“Io sono una persona che…” è un incipit da temere. È premessa alla fandonia, rincorsa breve per la mistificazione del sé. Ai puntini segue spesso l’idea distorta che abbiamo di noi stessi. È la frase più citata dai concorrenti di Primo appuntamento (Real Time), dove due persone cenano insieme con lo scopo di conoscersi e decidere se cominciare una storia d’amore. Per favorire il racconto tv, il casting è orientato verso tipi timidi e ostici come Silvia, trentenne dal piglio vagamente simile alla protagonista di Misery non deve morire, che demolisce a suon di puntigli e smorfie i già fragili pretendenti. A differenza di altri programmi basati sulla tresca, qui il corteggiamento lascia il passo all’analisi. Incalzati dalle domande, i maschi si avventurano in un’autonarrazione che rivela tutte le falle della nostra educazione sentimentale. Si comincia con promesse di affidabilità, tenerezza e ironia, quasi sempre delusi da storie che hanno lasciato sul corpo ferite che, chi vuole intendere intenda, devono essere lenite, e se il clima è favorevole alle rassicurazioni subentra un timido tentativo di mani avanti, di tiepidi avvertimenti sul bisogno di spazi propri e sulla cura dell’adolescente che è in noi, a cui non va censurata la voglia di cazzeggiare. All’alzata di sopracciglio di lei, ecco il ricorso al “sono una persona che…”, certificazione ministeriale del panico di chi, incapace di scrivere, improvvisa una biografia. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1585 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati