È come se fosse un maxiprocesso, ma nella versione di Hong Kong. Ci sono 47 imputati a cui è stato intimato di non recitare slogan o fare segni che possano ricordare i gesti che hanno caratterizzato le proteste del 2019. In tribunale siedono quasi tutti gli oppositori politici della città: gli uomini e le donne che fino al 6 gennaio 2021 erano tra gli attivisti più in vista per le strade, sui giornali e all’interno del mini parlamento di Hong Kong, il cosiddetto consiglio legislativo (LegCo).
Sono stati arrestati all’alba di quel giorno e accusati di cospirazione al fine di sovvertire lo stato. Tranne un paio di loro, nessuno è stato scarcerato in attesa del processo, che è cominciato il 6 febbraio e durerà fino a maggio.
Solo 39 posti sono riservati al pubblico. La lunga coda davanti al tribunale sembra composta da persone che vogliono impedire ai sostenitori degli imputati di entrare in aula
Si tratta del caso più importante in cui è stata applicata la legge sulla sicurezza nazionale imposta da Pechino ed entrata in vigore il 1 luglio 2020. La legge prevede un tribunale e giudici speciali per crimini che potrebbero mettere in pericolo la sicurezza nazionale come secessione, sovversione, terrorismo e collusione con organizzazioni o forze straniere. La legge è interpretata nel modo più severo possibile: fare discorsi a favore della secessione, per esempio, è punibile con una pena che può arrivare all’ergastolo indipendentemente dalle conseguenze delle proprie azioni.
I 47 imputati avrebbero messo in pericolo la sicurezza nazionale partecipando alle primarie dell’opposizione per le elezioni del 2020, che furono rinviate di un anno con la scusa della pandemia (nel frattempo è stata approvata una riforma elettorale). La strategia dell’opposizione era consultare gli elettori per scegliere i candidati con più preferenze, conquistare la maggioranza del consiglio legislativo per fare un’opposizione dura e spingere alle dimissioni il capo dell’esecutivo.
Le istituzioni politiche di Hong Kong sono complesse. Create dai colonizzatori britannici e affinate dopo il 1997, quando la sovranità è passata da Londra a Pechino, hanno creato un sistema apparentemente democratico, che però non consente ai cittadini di avere realmente voce in capitolo. Gli abitanti della città possono eleggere solo una parte del consiglio e non scelgono il capo del governo. Questo infatti è scelto da un gruppo ristretto di persone fra due, massimo tre, candidati che hanno ricevuto l’ok di Pechino. È poi suo compito selezionare i segretari, che hanno funzione di ministri. Dal 1997, poi, il consiglio può solo avallare o bocciare le leggi proposte dal governo. Oggi, addirittura, alcune leggi sono approvate per via straordinaria, senza neanche sottoporle al miniparlamento.
La strategia messa in campo con le primarie del 2020 sperava di creare una maggioranza parlamentare capace di ostacolare ogni proposta del governo, fino ad aprire una crisi. L’obiettivo finale era tornare a chiedere il suffragio universale per eleggere il consiglio legislativo. Il risultato, invece, è stato l’arresto in massa degli esponenti delle opposizioni, che sono stati tenuti due anni in carcere in attesa del processo.
Nel frattempo la legge sulla sicurezza nazionale è stata il perno su cui modellare la nuova Hong Kong. La legge elettorale è stata modificata e solo chi è considerato “patriota” può candidarsi alle elezioni. Anche i programmi scolastici sono stati “corretti”, mentre i testi ritenuti sovversivi sono stati tolti dalle biblioteche pubbliche e dalle università. Giornali come l’Apple Daily e lo Stand News sono stati costretti a chiudere e gli slogan scanditi dai manifestanti e le canzoni delle proteste del 2019 sono stati definitivamente banditi. C’è anche una nuova legge sulla censura cinematografica, che in parte è retroattiva.
Il processo ad alcuni dei volti storici del movimento per la democrazia di Hong Kong si tiene dunque in questa nuova atmosfera. Solo 39 posti sono riservati al pubblico, ma la lunga coda davanti al tribunale sembra composta da persone che vogliono impedire ai sostenitori degli imputati di entrare in aula: fotografano i giornalisti, dicono di non sapere chi siano gli accusati, si fanno zittire da chi sta davanti o dietro di loro.
Figure come Albert Ho, ex segretario generale del Partito democratico; Joshua Wong, il giovane leader del movimento degli ombrelli del 2014; Gwyneth Ho, ex giornalista entrata in politica perché sconvolta dalla reazione delle forze dell’ordine alle proteste del 2019; Eddie Chu, il più amato ambientalista di Hong Kong, noto come “il re dei voti” perché pur candidandosi da indipendente riceveva sempre il più alto numero di preferenze: rischiano tutti fino all’ergastolo.
Alla fine di questo maxiprocesso sapremo un po’ meglio quali sono le linee invalicabili della politica nella nuova Hong Kong: più severe saranno le pene, più stretto sarà lo spazio di libertà concesso. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1498 di Internazionale, a pagina 38. Compra questo numero | Abbonati