“Ecco, vede?”, dice il deputato, indicando la spilletta bianca sul risvolto della giacca: raffigura due silhouette maschili con i rispettivi nomi, Kamiński e Wąsik, e sopra il logo rosso del sindacato polacco Solidarność, che fu determinante nella caduta del regime comunista. “Mariusz Kamiński e Maciej Wąsik sono prigionieri politici”, prosegue Michał Wójcik. “Una cosa del genere in Polonia non si era mai vista: due politici protetti dall’immunità parlamentare arrestati illegalmente e messi in prigione! Perché l’Europa non s’indigna?”.
Seduto su un’ampia poltrona di cuoio nell’atrio del senato, Wójcik è circondato da un viavai di giornalisti, senatori e portaborse. Fuori, davanti al Sejm, la camera bassa del parlamento, un gruppetto di manifestanti sfida il freddo issando cartelli con fotografie del premier Donald Tusk vestito da carceriere di un lager nazista. Sopra c’è una scritta in tedesco: “Führer”. In Polonia i riferimenti al periodo nazista non passano mai di moda.
In Polonia ci sono due idee diverse di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato, due realtà
A Varsavia questi sono giorni di follia. Dopo otto anni di dominio della destra ultranazionalista, il 15 ottobre 2023 l’opposizione liberale guidata da Donald Tusk ha vinto le elezioni. Un successo in controtendenza rispetto a quanto succede nel resto del mondo, a conferma del fatto che l’ascesa dell’autoritarismo non è inevitabile. In Polonia c’è ancora chi parla di “miracolo”: un passaggio paragonabile al crollo del regime comunista nel 1989.
Ma la vittoria elettorale dei liberali è stata solo l’inizio. Per settimane, il partito Diritto e giustizia (Pis), alla guida del governo uscente, ha cercato di opporsi alla nascita di un nuovo esecutivo. Poi, quando Tusk ha finalmente assunto la carica di premier, all’inizio di dicembre, ha cominciato a bloccare ogni tentativo del nuovo esecutivo di riformare il sistema.
Il modello ungherese
Dopo la vittoria elettorale del 2015 il Pis avviò una ristrutturazione strategica dell’intero apparato statale e la Polonia, che era una moderna democrazia di stampo occidentale, diventò presto uno stato illiberale sul modello dell’Ungheria di Viktor Orbán. Il Pis, i cui fedelissimi oggi difendono con le unghie e con i denti le loro posizioni, aveva occupato un gran numero di istituzioni pubbliche: dai tribunali alle procure, dall’intelligence alla tv di stato. Con il voto di ottobre, il partito ha perso la maggioranza in parlamento, ma non certo tutto il suo potere.
Fino a fine novembre Michał Wójcik era viceministro della giustizia nel governo guidato da Mateusz Morawiecki. E i due uomini raffigurati sulla spilletta appuntata sulla sua giacca, Mariusz Kamiński e Maciej Wąsik, erano suoi colleghi, rispettivamente ministro e viceministro dell’interno. Quando abbiamo parlato con Wójcik, i due erano appena finiti in carcere per uno scandalo risalente a quindici anni fa. Poi, il 16 gennaio, sono stati rilasciati: il presidente della repubblica Andrzej Duda, uomo del Pis, gli ha concesso la grazia. In carcere avevano cominciato lo sciopero della fame ed erano stati sottoposti all’alimentazione forzata.
Il vero obiettivo del nuovo governo, ha detto Wójcik, non è la giustizia, ma la vendetta. “Tusk non è un democratico”. Inganna l’Europa e attacca i “fondamenti della democrazia”. “La Polonia si sta avviando a diventare una dittatura”, ha concluso.
Kamiński e Wąsik sono diventati i simboli della lotta tra i sovranisti del Pis e i liberali di Tusk: per i primi sono martiri, per gli altri semplicemente “due criminali”. Al momento è questa la situazione in Polonia: non ci sono solo due schieramenti politici che si affrontano senza esclusione di colpi, ma due idee diverse di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato, due realtà, due verità. Due stati all’interno dello stesso territorio. A osservarli così, uno a fianco all’altro, sembra diventare più incerta anche ogni distinzione tra giustizia e ingiustizia, verità e menzogna.
L’uomo chiamato a risolvere questa situazione intricatissima si chiama Adam Bodnar ed è il nuovo ministro della giustizia: un illustre giurista a cui è difficile far perdere le staffe. Per sei anni, dal 2015 al 2021, il quarantasettenne Bodnar è stato Ombudsman nazionale per i diritti umani e civili, forse l’ultima carica istituzionale a rimanere indipendente dal controllo del Pis. Bodnar conosce bene i suoi avversari. E loro conoscono lui.
Accetta d’incontrarci di sabato pomeriggio, dopo aver rimandato più volte l’appuntamento: in questo periodo è sballottato da una crisi all’altra. Sono settimane che lavora per ripristinare l’indipendenza della magistratura, depoliticizzare le procure, punire i giudici corrotti. Se riuscisse nell’intento, dal suo caso potrebbero prendere esempio anche altri paesi che lottano contro la morsa dell’autoritarismo. La domanda più importante da fargli è: una volta che lo stato di diritto è stato smantellato, è possibile ricostituirlo senza violare di nuovo la legge?
Per un istante il viso di Bodnar sembra illuminato dall’accenno di un sorriso. “Tutto quello che faccio”, dice tranquillo, nel suo inglese eccellente, “è assolutamente a norma di legge”.
Eppure, tutto quello che fa incontra una strenua resistenza. Al momento, i suoi principali avversari sono due: il presidente della repubblica Andrzej Duda, dotato di poteri più ampi di quelli che spettano, per esempio, al suo omologo tedesco; e la corte costituzionale, i cui giudici sono stati nominati tutti e quindici dal Pis. “Nella corte costituzionale polacca”, dice Bodnar, “nessuno si prende neanche la briga di fingere che le sentenze non siano politiche. La corte è esplicitamente usata per scopi politici”. Un professore emerito di diritto, che preferisce rimanere anonimo, usa parole ancora più nette: al momento la corte costituzionale polacca è “una macchina per distruggere lo stato di diritto”.
Prudenza e pazienza
Ma come si gestisce una situazione del genere? E che valore hanno le sentenze di una corte che ha perso ogni indipendenza e non rispetta più la legge? È possibile che un organo costituzionale agisca in modo anticostituzionale?
“Ogni tentativo di cambiare le cose si scontra con la resistenza di istituzioni che negli ultimi anni hanno subìto una profonda politicizzazione”, spiega Bodnar. “Ma dobbiamo andare avanti, non possiamo restarcene con le mani in mano in attesa di un miracolo”. La cosa più semplice e trasparente da fare sarebbe far approvare nuove leggi: una per il riassetto della tv di stato (che negli ultimi anni ha trasmesso quasi esclusivamente propaganda governativa), una per la nomina dei giudici, una per la corte costituzionale. Il governo Tusk ha la maggioranza in entrambe le camere. Ma qualsiasi legge facesse approvare, si scontrerebbe con l’inevitabile veto del presidente della repubblica e con l’opposizione della corte costituzionale.
Non resta quindi che affidarsi a “provvedimenti di seconda scelta”, come li definisce un altro giurista, ossia misure che non implicano nessun cambiamento delle leggi vigenti. Secondo un ex giudice vicino a Bodnar – anche lui chiede di rimanere anonimo – è necessario “scovare le crepe nello ‘stato di non-diritto’ costruito dal Pis, che è palesemente illegittimo”.
Il nuovo governo, insomma, intraprende iniziative di piccolo cabotaggio, impiega strumenti giuridici che possono sembrare trucchi da azzeccagarbugli. Agisce quasi come se si sentisse impotente. Prendiamo, per esempio, il caso degli ambasciatori in quota Pis: invece di sollevarli dall’incarico, decisione per cui servirebbe l’assenso del presidente della repubblica, il ministero degli esteri li richiama a Varsavia per consultazioni. In questo caso non serve l’approvazione di Duda, e le consultazioni possono durare a lungo.
Il governo di Tusk è stato eletto per cambiare le cose, non per fare tatticismi
Poi c’è il ministero della giustizia, che ha appena scoperto l’enorme mole di ferie arretrate di molti magistrati vicini al Pis e li ha obbligati a smaltirle subito, assicurandosi così che, almeno per trenta o quaranta giorni, il lavoro sia svolto da altri.
Qualche giorno fa Bodnar ha anche tentato di riassegnare una carica chiave nel sistema penale, quella di procuratore nazionale, cioè il capo di tutti i procuratori polacchi. Rimosso per ragioni formali Dariusz Barski, fedelissimo del Pis, al suo posto Bodnar ha nominato un procuratore ad interim. Barski, tuttavia, non ha accettato la decisione ministeriale. Oltre ad altri importanti magistrati, ha dalla sua il presidente Duda. Il 15 gennaio, con un procedimento d’urgenza, la corte costituzionale ha sospeso la decisione di Bodnar, che ha risposto mettendo in dubbio la legittimità del pronunciamento della corte: “Non potevo lasciare che Barski continuasse a ricoprire quella carica. Era stato nominato illegalmente e ha abusato della sua posizione”. Il ministro è quindi rimasto fedele alla sua linea. Il risultato è che oggi in Polonia ci sono due uomini che possono affermare, entrambi con un certo grado di legittimità, di essere il procuratore nazionale.
La versione del professore
Un appartamento che guarda i tetti di Varsavia. Attraverso le finestre si vede la neve cadere fitta nel buio. Il tè è servito in tazze di porcellana finissima. Il professore preferisce che il suo nome non compaia sul giornale, perché la posta in gioco è troppo alta. Si ritira un attimo nella sua biblioteca per poi emergerne con un volume che poggia sul tavolino prima di pronunciarne il titolo originale in tedesco: Der Doppelstaat (Il doppio stato). Scritto a Berlino dall’avvocato ebreo Ernst Fraenkel nel 1938, il libro analizza brillantemente la struttura interna del terzo reich. Pur non volendo certo paragonare gli otto anni del Pis al terrore nazista, il professore ritiene che, in assenza di regole per la ricostituzione dello stato di diritto, l’analisi di Fraenkel possa offrire una sorta di cornice teorica per orientarsi nell’attuale caos polacco.
Per Fraenkel, a caratterizzare la dittatura nazionalsocialista era soprattutto la convivenza di diritto e ingiustizia. In ambiti come il commercio o i divorzi, per fare un esempio, nella Germania nazista lo “stato normativo” continuava a produrre pronunciamenti e sentenze secondo quanto prescritto dalla legge. Parallelamente, però, esisteva un sistema – definito da Fraenkel “stato delle misure” o “stato discrezionale” – che, libero dalle regole e svincolato da ogni considerazione sulla giustizia, serviva esclusivamente a salvaguardare il potere del partito nazista.
Nella Polonia di oggi la situazione non è molto diversa: vige una sorta di dualismo dei poteri statali e il sistema giuridico è profondamente distorto. Secondo il professore, i giudici della corte costituzionale non sono giudici, ma “uomini e donne con la toga”, le cui sentenze non sono decisioni vincolanti, ma ingiustizie formalizzate, “atti di forza” mascherati da diritto. “Siamo nel bel mezzo di una guerra fredda”, afferma, “e non possiamo permettere che la costituzione diventi un ostacolo al ripristino dello stato di diritto”. Poi aggiunge: “Chi vuole ripulire la stalla deve accettare di sporcarsi le mani”. In bocca a uno studioso sono parole piuttosto sorprendenti.
Anche Iustitia, l’associazione dei giudici di orientamento liberale, chiede al governo di Donald Tusk di agire con maggiore rapidità e risolutezza. Secondo il suo presidente, Krystian Markiewicz, la strategia di Bodnar “non è quella giusta. Non saranno misure isolate a risolvere la crisi costituzionale”. Markiewicz spiega che il parlamento dovrebbe sostituire diversi giudici della corte costituzionale in un solo intervento, proprio come fece il Pis dopo la vittoria elettorale del 2015. Ancora oggi si discute della legittimità di quel gesto. Ma il governo di Tusk è stato eletto per cambiare le cose, non per perdersi tra esitazioni e tatticismi. Che sia giusto, quindi, ricorrere agli stessi strumenti usati dai suoi nemici per ripristinare lo stato di diritto?
Bodnar sa bene che nel paese c’è una gran voglia di scelte radicali. E molto probabilmente la condivide anche. D’altra parte è noto per la prudenza e i nervi saldi, e sa che il tempo gioca a favore del suo governo: “Magari prima o poi il presidente la smetterà di bloccare tutte le nostre proposte di legge”, dice. E se non succederà? “Allora le cose si faranno più complicate e ci toccherà gestire le conseguenze negative della crisi costituzionale per un periodo più lungo, mesi o magari un anno”. La presidenza Duda terminerà nell’estate 2025.
Al momento il governo ha ancora dalla sua i sondaggi: se si tornasse alle urne, la coalizione di Tusk avrebbe quasi il 60 per cento. Eppure, la strategia attendista è rischiosa. Lo stato di diritto, infatti, va ripristinato adesso: le forze liberali potrebbero non avere una seconda occasione.
“Una cosa la so per certo”, ha detto Michał Wójcik, ex viceministro della giustizia del governo del Pis dalla sua poltrona nell’atrio del senato polacco. “Prima o poi Bodnar dovrà rispondere penalmente di tutto questo. Non c’è potere che duri in eterno”. ◆ sk
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Questo articolo è uscito sul numero 1548 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati