Mussolini adorava la tv. Nel 1939, insieme a papa Pacelli e al segretario di partito, gli fu recapitato un prototipo Radiomarelli per assistere a uno speciale sul capo degli italiani, cioè lui. La possibilità di poter trasmettere le parole del duce in diretta, dagli Appennini alle Ande, solleticò oltremodo le ambizioni littorie. La programmazione sperimentale di quei mesi, ricorda Diego Verdegiglio in un saggio del 2003, prevedeva per lo più intrattenimento leggero: sketch, sceneggiati e canzonette. Mussolini se ne appassionò a tal punto da congratularsi con i dirigenti dell’Eiar, soprattutto per le esibizioni canore di Lia Origoni. Nel 1940 le troupe di via Asiago erano pronte a posizionare le telecamere a piazza Venezia per riprendere la dichiarazione di guerra, ma all’ultimo lo stesso Mussolini ritenne il mezzo televisivo troppo frivolo per testimoniare la gravità del momento. I cannoni congelarono la marcia tecnologica del piccolo schermo, che dovette attendere il decennio successivo quando, a mondo capovolto, i quiz subentrarono agli auspici futuristi di una nuova tv. Come scrisse Marinetti in un apposito manifesto, occorreva andare oltre la vista e l’udito e coinvolgere tutti i sensi: il teletattilismo, il teleprofumo e il telesapore. Profezie disattese di un palinsesto imperiale che si limitò all’immagine pur tenera del duce nelle vesti dell’abbonato in poltrona colpito dai bagliori del varietà alla vigilia del disastro. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1589 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati