Non ricordo chi fosse, ma un parlamentare, nelle lunghe giornate quirinalizie, pare abbia detto: “Dobbiamo risolvere prima che cominci Sanremo”. Lo capisco. Non si arriva alla messa impreparati. Peccatori sì, ma con i capelli in ordine. Che ci si sieda in prima fila o ci si nasconda dietro le colonne, Sanremo rimane la liturgia che non ammette ritardi e defezioni. Appuntamento così potente che se fossi nel suo comune avrei già proclamato l’indipendenza, l’autonomia fiscale e un re. Il parlamentare faceva bene a sollecitare i suoi, perché Sanremo è la settimana in cui salotti, circoli e case del popolo convergono su un’unica scaletta di argomenti e permettono alla politica di respirare, di approfittare del silenzio in attesa di tornare in scena con nuove metafore e colpi a effetto rubati ai testi delle canzoni. Ariston e Montecitorio uniti nel linguaggio. Tuttavia al parlamentare Sanremo non lo lascia sereno. Basta un aggettivo del comico, il dito medio dell’artista, il verso della band, l’appello dell’attore perché l’intera nazione si compatti intorno a una sentenza capitale. È un carnevale che può finire malissimo, o anche solo spaventare con i fantasmi del passato, che con il loro canto si fanno beffa del presente. Cinque campioni – Morandi, Zanicchi, Ranieri, Berti e Rettore – il pentapartito della canzone e il loro bellissimo messaggio subliminale: la prima repubblica è tornata e ha una gran voglia di ballare. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1446 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati