Ma come? Sono anni che ci battiamo per il superamento dei generi, che arridiamo alla distinzione tra maschile e femminile, allergici alla parola identità, e cosa fa il servizio pubblico? Si riorganizza in generi. Una piccola rivoluzione, da anni nei cassetti di viale Mazzini, che ridefinisce il rapporto tra prodotto e platee tv. Termina così la gloriosa epoca delle reti. Rai 1, Rai 2, Rai 3 (proprio ora che familiarizzavamo con genitore1 e genitore2) cedono il passo a Intrattenimento, Sport, Cultura, Informazione… Il telecomando rimane uguale, ma spariscono i direttori, sostituiti dai channel manager, sul modello della Bbc, relegati a ruolo di supervisori. Il potere è di chi collocherà i programmi raccolti per “categoria”. La riforma parte in salita, con uno scontro tra l’ad Carlo Fuortes e Mario Orfeo, inizialmente destinato a governare le news. I motivi veri non li sapremo mai, per ora affidiamoci alla sintesi magica di ogni intoppo in Rai: la politica. La stessa che inventò il palinsesto dividendo la torta, con mano premurosa, in tre parti (quasi) uguali: un pezzo alla Dc, uno al Psi e uno al Pci. Non solo lottizzazione, ma proiezione proporzionale dei gusti degli italiani. Caduti i partiti e cambiata la legge elettorale, con il consueto ritardo, la tv si adegua. Ma, a chi parla? è la domanda. Noi che non siamo più elettorato. Noi che, quando il funzionario estendeva la lista dei generi, eravamo già belli che gender fluid. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1464 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati