Jacob Grimm, il filologo tedesco che da giovane, insieme al fratello Wilhelm aveva messo insieme e pubblicato una delle più celebri raccolte di fiabe, nel 1857 tenne una conferenza sulla lunga vita della storia del ciclope accecato da Ulisse, che oggi viene pubblicata nella sua prima traduzione italiana. Grimm cominciava riassumendo con una sintesi non priva di senso del racconto l’episodio del canto nono dell’Odissea. Proseguiva esponendo altri racconti, tratti da fonti diverse (un testo medievale tradotto in francese, una raccolta di saghe del popolo oghuz, la sezione dedicata a Sinbad delle Mille e una notte, un libro di fiabe serbe e così via), che presentano evidenti somiglianze con il racconto omerico (un bruto con un occhio solo, lo stratagemma delle pecore per uscire dalla tana, un inganno basato sul linguaggio) ma sono ricombinate in modi vari e disordinati. Infine cercava di trovare l’origine comune a tutte queste varianti identificando l’occhio del ciclope con il sole e facendo di Ulisse una sorta di Prometeo. Nella postfazione, il curatore del volume Francesco Valagussa spiega come oggi alcune delle conclusioni di Grimm risultino meno convincenti (le versioni che reputava autonome sono influenzate da Omero, il disco del sole è una delle possibilità) e che l’unica certezza offerta da questa storia è che “l’identità non è una ‘cosa’”, ma una “relazione cangiante”. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1582 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati