Finalmente la steppa si è liberata del ghiaccio e della neve. Il bianco lascia il posto al giallo ancora secco d’inizio primavera. Ma su queste distese sconfinate si distinguono delle macchie di altri colori: marrone, beige, nero. Sono le carcasse di cavalli, pecore e mucche, quasi sette milioni di animali che non hanno superato questo durissimo inverno. I mongoli parlano di uno dzud (disastro) “bianco e di ferro”: la neve è caduta improvvisamente all’inizio di novembre, poi è tornato il caldo e l’ha fatta sciogliere. Subito dopo, però, c’è stato di nuovo il grande freddo e da dicembre a fine marzo si è formato uno strato di ghiaccio impenetrabile coperto da una fitta coltre di neve.
Da tempo i nomadi non ricordavano temperature simili, più di quaranta gradi sotto zero, e sono rimasti impotenti davanti al loro bestiame che si decimava. Oyungerel Dolgsuren ha perso quasi tutto: dei quattrocento animali che allevava con il marito Demberelsaihan e i loro tre figli sono rimaste solo tre pecore, una trentina di capre e quattro mucche. I tredici cavalli rimasti della loro mandria di cinquanta capi sono scomparsi nel freddo e nella tempesta di ghiaccio; sono sicuramente morti, ma la coppia continua a cercarli. Ogni sera l’allevatrice di 46 anni ripensa a quello che avrebbero dovuto fare se solo avessero saputo: vendere tutti gli animali già a dicembre. Ma a gennaio, quando hanno capito la portata della catastrofe, era troppo tardi. Impossibile fare i quaranta chilometri di strada fino alla cittadina di Munkhkhaan per venderli. Avevano la neve fino alla vita e per uscire dalla yurta dovevano spalare l’ingresso. I pochi minuti passati all’esterno per dare da mangiare al bestiame facevano congelare le guance, e Oyungerel Dolgsuren ha temuto per la sua vita. Gli animali provavano a grattare il terreno in cerca di erba, ma il ghiaccio era così spesso che avevano le zampe rovinate. La famiglia ha usato tutto il grano messo da parte e per il quale si era indebitata prima dell’inverno, ma non è bastato. Il bestiame è morto di freddo e di fame.
Ricominciare da zero
Gli animali malati o anziani di solito ci mettono tempo a morire, racconta la donna, ma in questo caso no. Si sdraiavano e non si alzavano più. Ogni giorno ce n’erano tre o quattro, a volte anche di più; una mattina ha contato addirittura venti carcasse. La famiglia ha fatto dormire gli animali più fragili nella yurta, ma erano già troppo debilitati. Alcune femmine sono morte di fatica durante la gravidanza o il parto. “Abbiamo fatto di tutto”, ripete Oyungerel Dolgsuren.
La donna ci fa fare il giro del piccolo rifugio costruito per riparare dal vento ancora freddo gli animali rimasti. In questa mattina di metà aprile è morta un’altra capra. Anche se le temperature sono decisamente più miti, gli animali più deboli continueranno ancora a morire per qualche giorno o settimana. Come tutti i pastori della regione, Oyungerel e Demberelsaihan hanno ammucchiato le carcasse. L’ufficio per la difesa dell’ambiente chiede che siano portate in fosse identificate, lontano dai corsi d’acqua e dalle abitazioni per evitare le malattie con il ritorno del caldo. Per spostare le centinaia di carcasse serviranno dei camion.
Avvolta in una felpa viola con il cappuccio, Oyungerel racconta le discussioni con il marito di 52 anni. “Mi dice: ‘Non abbiamo più nulla, ora che facciamo?’”. Ricominciare da zero? I due tori e i due arieti sono morti. Lei sembra smarrita. Racconta che nei giorni in cui va in moto fino a Munkhkhaan ha dei mancamenti. “Prima ero una persona serena”. A marzo il figlio di venticinque anni si è trasferito a Ulan Bator, rinunciando alla vita nomade. I precedenti episodi di dzud, in particolare quello del 2010, hanno spinto molte famiglie a caricare la yurta sul camion per trasferirsi nella baraccopoli che si estende sulle colline intorno alla capitale. Ma gli ex allevatori non hanno il livello d’istruzione o le conoscenze per trovare il loro posto nel mondo degli stanziali di città. Oyungerel preferirebbe rimanere, ma per ripartire ci vorranno da cinque a dieci anni, a condizione che gli inverni siano più stabili, cosa tutt’altro che scontata.
Le dinamiche del cambiamento
Con un clima continentale estremo, la Mongolia negli ultimi ottant’anni ha registrato un innalzamento delle temperature medie di 2,46 gradi. Ma in alcuni inverni ci sono temperature minime da record, che gli specialisti fanno fatica a spiegare. “L’Eurasia centrale, tra cui la Mongolia, è un importante polo di freddo. Stiamo ancora cercando di capire le dinamiche del cambiamento climatico in questa regione”, spiega Jacopo Riboldi, professore di meteorologia al Politecnico federale di Zurigo, in Svizzera.
In passato i mongoli dicevano che gli dzud capitano una volta ogni dieci anni, ma ora la loro frequenza è aumentata. “I fenomeni estremi sono più ravvicinati, con estati molto calde e inverni imprevedibili. L’equilibrio economico e psicologico ne risente, e quando proviamo a parlarne molte famiglie si chiudono nel silenzio. Perdere gran parte di quello che si ha è terribile”, osserva Bayan-Altai Luvsandorj, responsabile in Mongolia dell’ong Save the children.
Il clima non è l’unico responsabile. “Si tratta di un insieme di fattori”, spiega Burmaa Dashbal, direttrice della Federazione mongola degli utilizzatori dei pascoli. Dopo la fine della pianificazione sovietica, per sopravvivere nell’economia di mercato i nomadi hanno fatto crescere il bestiame, così il paese è passato da 25,9 milioni di capi nel 1990 a quasi 65 milioni alla fine del 2023. Gli allevatori puntano in particolare sulle capre, per la lana cachemire, ma questi animali rovinano il terreno strappando le radici. Quasi il 70 per cento della superficie di pascolo è interessata da questo fenomeno. A ciò si aggiungono le piogge tardive, le estati più calde e gli dzud più frequenti.
Attraversare la Mongolia orientale alla fine di questo inverno particolarmente rigido è un’esperienza unica. I pastori portano di nuovo a pascolare i cavalli, le pecore e le mucche nella steppa. Gli animali che non riescono a seguire le mandrie muoiono lungo la strada. Da Munkhkhaan bisogna percorrere una decina di chilometri per arrivare da Gansukh Banzragch. In 63 anni di vita da nomade, questo allevatore non aveva mai visto delle nevicate simili, e tante variazioni all’inizio della stagione: “Si sono formati molti strati di neve e di ghiaccio sovrapposti”. Dei seicento capi che allevava insieme alla moglie e ai figli, solo un centinaio è sopravvissuto. “Ogni giorno era un trauma nuovo, volevo piangere”, racconta l’uomo, di solito taciturno. Anche la sua famiglia, appena possibile, è andata a cercare i sedici cavalli scomparsi nella tempesta di ghiaccio. “Ma già sapevamo che non li avremmo trovati”, dice. È convinto che ormai per lui e la moglie sia troppo tardi per rimettere in piedi l’allevamento, ma vuole aiutare i sette figli. Una di loro, Bayartsetseg Gansukh, ammette che insieme al marito si sono chiesti se andare a vivere in città. “Ma a fare cosa?”, aggiunge la donna.
◆ La Mongolia ha poco più di tre milioni di abitanti ed è uno dei paesi meno densamente popolati al mondo, con due abitanti per chilometro quadrato. La vita nomade è garantita dalla costituzione del paese: ogni cittadino ha il diritto di collocare la sua ger (tenda tradizionale) dove vuole. Nel 2023 nel paese c’erano 65 milioni di capi di bestiame e 247mila famiglie di allevatori nomadi, che durante l’anno si spostano almeno quattro volte usando gli stessi pascoli frequentati dai loro antenati. Quasi l’80 per cento del territorio mongolo è adibito a pascolo. Circa un terzo della popolazione pratica l’agricoltura, mentre più della metà vive nella capitale, Ulan Bator. Intorno a questa si sono sviluppate delle tendopoli di persone che hanno abbandonato la vita nomade per trovare lavoro in città. Baikal People Journal
Il padre è anche molto preoccupato per i debiti, ci pensa in continuazione. Come molti nomadi, ha chiesto un prestito alla banca all’inizio dell’autunno per comprare fieno e grano per l’inverno. Negli anni normali non è un problema: si paga il debito all’inizio dell’estate vendendo gli animali o la lana. Ma ora la famiglia ha perso l’80 per cento del bestiame e a luglio non potrà restituire il prestito.
Nonostante l’annuncio di un accordo nazionale per rimandare pagamenti, a livello locale le famiglie continuano a subire pressioni dalle banche, che non ricevono aiuti per compensare le perdite. A loro volta le famiglie evitano di fornire alle autorità locali il numero preciso di animali persi, temendo di essere considerate insolventi e di perdere l’accesso a futuri crediti. Tutto questo complica la valutazione della situazione. “Si tratta di persone economicamente distrutte e lasciate sole”, sintetizza Manish Tewani, il coordinatore locale della Federazione internazionale della Croce rossa e della Mezzaluna rossa. Le organizzazioni umanitarie dicono di faticare a ottenere dei finanziamenti, mentre l’attenzione è concentrata sui due grandi conflitti in Ucraina e in Medio Oriente.
Ma non tutte le famiglie nomadi si trovano nella stessa situazione: alcune sono un po’ più ricche e usano pratiche migliori. Munkhtsatsral Khatanbaatar, 41 anni, e suo marito Zagdsuren Batsuuri, per esempio, possiedono una yurta per il pascolo estivo, ma anche una modesta casa e un riparo in muratura per gli animali. Lui viene da una nota famiglia di allevatori della regione e nel loro salotto troneggiano molte medaglie, oltre al disegno di un cavallo che è stato un campione nelle corse organizzate durante le feste tradizionali. La coppia ha perso il 30 per cento dei suoi 650 cavalli e metà delle sue duecento pecore. L’inverno precedente, già difficile, aveva perso altri cinquanta cavalli. “Tutto il lavoro fatto insieme da quando ci siamo sposati vent’anni fa”, dice Munkhtsatsral Khatanbaatar. Entrambi maledicono il clima che cambia, l’erba che cresce meno alta di quand’erano giovani, ma anche le famiglie che allevano troppo bestiame, fino a un migliaio di capi, e che sconfinano sulle terre usate da altri. “La natura non ce la fa più”, aggiunge la donna.
Negli ultimi tempi la coppia ha speso più tempo a portare gli animali morti nella fossa vicina che a curare quelli vivi. Anche stamattina è morto un cavallo. Gli hanno legato le zampe con una corda attaccata dietro la loro auto per trascinarlo sul retro di un pick-up. Poi l’hanno scaricato a pochi chilometri di distanza, accanto alle carcasse degli altri cavalli che non sono sopravvissuti all’inverno. ◆ adr
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Questo articolo è uscito sul numero 1571 di Internazionale, a pagina 50. Compra questo numero | Abbonati