Possiamo viaggiare per la gioia di vedere il mondo, ma negli anni ho capito che c’è una gioia ancora più grande, quella di trovarsi lontano. L’amore per la lontananza si prova solo ogni tanto, forse per non diluirne il sapore: è quel tuffo al cuore che sento quando sorvolo il Sahara o le Ande, nell’attimo di meraviglia che provo vedendo un tramonto nell’arcipelago delle Grenadine o arrivando su un’isola sperduta dell’emisfero meridionale. Anche quest’alba entrerà a far parte del mio archivio delle lontananze: sono su un treno notturno nel nord dell’India, in un vagone senza luce, e non so quando arriverò a Varanasi. Dalla cuccetta, guardo passare le stazioni. Non sapere dove mi trovo mi lascia indifferente: è la felicità del perdersi. E un piacere d’altri tempi: addormentarsi cullati dal dondolio del treno.
Non si arriva in una città santa senza aver fatto un po’ di penitenza, ed è per questo che nel vagone letto siamo in cinque, invece di essere da solo. Ci sarebbe il problema del covid, ma mi preoccupano di più gli odori umani. Avevo un biglietto per stare da solo, ma le tradizioni vanno rispettate e un viaggio in India non è un viaggio in India senza un certo rimescolio intestinale e qualche intoppo burocratico.
Non è il caso di mettersi a discutere con il controllore: peggio di essere nervosi è essere nervosi e bianchi, e in India non si è mai abbandonati da una leggera sensazione di disagio data dall’essere diversi. Basta che un cameriere mi versi una birra per farmi venire il dubbio di essere un colonialista. E basta negarlo per poi chiedermi se non sto cadendo nell’accondiscendenza del progressismo liberale occidentale.
Arrivato alla cuccetta mi sono trovato davanti a una famiglia: due gemelle e un uomo che sembrava cinque volte più piccolo della moglie. Mi dispiace per loro perché sono un virtuoso del russare. Ma le brutte notizie sarebbero arrivate per tutti, eravamo su un treno senza vagone ristorante, con un viaggio di almeno dodici ore davanti a noi. Nel silenzio del vagone letto, se avessero potuto parlare, gli sguardi indiani e il mio avrebbero detto la stessa cosa: “Sappiamo poco di te come tu sai poco di noi”. Ma dove non arriva la cultura arriva la pietà che ci accomuna: alle nove di sera il padre delle gemelle apre un contenitore, tira fuori le sue verdure e il suo chapati, il pane azzimo tipico dell’India e, sia lodato Shiva, li condivide con me.
Varanasi
Per anni ho riso degli occidentali un po’ allocchi che vanno a Varanasi e confondono il misticismo con le canne, per poi confessare a me stesso una verità: non sarò arrivato in India troppo tardi? Non sarebbe meglio venire qui da giovani, quando si può ancora aspirare a capire il paese?
Non lo sollevano abbastanza, facendolo sbattere contro il bracciolo del sedile
Il premio Nobel per la letteratura Vidiadhar Surajprasad Naipaul, appartenente alla casta brahmana, rimase scioccato dalla mancanza di pulizia e dalla “pomposa mediocrità” di alcuni edifici. Il disordine urbanistico, il letame, la spazzatura, i vicoli, l’ammasso di cavi elettrici che solo grazie alla benevolenza di cento dèi non prendono fuoco.
Il mio hotel, affacciato sul fiume Gange, si chiama Paradise on the steps (Paradiso sui gradini): a me devono aver lasciato la parte dei gradini e non quella del paradiso, e in mancanza di un minibar le camere hanno però scimmie sul balcone e gechi sui muri. Ma forse Varanasi è l’unica città al mondo in cui non si vorrebbe vedere la pubblicità di una birra: qualsiasi lusso che non sia destinato ai rituali religiosi – le sete, i pigmenti, gli incensi, i metalli – sembra fuori posto in un luogo in cui si viene per pensare alla vita e alla morte. Perché chi muore qui sarà illuminato.
Forse questa attenzione per l’aldilà spiega il disprezzo per le cose del mondo, ma l’occhio è attratto dalla bellezza casuale dell’incuria, dall’intelligenza segreta che governa la vita in strada. Varanasi offre il meglio di sé la mattina presto: un’alba lenta e solenne come il passaggio delle chiatte, finché il sole non scopre il colore del Gange e quello dei suoi palazzi.
New Delhi
La città sembra battere i pugni sul tavolo in continuazione per affermare la propria importanza. È l’impronta del primo ministro Jawaharlal Nehru, a cui bisogna sempre fare riferimento ogni volta che ci chiediamo come l’India, con le sue fazioni, lingue e religioni, i suoi gruppi etnici, sia riuscita a restare unita e democratica.
Oggi New Delhi è l’immagine del paese che guida le economie emergenti. La capitale sfoggia gli antichi templi che adornano i suoi campi da golf e gli hotel da mille e una notte. Ma questa recente prosperità si accompagna a un nazionalismo indù inedito, critico nei confronti di quel Nehru che, secondo i suoi esponenti, avrebbe cercato di sbiancare il patrimonio culturale del paese e di assoggettarlo ai modelli occidentali.
Un piacere tipicamente indiano è fare colazione con una frittata masala leggendo le pagine degli annunci dei quotidiani The Hindu o Delhi Times. In India molti fidanzamenti sono combinati e la conoscenza tra uomo e donna ha il romanticismo tipico della trattativa per un contratto. Si può cercare per casta: “Partner di pari status. Ragazza snella, di bell’aspetto, di carnagione chiara, senza problemi, di casta brahmana, educazione religiosa. Preferibile partner di casta elevata”. Altri annunci, quando si scende nella scala, puntano meno sulla casta e più sullla ricchezza della famiglia o sulle doti di gran lavoratore. Il mio preferito : “Di preferenza funzionario pubblico”.
Calcutta
Potreste voler fare affari a New Delhi e cercare il senso della vita a Varanasi, ma solo a Calcutta sarete gli unici stranieri. Nei salotti e nelle fumerie della città nacque la prima spinta indipendentista e sorprende come oggi Calcutta viva in pace con il suo passato coloniale. Persa ogni velleità di capitale amministrativa, economica o commerciale, Calcutta sarebbe il luogo ideale per fare filosofia, oziare o semplicemente vivere. È ancora la capitale dei giornalisti, degli editori e degli intellettuali, quindi non c’è da stupirsi che anche i ristoranti più antichi come Trincas o Mocambo siano ancora aperti, o che Calcutta abbia sviluppato una sua cucina cinese. Qui c’è una libertà che si declina, con stupore degli occidentali, nel mangiare carne di manzo o di maiale. L’apertura della città è dimostrata dal fatto che ci sono quartieri armeni e chiese portoghesi, gesuite e protestanti.
In un’epoca di ascesa del nazionalismo, è ancora più sorprendente il rispetto per certe reliquie dell’impero: l’Oxford bookstore porta ancora il sigillo di garanzia dell’ultimo viceré, Louis Mountbatten, e il Victoria memorial ci riporta al bagliore del viceré precedente, George Curzon. Ma quando la tentazione della nostalgia si fa sentire, la cosa migliore da fare è fermare un Hindustan ambassador, il meraviglioso taxi di Calcutta, e chiedergli di portarvi da qualche parte.
In India ci sono ancora luoghi in cui vestirsi di bianco sembra la cosa più appropriata. Seduto nella veranda di un qualsiasi club, aspetto di ricevere la grazia di un gin tonic e del crepuscolo. Che sia il Tollygunge di Calcutta, il Gymkhana di New Delhi, il Bangalore club o il Madras, questi luoghi parlano tutti della vecchia Inghilterra e della vecchia India. Sarà forse perché esiste ancora un fascino reciproco: se c’è un Oriental club a Londra, nel Regno Unito, c’è una certa logica nel fatto che esista un Bengal club in India. E se all’East India club di St James’s servono il curry, è perfettamente normale che al Tolly servano agnello con salsa alla menta.
Il rituale è sempre lo stesso: saluto il segretario del club, di solito un colonnello o un marinaio in pensione. Anche l’ufficio è spesso identico, con ventilatori e foto di maragià. Dopo aver ricevuto una benedizione e, forse, una cravatta in regalo, il segretario mi saluta. Ed è lì, tra teste di tigre e trofei d’argento di un secolo fa, che anch’io cedo alla particolare follia dell’India. E brindiamo, come nel romanzo di Rudyard Kipling, per diventare un giorno re del nostro personale Kafiristan.
“L’Oriente è l’Oriente e l’Occidente è l’Occidente”, scriveva sempre Kipling, “e i due mai s’incontreranno”. Ma è chiaro che ci conoscono meglio di quanto noi non conosciamo loro. Nell’ultimo albergo, prima di prendere l’aereo per tornare a casa, ho letto questo avviso: “Si prega di non entrare nella vasca da bagno dopo aver bevuto alcolici”. ◆ fr
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Questo articolo è uscito sul numero 1480 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati