Dopo aver visto Adolescence (Netflix), rimani lì come un torsolo, senza alibi a cui aggrapparti. Malgrado il titolo evochi l’universo teen, la serie guarda dritto negli occhi degli adulti. La vicenda racconta l’arresto per omicidio di Jamie Miller, 13 anni, e l’esplosione del mondo intorno: l’investigatore dai nervi tesi, la psicologa che cerca risposte, i compagni dallo sguardo vuoto e tormentato e i genitori, soprattutto il padre (Stephen Graham, creatore della serie), idraulico pietrificato da un evento impossibile da prevedere. Dietro il gesto atroce si nascondono il bullismo digitale, il veleno delle teorie sul suprematismo maschile, e quel reticolo perverso dove l’umiliazione si misura in like. Il piano sequenza ci trascina nei corridoi scolastici, nei meandri della questura, nelle strade del quartiere operaio, nella quotidianità soffocante, disegnando una mappa emotiva che raramente tocca la giovane vittima, concentrandosi invece sull’angoscia dei genitori del carnefice, in un rovesciamento brutale: non temiamo più quello che i nostri figli possono subire, ma quello che possono fare. E il modo in cui le idee tossiche li contagiano a una velocità impensabile. C’è un momento, nel primo episodio, in cui l’inquadratura esclude il resto fissando il volto del padre mentre assiste impotente alla perquisizione del corpo nudo del figlio. È il nucleo dell’intera faccenda. O, in un sussulto di ottimismo, il necessario punto di partenza. ◆

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1606 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati