Da bambina mi rimproveravano spesso perché in classe sognavo a occhi aperti, interrompevo le conversazioni e perdevo sempre ogni cosa. Solo da adulta, quando mi è stato diagnosticato il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (Adhd), queste “cattive abitudini” hanno cominciato ad avere un senso. L’idea che il mio cervello funzioni in modo diverso è alla base del concetto di neurodiversità, un quadro relativamente nuovo per dare senso a disturbi del neurosviluppo come l’Adhd e l’autismo.

“La neurodiversità riflette la consapevolezza che gli esseri umani hanno modi diversi di percepire e di relazionarsi che incidono nello sviluppo e nel funzionamento del nostro cervello”, dice Geraldine Dawson dell’università Duke del North Carolina, negli Stati Uniti. Invece di considerare queste differenze come problemi da risolvere, l’approccio basato sul concetto di neurodiversità punta ad accoglierle.

Sembra abbastanza scontato. Negli ultimi anni però questo concetto ha suscitato parecchi dibattiti. In particolare rispetto al suo significato per psichiatri e neuroscienziati, che a lungo hanno pensato in termini di “disturbo” del neurosviluppo, e per le persone che vogliono aiutare. “C’è chi pensa che il paradigma della neurodiversità si contrapponga al paradigma medico”, afferma Anita Thapar, psichiatra dell’università di Cardiff, nel Regno Unito. “In diversi saggi ho sostenuto che entrambi i paradigmi sono utili per raggiungere scopi diversi”.

Il termine “neurodiverso” è stato coniato alla fine degli anni novanta dalla sociologa Judy Singer, che l’ha usato per descrivere persone con autismo senza disabilità intellettive, che faticano a relazionarsi con gli altri o hanno comportamenti ripetitivi. L’idea era di considerare alcune forme di autismo una differenza anziché una malattia o un disturbo dello sviluppo, spiega Thapar. Si sottolineavano anche i tanti punti di forza che possono essere associati all’autismo, per esempio gli alti livelli di creatività, una concentrazione intensa su interessi specifici o la capacità di pensare fuori dagli schemi.

Questa prospettiva ha prodotto risultati positivi, incoraggiando a considerare il disturbo sotto una luce più favorevole. Le ricerche dimostrano che adottare un approccio all’autismo basato sui punti di forza migliora le relazioni sociali, l’apprendimento e la capacità di far sentire la propria voce, oltre a ridurre l’ansia. “È un modello che non vuole risolvere tutti i problemi, ma aiutare le persone nello spettro autistico ad avere le stesse opportunità delle altre”, dice Lawrence Fung dell’università di Stanford in California.

Perdita di significato

Questo porta a un punto fondamentale, spesso frainteso. Come osserva Dawson, il concetto di neurodiversità non vuole sminuire il fatto che l’autismo comporta delle difficoltà reali. Si concentra piuttosto sulla riduzione di queste difficoltà con interventi che consentano di scegliere e di agire. Negli anni il concetto si è ampliato fino comprendere l’intero spettro autistico e altri disturbi del neurosviluppo come l’Adhd, i disturbi dell’apprendimento e la dislessia. Alcuni sostengono che anche le persone con disturbi mentali come l’ansia, la depressione e la schizofrenia andrebbero considerate neurodiverse, o addirittura che siamo tutti neurodiversi, nel senso che non esistono due cervelli uguali. E qui le cose si fanno confuse. “La ricerca non è mai stata in grado di tracciare una linea netta tra ciò che è neurotipico e ciò che è neurodiverso”, spiega Dawson.

Per Thapar questo è un problema: “Se si usa la neurodiversità per definire qualsiasi cosa, perde di significato”. Dal suo punto di vista, “la neurodiversità indica le persone con precoci differenze neurologiche e cerebrali”. Ovvero, chi ha un disturbo del neurosviluppo. Per Thapar sposare la prospettiva della neurodiversità non implica abbandonare diagnosi e interventi. Il punto è capire quanto la differenza nel neurosviluppo stia causando problemi a una persona, ostacolando ciò che desidera. “Bisogna avere questo genere di flessibilità”, dice. “Quando vedo un paziente non penso solo al suo cervello, penso alla persona nel suo complesso”. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1568 di Internazionale, a pagina 108. Compra questo numero | Abbonati