“Una cosa è certa: che in occidente la rivoluzione può esserci solo se ci sarà anche la rivoluzione femminile, e inoltre che se non c’è una rivoluzione femminile non ci sarà alcuna reale rivoluzione. Di un’altra cosa siamo convinti: che per le donne vale quello che diciamo per il proletariato, e cioè che liberando se stesse, contribuiscono a liberare tutta l’umanità, e quindi anche i maschi. (…) Oggi, nel momento in cui le donne hanno portato avanti il tema della liberazione – che comprende, ma supera, quello dell’emancipazione – i comunisti conseguenti, in quanto rivoluzionari – e perciò fautori della fine di ogni forma di oppressione – devono superare quegli orientamenti culturali, quegli atteggiamenti mentali e pratici, quelle abitudini che sono proprie di una società e di una cultura (e quindi anche di un modo di fare politica) costruite secondo l’impronta maschilista, cioè in nome di una pretesa supremazia dell’uomo. Le compagne avvertono che, pur in un quadro di partito che presenta differenze notevoli tra organizzazione e organizzazione, tra dirigenti e dirigenti, questo salto non è stato ancora compiuto in modo adeguato e generalizzato e quindi esse, giustamente, mostrano disagio, rivolgono critiche. Evidentemente hanno fondati motivi per farlo. Le difficoltà, le insufficienze, le resistenze che le compagne incontrano nel partito hanno una spiegazione: antico e greve è il bagaglio che ingombra tanti di noi e di esso non ci si libera d’un colpo. Ci vuole una fatica; appunto perché c’è il maschilismo. (…) Ma perché tutti i comunisti devono fare questo salto politico ideale? Non per compiacere le donne e non solo perché è proprio dei comunisti abbracciare ogni causa di giustizia, ma perché solo in questo modo si può essere rivoluzionari in questo nostro tempo, in questo nostro paese”. Enrico Berlinguer, settima conferenza nazionale delle donne del Partito comunista italiano. Roma, 4 marzo 1984. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1588 di Internazionale, a pagina 7. Compra questo numero | Abbonati