Tra le diverse forme di protesta in carcere, oltre allo sciopero della fame, su cui si è tornati a scrivere per la vicenda dell’anarchico Alfredo Cospito, c’è il digiuno televisivo. A chi sta da questa parte delle mura e considera il telecomando un’appendice del demonio, può apparire una stravaganza, ma in cella la tv è importante come il pane. Facile intuirne le ragioni: distrae, insegna la lingua, racconta il mondo, smorza il senso di distacco, informa ed è un sedativo spesso più efficace degli psicofarmaci. Per questo protestare spegnendo gli schermi è una scelta tutt’altro che scontata. Normalmente le tv possono trasmettere solo le reti nazionali. I canali locali sono banditi in quanto in passato avrebbero veicolato messaggi in codice, e sono oscurate anche le piattaforme a pagamento. Un boss recluso a San Vittore, a Milano, pur di vedere le partite di calcio si è offerto di pagare l’abbonamento a tutto l’istituto. Richiesta respinta. Pochi anni fa il magistrato ordinò di ridurre gli orari in cui vedere la tv dalle 7 alle 24, perché di notte disturberebbe il sonno degli altri detenuti. Qualcuno fece notare che il volume si poteva anche regolare, e che privare i reclusi della compagnia notturna della tv, quando l’insonnia è più nera, era una misura oltremodo punitiva. Alla fine il provvedimento fu ritirato grazie soprattutto alle proteste, vale la pena di ricordarlo in questa settimana di festival, dei detenuti del carcere di Sanremo. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1498 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati