Disegni a carboncino di cervi, resi elegantemente in linee fluide, emergono alla luce della mia torcia mentre c’infiliamo in una piccola cavità in fondo alla grotta di Las Chimeneas, nel nord della Spagna. C’è spazio solo per un paio di persone, e certamente non in piedi, quindi ci accovacciamo sul pavimento e guardiamo a bocca aperta i graffiti. Sono stati disegnati quasi diciottomila anni fa. Restiamo in silenzio per un momento, immergendoci nella lontana storia di quello spazio e realizzando che i nostri antichi antenati dovevano essersi accovacciati nella stessa posizione. “Perché pensi che abbiano disegnato qui?”, mi chiede Eduardo Palacio-Pérez, il conservatore della grotta. “Credo che non lo sapremo mai con certezza”, rispondo.

Quello che sappiamo è che durante il paleolitico superiore (da circa quarantamila a diecimila anni fa), i nostri antenati si avventuravano in profondità nel sottosuolo per disegnare queste immagini. Qui al fioco bagliore delle torce ne hanno prodotto una ricca serie, da strane forme astratte a rappresentazioni molto dettagliate di animali. Le sagome delle bestie, le file di segni fatti con le dita e gli schizzi che conservano le orme di mani antiche sono rimasti congelati nel tempo all’interno delle grotte: rappresentano decine di migliaia di anni di persone che tornavano nell’oscurità per dedicarsi a quelle creazioni artistiche.

Nella grotta c’è spazio solo per un paio di persone, e certamente non in piedi. Quindi ci accovacciamo e guardiamo a bocca aperta i graffiti. Hanno quasi diciottomila anni

Questo comportamento curioso, ma molto creativo, cattura la fantasia. Eppure, come ha detto Jean Clottes, un importante ricercatore dell’arte del paleolitico, la domanda chiave ancora senza risposta per tutti noi è: “Perché disegnavano in quelle grotte?”.

Certamente, fin dalla prima scoperta dell’arte rupestre, nel 1868 ad Altamira, in Spagna, migliaia di ricercatori accademici usano un arsenale di metodi diversi – dalla scansione 3d ad alta risoluzione alle somiglianze con le società contemporanee di cacciatori-raccoglitori – per scoprire le intenzioni degli artisti del paleolitico. Le ipotesi non mancano, alcune più plausibili di altre. Dal momento che la frammentaria documentazione archeologica non può fornire risposte da sola, queste idee attingono dalla ricerca etnografica e psicologica, e le suggestioni variano dal mitico e magico, dal simbolico e linguistico, al banale.

Una teoria è che gli artisti fossero sciamani di alto rango che eseguivano riti misteriosi nell’oscurità. Si pensa che nelle profondità delle grotte raggiungessero stati di trance, sia tramite il suono ritmico dei tamburi sia con droghe che alteravano la mente. Gli stati di coscienza alterati forse facilitavano la comunicazione con gli antenati, la visione d’immagini ultraterrene o il richiamo degli animali da un mondo spirituale oltre le pareti rocciose delle caverne. La tesi sciamanica si basa su dati etnografici ed è stata molto criticata sia per aver tracciato in modo inappropriato parallelismi tra i popoli di oggi e quelli del lontano passato sia per aver classificato un’enorme gamma di comportamenti sotto l’unica etichetta dello “sciamanesimo”.

Un’altra ipotesi è che i segni astratti e i “disegni” sulle pareti delle caverne fossero un protosistema di scrittura o parte di un diffuso metodo di comunicazione. Si ritiene che questi sistemi abbiano avuto una molteplicità di contesti d’uso, dal segnare il cambio delle stagioni al definire un’identità di gruppo. Da questo punto di vista, le caverne erano una risorsa per comprendere l’ambiente circostante, per sapere che animali c’erano e dove, quando si riproducevano e per rendersi conto della presenza di altre popolazioni nell’area. Come prova a sostegno di questa tesi, alcuni ricercatori hanno individuato dettagli etologicamente accurati: la colorazione dei cavalli riflette la loro diversità genetica nell’era glaciale e gli ispidi mantelli invernali sono mostrati con precisione. È perfino possibile identificare il loro comportamento. Tuttavia, paradossalmente, queste interpretazioni presuppongono una condizione statica dell’arte rupestre. Le dimensioni temporali sono compresse in un sistema che si presume sia rimasto così per migliaia di anni di cambiamenti climatici e dinamiche delle popolazioni.

Queste interpretazioni suggestive dell’arte rupestre, che la collocano all’interno di ricchi ambienti culturali, contrastano con l’idea che l’arte paleolitica fosse semplicemente “arte per l’arte”. Nel qual caso, vorrebbe dire che quelle immagini enigmatiche sono state prodotte da cacciatori annoiati che passavano un po’ di tempo ad affinare le loro capacità artistiche per creare rappresentazioni esteticamente gradevoli. I segni astratti sono spiegati neurologicamente come gradevoli alla vista: le linee che s’intersecano, per esempio, sarebbero state prodotte dall’apparato visivo per stimolare il piacere estetico. Questa tesi vede l’arte dell’epoca come una pratica emersa dalla neurologia dei nostri antenati – la tendenza di alcune forme a essere “piacevoli” – che non aveva un ulteriore significato più profondo per chi la creava.

Approcci più sfumati all’arte dell’era glaciale che, a differenza delle ipotesi discusse finora, non cercano una sola spiegazione per le motivazioni dell’artista, rivelano le esperienze multisensoriali che avrebbero fatto da contesto. La luce tremolante del fuoco, l’eco, l’interesse di varie generazioni per i comportamenti artistici e le interazioni tattili con le pareti calcaree grezze e le stalagmiti lisce si fondono per formare esperienze uniche per ogni artista in un momento e in un luogo specifici. Mentre ciò che ha spinto i nostri antenati è bloccato nel tempo, queste prospettive più sfumate ci permettono d’intravedere le esperienze profondamente umane del passato. Possiamo cominciare a pensare che i nostri predecessori forse erano attratti da particolari spazi delle caverne e dal tipo di esperienze, in particolare visive, stimolate da questi ambienti.

Chiudete gli occhi. Fate un respiro profondo. Vi trovate in una grotta, decine di migliaia di anni fa. L’odore di umido e di terra si mescola con il fumo caldo della torcia accesa e riempie le narici. Il silenzio ovattato è rotto solo dal crepitio del fuoco e dai lontani gocciolamenti d’acqua che echeggiano nello spazio. Siete soli, ma sentite la presenza di quelli che sono stati in questo luogo prima di voi.

Aprite gli occhi. L’oscurità è avvolgente e il caldo bagliore del fuoco cerca disperatamente d’illuminare le pareti intorno a voi. È quasi impossibile distinguere qualcosa. Mentre avanzate con cautela, facendovi strada a tastoni attraverso l’oscurità, la torcia rivela parzialmente una particolare formazione.

Raramente possiamo fidarci della nostra vista. Lungi dal riprodurre fedelmente un’immagine accurata del mondo che ci circonda, lo sguardo si concentra selettivamente su alcune informazioni importanti. Leggendo le parole di questo articolo, gli occhi scorrono rapidamente le lettere, mentre il sistema visivo fa ipotesi plausibili su ciò che significa ogni parola. Questo vuol dire che le lettere possono non essere nel giusto ordine, ma si riescono comunque a interpretare con relativa facilità.

In questo momento l’ambiente circostante non è al centro della nostra attenzione, e il nostro apparato visivo sta dando per scontato che rimarrà per lo più statico. Ma nella visione periferica, una quantità significativa d’informazioni può variare a nostra insaputa. I colori possono cambiare, gli oggetti possono assumere un’altra forma. Solo il movimento sembra essere colto prontamente dalla visione periferica, presumibilmente per non farci prendere completamente alla sprovvista se si avvicina un pericolo. Le illusioni ottiche giocano proprio su questi processi, dimostrando quanto la visione sia davvero infedele nel trasmettere una rappresentazione imparziale di ciò che ci circonda.

Il motivo di questa selettività dell’attenzione visiva non è una carenza dell’evoluzione umana, ma esattamente il contrario: focalizzando l’attenzione e facendo ipotesi plausibili sulle informazioni mancanti, possiamo elaborare rapidamente quelle che abbiamo e concentrare lo sguardo solo sulle più importanti all’interno della nostra sfera visiva. Questo fenomeno è intrinsecamente condizionato dalla nostra esperienza del mondo. Come spiega il neuropsicologo Chris Frith nel suo Inventare la mente (Raffaello Cortina 2008), ciò che percepiamo non sono “segnali grossolani e ambigui che dal mondo esterno colpiscono i nostri occhi, le nostre orecchie e le nostre dita. Percepiamo molto di più, un’immagine che combina tutti questi segnali con molte esperienze passate”.

Il nostro cervello viene quindi addestrato a diventare esperto in alcuni tipi d’informazioni che giudica importanti. Questa competenza è definita come la capacità di elaborarli globalmente per identificare il singolo con la stessa rapidità con cui classifica un gruppo. Per esempio, possiamo riconoscere un individuo preciso con la stessa rapidità con cui capiamo semplicemente che davanti a noi c’è “una persona”. Anche se le informazioni visive in cui sviluppiamo competenze sono spesso determinate culturalmente, possiamo anche svilupparle consapevolmente. I birdwatcher esperti, per esempio, identificano l’esatta specie con la stessa rapidità con cui capiscono che stanno osservando un uccello. Questo modella il modo in cui focalizziamo la nostra attenzione, e se mancano le informazioni il cervello riempie gli spazi vuoti.

Angelo Monne

La pareidolia – il fenomeno per cui si vedono forme specifiche in immagini casuali – sembra un effetto di questo modo di concentrarsi selettivamente su determinate informazioni, e di fare ipotesi per “completare” l’immagine. La pareidolia è un’esperienza universale. Tutti noi abbiamo guardato le nuvole e ci abbiamo visto volti e animali, o abbiamo percepito nella luce fioca tronchi d’albero nodosi e contorti come strane creature che emergono dall’oscurità. Anche se potremmo pensare che queste immagini siano un errore – sappiamo benissimo che non c’è un grande volto che ci guarda dalle nuvole – sembra che siano emerse come vantaggio evolutivo. Supponendo che un contorno frammentario sia, in realtà, un predatore che si nasconde nel fogliame, possiamo reagire prontamente ed evitare una morte orribile, anche se quel predatore si rivela essere solo un’illusione provocata da rami e foglie.

Questo vantaggio evolutivo è ulteriormente stimolato in condizioni visive compromesse, come la scarsa illuminazione. Il nostro apparato visivo si mette in moto e usa ciò che sappiamo del mondo, in base alla nostra esperienza quotidiana, per inserire le informazioni mancanti. Per quelli di noi che vivono in società altamente popolate e socialmente orientate, questo significa che la pareidolia spesso si manifesta come un volto: siamo stati culturalmente addestrati a focalizzare lo sguardo principalmente sui volti, a elaborare rapidamente le somiglianze e le differenze nell’aspetto, o anche i sottili segnali che possono indicare uno stato emotivo. Questa saturazione di stimoli facciali condiziona la nostra risposta alle informazioni ambigue: vediamo volti ovunque.

Ma se vivessimo in un piccolo gruppo all’interno di un paesaggio scarsamente popolato in cui la nostra sopravvivenza dipende dalla capacità d’identificare, rintracciare e cacciare gli animali, sarebbe ragionevole che il nostro apparato visivo entrasse in sintonia con certe forme. Saremmo addestrati a identificare almeno in parte chi si nasconde dietro il fogliame o i contorni lontani e vaghi di animali che si stagliano sul paesaggio. Avremmo anche una conoscenza intima dei loro comportamenti, di come si muovono, dei sottili segnali delle orecchie che si drizzano o delle teste che si alzano a indicare che potrebbero essere consapevoli della nostra presenza. I nostri antenati del paleolitico potrebbero quindi aver sperimentato la pareidolia animale nella stessa misura in cui noi sperimentiamo la pareidolia facciale. Dove noi antropomorfizziamo e percepiamo volti, loro zoomorfizzavano e percepivano animali.

“Cos’è quello?”. Cominciamo a dubitare dei nostri occhi. Un’ombra tremola attira l’attenzione sul movimento. Nell’oscurità, le crepe, fessure e forme ondulate della parete della grotta si confondono formando un’immagine familiare. Alla luce del fuoco è difficile distinguerla immediatamente. Mentre sfarfalla dentro e fuori dalla vista, vediamo corna formate dalle crepe, e la sottile curvatura del muro diventa una struttura muscolosa. Un bisonte prende forma ed emerge dall’oscurità.

In che modo queste esperienze visive e sensoriali si collegano alla creazione di arte rupestre? Questa era la domanda che mi ronzava in testa durante la mia ricerca. Sappiamo da tempo che chi faceva i disegni nelle grotte spesso usava le caratteristiche naturali dei soggetti, integrando le crepe per rappresentare il dorso degli animali o la variegata topografia per aggiungere un senso di tridimensionalità. La prima scoperta di arte rupestre conosciuta – il bisonte di Altamira – testimonia l’uso di convessità e concavità ondulate per dare dimensione e forma alle raffigurazioni dei bisonti, che giacevano silenziosi, con le zampe piegate sotto il corpo sul basso soffitto della grotta. Le cosiddette maschere di questa grotta e di altre della regione sono ulteriori esempi di forme naturali delle grotte sfruttate per produrre disegni. Questi spesso prendono una forma che sembra una testa zoomorfa e aggiungono i sottili dettagli degli occhi e delle narici per completarla. Allo stesso modo, raffigurazioni dettagliate emergono da forme naturali incastonate nelle pareti delle caverne che sono poi arricchite da particolari aggiunti con dita ricoperte di ocra. Così, anziché percepire la parete della grotta come una tela bianca, sembra che questi artisti innovativi ne usassero le caratteristiche per arricchire le immagini.

Questi esempi sorprendenti indicano chiaramente il ruolo della pareidolia nella produzione di almeno alcune espressioni di arte rupestre. Le argomentazioni teoriche più solide sul potenziale ruolo della pareidolia nell’arte delle grotte sono state presentate da Derek Hodgson, che suggerisce che le condizioni di oscurità avrebbero intensificato le risposte visive, innescando pareidolia o risposte più viscerali come le iperimmagini (pensate a quella frazione di secondo in cui percepite una persona in piedi nella vostra stanza di notte, prima di rendervi conto che è solo il vostro cappotto appeso dietro alla porta). Anche se queste interpretazioni sembrano convincenti, il loro problema intrinseco è che non forniscono prove empiriche – al di là delle osservazioni informali della documentazione archeologica – per confermare che la pareidolia ha effettivamente influito sulla creazione dell’arte dell’era glaciale.

Volevo verificare se gli spazi delle caverne innescano determinati fenomeni psicologici e visivi. Come possiamo creare ambienti cavernosi immersivi ma ecologicamente validi? Dal momento che portare torce nei preziosi siti di arte rupestre dell’era glaciale era assolutamente fuori questione, la realtà virtuale sembrava essere una buona risposta. Ricreando le condizioni in cui gli artisti vedevano le pareti delle caverne, potremmo verificare se oggi saremmo visivamente attratti dalle stesse aree usate dagli antichi.

In un recente studio pubblicato su Nature: Scientific Reports abbiamo fatto esattamente questo. Abbiamo costruito ambienti rupestri in realtà virtuale che integrano modelli 3d delle pareti delle grotte del nord della Spagna rimuovendo le tracce dell’arte paleolitica. Abbiamo modificato l’illuminazione per replicare l’oscurità delle grotte e abbiamo dato ai partecipanti una torcia virtuale con le stesse caratteristiche di quelle a disposizione degli artisti dell’era glaciale. Poi abbiamo chiesto di guardare le pareti della caverna e abbiamo fatto domande più mirate per sapere dove avrebbero tracciato i loro disegni se avessero voluto disegnare qualcosa e perché. Usando la tecnologia di tracciamento oculare, siamo stati anche in grado di cogliere dove i partecipanti concentravano inconsciamente l’attenzione durante l’esperimento. Abbiamo ipotizzato che sia le risposte esperienziali dei soggetti sia i loro movimenti oculari inconsci corrispondessero alle aree della parete della grotta sfruttate dagli artisti paleolitici.

“Cosa vedete?”, echeggia una voce lontana. “Una fessura e la forma ondulata del muro. Sembra un bisonte, la forma della parete della grotta ne disegna quasi completamente la testa e la schiena”, risponde un partecipante e allunga la mano nello spazio virtuale per tracciare la forma. Più tardi abbiamo scoperto che indicava la stessa area in cui un artista paleolitico aveva raffigurato un bisonte.

I risultati hanno supportato la nostra tesi: sembra che la pareidolia possa aver avuto un ruolo nella realizzazione di alcune immagini rupestri. I partecipanti allo studio hanno concentrato l’attenzione sulle stesse caratteristiche della grotta che erano state usate migliaia di anni fa per i disegni. Alcuni hanno avuto reazioni interessantissime: hanno letteralmente visto degli animali sulla parete di fronte a loro. Altri hanno perfino notato nelle crepe e ondulazioni della parete lo stesso animale che è stato raffigurato dagli esseri umani antichi. Tuttavia, non tutta l’arte rupestre mostra un rapporto così convincente con la pareidolia. In un altro studio che abbiamo fatto suggeriamo che il modo in cui variava l’arte rupestre innescata dalla pareidolia faceva parte di una “conversazione” tra l’artista e la parete.

Il significato profondo del vedere queste forme animali nelle pareti delle caverne e di “liberarle” sarà senza dubbio variato con i cambiamenti culturali e temporali. In un caso, poteva far parte di potenti riti celebrati nell’oscurità, in cui figure sfuggenti inserivano l’atto di disegnare all’interno di altri rituali culturali o cosmologici, ai quali assistevano gli spiriti ancestrali e la comunità. In un altro, poteva essere un rapporto più intimo e discreto tra un singolo individuo e la parete della grotta, il sussurro morbido delle dita che depositano il pigmento sulla pietra per raffigurare un animale che per lui ha una profonda importanza. La prospettiva temporale c’impedisce di distinguere tra i due casi, ma alla base di queste azioni potrebbe esserci stata la pareidolia.

Questo è importante per capire cosa significa l’arte – la sua nascita e la sua esperienza – non solo nell’era glaciale. La capacità di disegnare qualcosa che esiste in quattro dimensioni (con il tempo, espresso come il movimento di un animale, che rappresenta la quarta dimensione) non è banale. Richiede un’elaborazione complessa e l’astrazione delle informazioni visive. La pareidolia potrebbe essere stata il meccanismo attraverso il quale è emersa la rappresentazione figurativa, favorendo la capacità di disegnare le cose in modo bidimensionale. Osservando le figure sulle pareti delle caverne, abbiamo imparato come possono essere raffigurate le forme. Tutto potrebbe essere cominciato con l’aggiunta di sottili dettagli: qua e là spunta una piccola macchia ocra e all’improvviso emerge l’animale. Con il passare del tempo, ci si è resi conto delle potenzialità dell’uso del pigmento per riprodurre animali e gradualmente sono state create forme più dettagliate su una maggiore varietà di basi. Questo fenomeno si è verificato sempre di più in ogni cultura e società della terra, fino a quando un giorno un artista delle caverne ha disegnato un animale su una liscia superficie rocciosa. ◆ bt

Izzy Wisher sta facendo una ricerca per il progetto The evolution of symbolic behaviour dell’università di Aarhus, in Danimarca. È specializzata nello studio interdisciplinare sulla nascita e l’uso dell’arte nel periodo paleolitico. Questo articolo è uscito sul giornale scientifico online Aeon con il titolo Why make art in the dark?

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Questo articolo è uscito sul numero 1565 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati