Golfo (1990-1991) – e sanzionata con l’espulsione di decine di migliaia di yemeniti emigrati a lavorare nelle vicine monarchie petrolifere – per concentrarsi sulla cooperazione in materia di sicurezza con gli Stati Uniti, che moltiplicavano le operazioni di omicidi mirati nello Yemen. Una posizione fortemente condannata dagli huthi.
Hussein Badreddin al Huthi diffuse allora “un insieme di analisi delle relazioni internazionali, anche su scala regionale, alla luce della dominazione americano-sionista”, spiega Laurent Bonnefoy, esperto di penisola arabica contemporanea al Centro di ricerche internazionali di Parigi. Fu in quel periodo che sui muri di Saada apparve lo slogan che sarebbe diventato la firma degli huthi: “Dio è il più grande! Morte all’America, morte a Israele, la maledizione sugli ebrei e vittoria all’islam!”. Secondo Bonnefoy, “questi proclami si legano bene con la matrice creata dall’Iran rivoluzionario. È su queste basi, e non principalmente intorno all’islam sciita, che si sono potute strutturare le relazioni degli huthi con l’Iran”.
Lo slogan fu scandito nel gennaio 2003 durante una visita a Saada del presidente Saleh, che lo interpretò come una contestazione della sua autorità. Si aprì allora un periodo di tensioni, segnato dalla morte di Al Huthi, ucciso dalle forze dell’ordine nel settembre 2004. Seguirono diversi cicli di guerra, nel corso dei quali le autorità bombardarono incessantemente le roccaforti huthi, senza riuscire a sedare l’insurrezione. A Sanaa gli huthi erano descritti come una fazione strumentalizzata da Teheran – un’argomentazione di cui Saleh conosceva il possibile impatto a Washington – e profondamente reazionaria, dato che la loro lotta, si sosteneva, mirava a ripristinare l’imamato e l’ordine sociale ingiusto in vigore prima della repubblica.
Logorare il nemico
Negli anni novanta diverse figure di Ansar Allah avevano stretto legami con l’Iran. Hussein Badreddin al Huthi e suo fratello Abdel Malik, attuale leader del movimento, avevano accompagnato il padre, Allameh Badreddin, grande studioso zaidita, in un viaggio nella Repubblica islamica. Ma era stato a Khartoum, in Sudan, che Hussein aveva deciso di studiare teologia. Nessun elemento indica che Teheran abbia fornito un aiuto significativo nei primi anni dell’insurrezione.
L’interesse dell’Iran per il mar Rosso, dove transitano i carichi di armi inviati ai suoi alleati libanesi di Hezbollah o ai palestinesi della Jihad islamica e di Hamas, è antico. Ma l’attenzione per lo Yemen risale al primo intervento militare saudita, nel 2009, a sostegno del governo Saleh che si trovava in difficoltà di fronte alla rivolta degli huthi. Teheran vide nella vulnerabilità del regime di Sanaa l’occasione insperata di destabilizzare l’Arabia Saudita, sua grande rivale regionale, grazie a una strategia già sperimentata in Iraq contro le forze di occupazione statunitensi: logorare il nemico appoggiandosi a gruppi ribelli locali.
“Il radicarsi del conflitto yemenita polarizza più che mai la società”
Nell’ottobre 2009 la marina yemenita sequestrò migliaia di munizioni anticarro a bordo di una nave civile con equipaggio iraniano. “Non c’è dubbio che l’Iran sostenga gli huthi. Non possono finanziare la loro ribellione con melograni e uva, o con la droga, considerando i miliardi che spende lo stato yemenita per combatterli”, dichiarò il mese dopo il generale Yahya Saleh, nipote del presidente e all’epoca capo del controspionaggio.
Intanto il governo yemenita collezionava errori strategici, alimentando il discorso settario di una guerra combattuta contro “sciiti safavidi” (un’espressione ripresa dal vocabolario salafita e riferita alla dinastia persiana che si convertì in massa allo sciismo tra il cinquecento e il settecento), e saccheggiando e bombardando i villaggi delle zone huthi nel governatorato di Saada, con il supporto di milizie tribali venute da regioni lontane, talvolta salafite o jihadiste. Per reazione, le tribù dello Yemen settentrionale si schierarono dalla parte della ribellione.
Nel 2011 l’ondata delle “primavere arabe” raggiunse anche lo Yemen. Tra i manifestanti che chiedevano le dimissioni del capo dello stato, gli huthi potevano rivendicare le loro critiche di vecchia data nei confronti del potere autoritario di Saleh. Quando la radicalizzazione del movimento di protesta minacciò di far sprofondare il paese nella guerra civile, il Consiglio di cooperazione del Golfo spinse il presidente ad andarsene. Saleh si dimise il 25 febbraio 2012, dopo 33 anni di potere indiscusso. Il fallimento della transizione e l’alleanza contro natura siglata tra il leader deposto e i nemici di un tempo aprirono agli huthi le porte della capitale, di cui s’impadronirono nel 2014. Dopo un nuovo voltafaccia, Saleh fu ucciso tre anni più tardi. Ma i combattenti zaiditi non avevano più bisogno di lui per perseguire le loro ambizioni.
“La questione della conquista territoriale non è nuova per il movimento huthi. Alcuni dei loro discorsi evocano un ‘Grande Yemen’ che si estenderebbe fino ai luoghi santi, in particolare La Mecca, ma non bisogna dargli troppa importanza”, osserva Bonnefoy. “Al di là dell’aspetto ideologico, gli huthi hanno comunque esitato prima di prendere il controllo dei territori e di valutare le risorse che questo poteva garantirgli, insieme all’ampliamento della loro capacità offensiva, come si può vedere ora nel mar Rosso”.
Due poteri rivali
L’offensiva vittoriosa del 2014 scatenò contro i nuovi padroni di Sanaa le forze saudite, su iniziativa di Mohammed bin Salman – detto Mbs, all’epoca non ancora principe ereditario ma già leader di fatto del regno, nominato ministro della difesa nel gennaio 2015 – e degli Emirati Arabi Uniti sotto l’influenza di Mohammed bin Zayed, detto Mbz, principe ereditario e già uomo forte di Abu Dhabi.
La coalizione, che comprendeva una decina di stati arabi, riuscì ad arginare l’avanzata degli huthi, ma non a cacciarli da Sanaa. La frammentazione dello Yemen si tradusse nella sovrapposizione di due poteri rivali: quello degli huthi radicato nella capitale, e quello incarnato da Abd Rabbo Mansur Hadi, riconosciuto dalla comunità internazionale ma confinato nel sud, ad Aden, o in esilio forzato a Riyadh. Tuttavia, la regionalizzazione del conflitto yemenita non è stata a senso unico. Gli huthi, sostenuti sempre più apertamente dall’Iran, soprattutto per quanto riguarda le armi, hanno acquisito i mezzi per colpire oltre frontiera, moltiplicando i lanci di missili e l’invio di droni armati e prendendo di mira i territori di Arabia Saudita ed Emirati.
L’avvicinamento tra Ansar Allah e la Repubblica islamica è documentato. Per alcuni mesi del 2014 la compagnia aerea Mahan Air, legata ai Guardiani della rivoluzione iraniani, ha garantito un collegamento aereo bisettimanale tra Sanaa e Teheran. Secondo un rapporto presentato dal gruppo di esperti dell’Onu per lo Yemen al Consiglio di sicurezza, il 25 settembre di quell’anno due affiliati libanesi di Hezbollah e tre guardiani della rivoluzione iraniani furono liberati da un carcere della capitale yemenita.
Nel gennaio 2018 lo stesso gruppo ha stabilito, dopo l’analisi dei rottami provenienti da una decina di missili balistici Burkan-2 lanciati contro l’Arabia Saudita, che questi ordigni derivavano dai Qiam-1 iraniani con una gittata di 700-800 chilometri, portati clandestinamente nello Yemen in pezzi separati e poi saldati insieme sul posto da un team di ingegneri. Gli huthi hanno rivendicato anche il devastante attacco compiuto contro due impianti petroliferi del gigante saudita Aramco nel settembre 2019 nell’est del regno. La rivendicazione è stata smentita l’anno dopo da un nuovo rapporto degli esperti dell’Onu, i quali hanno spiegato che “le dichiarazioni degli huthi sul numero e i sistemi armati usati non corrispondono alle informazioni di cui disponiamo”. E hanno aggiunto: “Gli Stati Uniti hanno condiviso informazioni riguardanti i rottami di uno dei droni, che indicano che questo poco prima dell’attacco ha attraversato un’area situata circa 200 chilometri a nordovest del luogo di impatto”. E non a sud, come sarebbe stato se il lancio fosse venuto dal territorio yemenita. Poco importa, la campagna di logoramento aveva portato i suoi frutti.
Cambio di prospettiva
La coalizione a guida saudita ha infatti rinunciato a riprendere militarmente il porto strategico di Hodeida sulle sponde del mar Rosso, finito nelle mani di Ansar Allah nel gennaio 2019, e ha seppellito la speranza di una disfatta dei combattenti huthi, ancora definiti “ribelli” nel resto del mondo.
Questi ultimi hanno inoltre tratto vantaggio delle crescenti divergenze tra i due principali leader regionali, Mbs e Mbz. Il primo, assorbito da un progetto di sviluppo del regno saudita, temeva che gli attacchi sul suo territorio potessero scoraggiare gli investimenti stranieri. Il secondo, scottato dalla perdita di Hodeida e preoccupato per il peso conferito da Riyadh all’islam politico all’interno del governo yemenita in esilio, ha avviato un ritiro delle sue truppe, continuando a sostenere le autorità del sud, anche quando mostravano una rinnovata volontà secessionista.
“La capacità di mobilitazione degli huthi deve molto allo scontro con l’Arabia Saudita. Il loro discorso nazionalista incentrato sulla difesa dello Yemen dall’aggressione straniera ha potuto attirare sostegno soprattutto da parte di leader tribali che a lungo gli erano stati ostili”, spiega Laurent Bonnefoy. “Parallelamente, la debolezza dell’opposizione nelle zone da loro controllate spiega la creazione di un efficace apparato di sicurezza, e anche istituzionale. Gli huthi reprimono i loro oppositori, ma alcuni gli riconoscono un senso dello stato, una professionalità che è in contrasto con altre realtà yemenite”.
La guerra che oppone Israele e Hamas, dispiegandosi anche nelle acque strategiche del mar Rosso, ha interrotto le trattative in corso tra le fazioni yemenite dopo la tregua conclusa nell’aprile 2022 con il sostegno dell’Onu. Rispetto ad Ansar Allah, che si presenta coerente sul piano politico e religioso, il governo “ufficiale” offre l’immagine di un’accozzaglia di interessi diversi, a volte personali, all’interno del Consiglio direttivo presidenziale. Guidato da Rashad al Alimi (parente del defunto presidente Saleh) il Consiglio è composto da otto persone, tra cui alcuni sudisti e i capi delle fazioni confessionali o militari.
“Gli huthi sono convinti di essere in una posizione di forza rispetto al Consiglio, che dipende da Riyadh, e rispetto ai sauditi”, afferma un osservatore che vive nello Yemen e ha chiesto di restare anonimo. “Secondo loro, l’escalation nel mar Rosso è popolare nello Yemen e nel mondo arabo, è coerente con la loro ideologia e non mette in discussione i negoziati in corso sulle sorti del paese”. E aggiunge: “Si potrebbe però ipotizzare che abbiano intenzione di servirsi della loro nuova statura internazionale per ottenere più fondi, dato che i negoziati riguardano soprattutto il versamento da parte di Riyadh di miliardi di dollari ai funzionari yemeniti che non sono pagati da molto tempo, o più influenza territoriale”.
La loro ascesa sullo scacchiere regionale ha anche provocato un drastico cambiamento del punto di vista statunitense sullo Yemen. Dopo averlo osservato con la lente della lotta al jihadismo, gli Stati Uniti ora guardano il paese alla luce delle ambizioni dell’Iran. Questa visione anima due note pubblicate il 9 gennaio, alla vigilia dei bombardamenti della marina statunitense sulle postazioni huthi, dall’American enterprise institute e dalla Heritage foundation, due istituti conservatori con sede a Washington. La novità è netta.
Mentre la politica statunitense relativa allo Yemen è stata a lungo allineata a quella dell’Arabia Saudita, secondo Bruce Riedel, esperto della Brookings institution con trent’anni di servizio nella Cia, Washington ormai è in prima linea nel contrastare l’influenza degli huthi sul mar Rosso. Riyadh invece invoca un calo delle tensioni e si tiene alla larga dalla coalizione che gli Stati Uniti cercano di mettere in piedi per proteggere l’asse commerciale strategico. Le note dei due istituti chiedevano a Washington di impegnarsi militarmente a fianco del governo yemenita “ufficiale” e di inserire di nuovo gli huthi tra le “organizzazioni terroristiche”. Il gruppo yemenita era entrato nella lista nera alla fine del mandato di Donald Trump (2017-2021), prima di esserne rimosso all’inizio della presidenza di Joe Biden, ufficialmente per facilitare il trasporto degli aiuti umanitari nelle zone controllate dal movimento. Il 17 gennaio il dipartimento della difesa statunitense ha annunciato il suo rientro nella lista.
Gli attacchi condotti da Ansar Allah nel mar Rosso dimostrano la disponibilità di armi sempre più sofisticate. “Nel giro di pochi anni i ribelli huthi dello Yemen si sono dotati di un arsenale considerevolmente diversificato di armi antinave”, scrive Fabian Hinz, ricercatore dell’International institute for strategic studies. Questo vasto arsenale, aggiunge, “solleva alcune questioni sulla strategia più ampia dell’Iran nella regione”.
Anche se gli huthi hanno messo in relazione i loro attacchi nel mar Rosso con l’offensiva israeliana in atto nella Striscia di Gaza, “le armi sono state fornite da Teheran molto prima che scoppiasse il conflitto tra Israele e Hamas nell’ottobre 2023. Questo significa che l’Iran si sta concentrando, seriamente e a lungo termine, sul rafforzamento delle capacità antinave degli huthi, e che potrebbe tentare di esportare nel mar Rosso e nello stretto di Bab el Mandeb, entrambi di una grande importanza geopolitica, il suo modello di coercizione navale (la capacità di bloccare una via di navigazione) attuato nel golfo Persico e nello stretto di Ormuz”.
“La vicinanza all’Iran non è una novità e non scaturisce direttamente dalla guerra”, fa notare Bonnefoy. “È in atto soprattutto una convergenza di posizioni, in particolare sul piano ideologico, e di interessi, sfruttata sia dall’Iran sia dagli huthi. La strategia degli huthi va comunque letta nel contesto yemenita, soprattutto dal momento che si sta determinando il futuro del gruppo come forza dominante”.
Le violente tensioni nel mar Rosso hanno ridato legittimità agli huthi in una fase in cui le regioni sotto il loro controllo cominciavano a contestarne l’autorità. Dopo la tregua del 2022 e la cessazione quasi totale delle ostilità nel paese, la loro popolarità era in calo. La popolazione gli rimproverava delle carenze nell’amministrazione, soprattutto un’incapacità di fornire servizi pubblici. “A settembre il gruppo era irrequieto. Per paura che la gente manifestasse dopo la preghiera del venerdì schierava le sue forze di sicurezza nei pressi di alcune moschee”, ricorda un avvocato di Sanaa.
Guerra per sempre
Dall’inizio della guerra a Gaza il venerdì è tornato a essere un giorno di mobilitazione, ma le folle che si radunano ora sono composte da simpatizzanti huthi. L’11 gennaio, all’indomani dei primi attacchi anglo-statunitensi, la capitale yemenita è stata teatro di una mobilitazione record: centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro l’aggressione straniera e a sostegno della Palestina. “La guerra, come in passato, infonde nuovo entusiasmo nel movimento. E aumenta la repressione nei confronti delle voci critiche”, osserva l’avvocato. Nella capitale i tribunali emettono condanne a raffica, alcune per “collaborazione con il nemico in tempo di guerra”. “Processi politici”, denunciano gli oppositori. Nel dicembre 2023 è stata chiesta la pena di morte per l’attivista per i diritti umani Fatima Saleh al Arwali, per “scambio di informazioni con il nemico”.
A vent’anni dalla sua comparsa, questa rivolta divenuta centrale ha mostrato una resilienza eccezionale, che non è stata accompagnata dal superamento della sua forte identità confessionale nel mosaico culturale e religioso caratteristico dello Yemen. Ma mentre in origine la corrente zaidita era distante dal ramo principale dell’islam sciita insegnato nella Repubblica islamica, sotto il dominio degli huthi il suo rinascimento si è tradotto in una proliferazione dei rituali e dei simboli di mobilitazione praticati dagli sciiti iraniani. L’Ashura, che commemora il martirio dell’imam Hussein, nipote del profeta, è ormai un’occasione per le dimostrazioni di forza degli huthi. Ogni anno si celebra anche l’Eid al Ghadir, in memoria del “sermone dell’addio” pronunciato da Maometto poco prima di morire, che nell’interpretazione sciita proclamò il genero Ali suo successore politico e religioso.
“L’affiliazione ideologica di Ansar Allah genera un soffitto di cristallo”, sostiene Bonnefoy. “Il radicarsi del conflitto yemenita, cominciato quasi dieci anni fa, polarizza più che mai la società e rende difficile immaginare uno stato unificato intorno agli huthi. Questi dovranno confrontarsi con altre forze, che a loro volta dovranno integrare gli huthi, segno del fallimento dell’operazione militare lanciata nel 2015 con l’obiettivo di annientare il movimento”.
“Non è esagerato dire che gli huthi sono nati e cresciuti con la guerra”, osserva Maysaa Shuja al Deen, ricercatrice del Center for strategic studies di Sanaa. Da quando sono diventati un gruppo politico-militare nel 2004, passando per il loro coinvolgimento nella rivolta popolare del 2011, fino al fiasco del processo di transizione politica nel 2014, “gli huthi non hanno mai cessato le loro operazioni militari a nord di Sanaa”, ricorda. Il conflitto armato ha plasmato il movimento, la sua natura diffidente, la sua struttura militare. Da quasi vent’anni combatte senza sosta. “Tutti i suoi successi politici sono stati condizionati da vittorie militari”, aggiunge Al Deen. Al punto che un processo di pace sarebbe oggi per gli huthi la sfida più grande da affrontare dai tempi della loro comparsa sugli altopiani dello Yemen. ◆ fdl
settembre 2014 Gli huthi, originari del nord dello Yemen e seguaci dello zaidismo, una variante dell’islam sciita, conquistano la capitale Sanaa.
marzo 2015 Una coalizione guidata dall’Arabia Saudita e sostenuta dagli Stati Uniti avvia una campagna militare contro gli huthi.
7 ottobre 2023 Dopo un sanguinoso attacco di Hamas nel sud di Israele, che uccide circa 1.140 persone, Tel Aviv lancia un’offensiva militare nella Striscia di Gaza, che in quasi quattro mesi provocherà più di 26mila vittime tra i palestinesi.
19 ottobre Affermando di agire in solidarietà con il popolo palestinese, gli huthi sparano droni e missili verso il sud d’Israele e contro le navi dirette in Israele, in transito nel mar Rosso.
19 novembre Gli huthi sequestrano una nave commerciale nel mar Rosso.
19 dicembre Gli Stati Uniti lanciano una coalizione internazionale per proteggere la navigazione nel mar Rosso.
11 gennaio 2024 Stati Uniti e Regno Unito bombardano alcune postazioni degli huthi nello Yemen. Lo fanno di nuovo il 22 gennaio. Gli attacchi dei miliziani alle navi proseguono. Bbc
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1548 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati