Nell’universo dei supereroi l’iperbole è la moneta corrente. La Trilogia di Galactus, saga a fumetti pubblicata dalla Marvel nel 1966 su tre numeri consecutivi della rivista statunitense The Fantastic Four (I Fantastici Quattro), è una tipica storia di superlativi ridondanti e annientamento scampato, con tanto di minaccia di un fantomatico “giorno del destino”. Il divoratore di mondi Galactus sta per consumare le “energie elementari” della Terra. Inizialmente distratto da un essere benigno di nome Uatu l’Osservatore, che ha l’incarico di osservare lo sviluppo della razza umana, Galactus è tradito dal suo araldo, Silver Surfer, una creatura metallica che, come lo stesso Galactus, si nutre di energia cosmica. Ciò dà tempo alla Torcia Umana di raggiungere il pianeta natale di Galactus e tornare con il “nulli­ficatore assoluto”, un aggeggio a forma di granata descritto come “l’arma più devastante dell’universo”; tanto basta a convincere Galactus a lasciare in pace la Terra.

Il demiurgo responsabile della creazione di Galactus, Uatu, Silver Surfer, la Torcia Umana e il nullificatore assoluto era lo sceneggiatore della storia, Stan Lee. Nessun supereroe è stato più ammirato di lui. Nato nel 1922 con il nome di Stanley Lieber, in qualità di direttore editoriale della Marvel Comics ha creato decine di personaggi, tra cui i Fantastici Quattro, Spider-Man e Hulk. Come si legge in True believer: the rise and fall of Stan Lee, biografia firmata da Abraham Riesman (Crown 2021), Lee fu un infaticabile promotore di se stesso, un mitografo costantemente impegnato a creare la propria leggenda, che amava descriversi come il “Walt Disney ebreo”. Diventato celebre a metà degli anni sessanta, Lee ha goduto del massimo della visibilità durante gli ultimi, confusi anni della sua vita (è morto nel 2018 a novantacinque anni), proprio nel momento in cui i suoi personaggi più conosciuti – Spider-Man, gli Avengers, Black Panther – ormai fuori dal suo controllo, imperversavano sugli schermi cinematografici di tutto mondo.

L’industria del fumetto è stata creata in gran parte da statunitensi di prima generazione. Il padre di Lee, un immigrato romeno, faceva il tagliatore di stoffe per un’industria tessile di New York. La famiglia fu duramente colpita dalla grande depressione, e al liceo Lee saltò diverse classi per finire gli studi e trovare lavoro prima possibile. Andava alla DeWitt Clinton, una grande scuola pubblica per soli maschi del Bronx che ha avuto tra i suoi ex allievi diversi personaggi di spicco. Lee ci incrociò il drammaturgo Paddy Chayefsky, il protagonista della serie tv Get smart Don Adams e, per qualche tempo, il campione di boxe Sugar Ray Robinson, oltre a Richard Avedon e James Baldwin. All’epoca Lee lavorava per la rivista letteraria della scuola, non come autore o redattore ma come autonominato direttore della pubblicità.

Altri tre diplomati della Clinton – Will Eisner e i creatori di Batman, Bill Finger e Bob Kane – furono tra i primi fumettisti in America. Lee frequentò brevemente il City college, poi, poco prima dei vent’anni, entrò anche lui nel mondo dei fumetti, assunto come fattorino da un conoscente di famiglia, Martin Good­man, proprietario di una piccola casa editrice, la Timely Comics. “L’industria del fumetto, che lavorava sulle grandi quantità, sorse sul modello dell’altro baluardo dell’imprenditoria ebraica immigrata: l’abbigliamento”, scrive Liel Leibovitz nella sua biografia Stan Lee: a life in comics (Yale University press 202o). Come nell’abbigliamento, gli autori erano pagati al pezzo e spesso si portavano il lavoro a casa. Ma il fumetto era anche una versione a buon mercato della fabbrica dei sogni di Hollywood: Goodman era un magnate del cinema in scala ridotta la cui stella più luminosa era Capitan America, una versione antinazista di Superman creata dallo sceneggiatore Joe Simon e dal disegnatore Jack Kirby, all’epoca poco più che ventenni. Lee sbrigava commissioni per i due e di tanto in tanto li intratteneva o li infastidiva con la sua ocarina. “Un giorno gli cambiai la vita”, racconterà più avanti Simon. “Gli chiesi di scrivere i testi per una pagina di Capitan America”.

Fu così che Lee cominciò a fare lo sceneggiatore alla Timely. La sua posizione diventò ancora più importante dopo che Goodman licenziò Simon e Kirby accusandoli di lavorare segretamente per la concorrenza, cioè la National Comics (poi ribattezzata Dc). Kirby (all’anagrafe Jacob Kurtzberg), un ragazzo di strada del Lower east side che avrebbe sviluppato lo stile grafico più esplosivo nella storia dei fumetti d’azione, è sempre stato convinto che sia stato Lee a fare la spia a Goodman. Vero o no, Lee fu sicuramente avvantaggiato dal loro allontanamento perché, a soli diciannove anni, diventò il nuovo direttore editoriale della Timely. Un anno e mezzo più tardi si arruolò nell’esercito, dove imparò a scrivere i testi per i filmati di addestramento e i manuali d’istruzioni, disegnò manifesti, ideò promozioni per le obbligazioni di guerra e fece un corso in pubblicità e informazione.

Al suo ritorno dalla guerra, Lee non era particolarmente interessato a rimanere nei fumetti. La sua idea era quella di lanciare una linea di testi scolastici, ma intanto continuava a lavorare alla Timely, dove svolgeva con competenza il suo incarico gestendo gli artisti e cavalcando o abbandonando tendenze, in un momento storico in cui i supereroi venivano via via soppiantati da racconti western e rosa, storie del crimine, storie per adolescenti e vicende di animali buffi, oltre che dai fumetti dell’orrore della editrice Ec. Questi ultimi, insieme ad altri fumetti dai contenuti violenti, furono addirittura oggetto di un’inchiesta parlamentare, che portò all’approvazione di una legge e a un revival dei supereroi dalla faccia pulita che erano in voga durante la seconda guerra mondiale. Lee si sposò e si trasferì a Long Island, collaborando alle pagine dei fumetti dei quotidiani, scrivendo testi per la pubblicità e per la radio, e pubblicando in proprio vari libri di foto dai titoli umoristici.

“Insomma, ero il classico scribacchino”, ricorderà più avanti. Alla fine degli anni cinquanta Kirby tornò alla Timely, di lì a poco ribattezzata Marvel, con enormi ripercussioni per sé e per il mondo dei fumetti. Incaricati di sviluppare una serie di supereroi che facessero concorrenza alla popolare Justice League of America della Dc, Lee e Kirby s’inventarono i Fantastici Quattro: Mr. Fantastic, dagli arti allungabili; Sue Storm, la ragazza invisibile; suo fratello, la Torcia Umana; e la Cosa, un’irascibile creatura dalle sembianze di un golem. Insieme, i quattro avrebbero salvato non solo la Terra, ma anche la Marvel.

francesca ghermandi

Il primo numero di Fantastic Four, pubblicato alla fine del 1961, si caratterizzava per il dinamismo delle pagine di Kirby, per la scrittura magniloquente di Lee e per un approccio completamente originale. Superman era insipido. I Fantastici Quattro, invece, erano inconfondibilmente umani: litigiosi, al limite del disfunzionale, questi supereroi ispiravano un nuovo tipo d’iperbole. Leibovitz considera il primo numero di Fantastic Four una pietra miliare della cultura pop, l’equivalente a fumetti di Quarto potere o di Sgt. Pepper’s lonely hearts club band. Nella sua storia dei fumetti americani, From aargh! to zap! (1991), il disegnatore Harvey Kurtz­man – creatore della rivista a fumetti Mad e certamente non amico di Lee, con cui aveva lavorato alla Timely negli anni quaranta – spiega più prosaicamente la chiave del successo della serie. I Fantastici Quattro “abbinavano l’effetto melodrammatico alla stravaganza dei disegni come nessun altro fumetto aveva mai fatto. In un mercato quasi completamento privo di vitalità, diventarono un fenomeno nazionale”. I litigi tra i personaggi del gruppo e l’ambivalenza sui loro superpoteri davano alla serie caratteristiche da soap opera. Tra i lettori, intanto, era scoppiato un dibattito sostanzialmente senza soluzione su chi, tra Lee e Kirby, fosse l’autore principale.

Sul terzo numero della serie, Lee proclamava che The Fantastic Four era “la più sensazionale rivista a fumetti del mondo!!”. Nel 1962 arrivarono l’Incredibile Hulk, uno scienziato nucleare che si trasformava, in stile dottor Jekyll e mister Hyde, in un mostro tormentato simile alla Cosa, e il nerboruto dio norvegese Thor (entrambi disegnati e quasi certamente ideati da Kirby, che s’identificava in Hulk; quanto a Thor, Kirby è stato più importante per la mitologia norvegese di qualsiasi altro artista dai tempi di Fritz Lang, o forse di Richard Wagner). Quindi fu il turno della più famosa creazione della Marvel, Spider-Man, la cui prima storia su Amazing Fantasy diede vita, secondo Leibovitz, all’albo a fumetti più venduto degli anni sessanta. A parte il lacrimevole Superboy della Dc, i supereroi, con l’eccezione dei loro aiutanti, erano stati quasi sempre uomini adulti (o, più raramente, donne adulte). Spider-Man era un nerd adolescente, un ragazzino insicuro della classe media che viveva nel Queens e si era ritrovato il potere di scalare i palazzi e intrappolare i cattivi con la sua tela di ragno.

Spidey, come Lee invitava i lettori a chiamarlo, era disegnato in uno stile espressionista vagamente ascetico dal riservatissimo Steve Ditko, che era anche l’autore di gran parte dei testi. Ditko, che da adolescente era stato a sua volta un appassionato di fumetti, fu anche l’ideatore di un secondo grande personaggio, il maestro dell’occulto Doctor Strange. Altri personaggi arrivarono nel 1963, tra cui due nuovi gruppi di super­eroi, i mutanti X-Men e gli Avengers (di cui facevano parte Hulk, Thor e Iron Man), entrambi disegnati da Kirby e scritti (o forse solo abbozzati) da Lee. Il cosiddetto “metodo Marvel” prevedeva infatti un brainstorming su un’idea di storia tra Lee e il disegnatore, che poi trasformava l’idea in uno storyboard completo di note per i dialoghi. A quel punto Lee sviluppava la voce narrativa elaborando le note del disegnatore.

Oltre che sulla vivacità dei disegni di Kirby e sul dono di Lee per le battute e gli abbellimenti retorici, la Marvel Comics poteva contare sul genio promozionale del suo direttore editoriale. La Marvel non metteva in vetrina solo i suoi personaggi, ma anche gli uomini che li creavano. Con i suoi toni esaltati che rimandavano all’età dell’oro della radio, Lee era il vero e proprio portavoce della casa editrice, colui che dava lustro agli artisti (a partire da se stesso) descrivendoli con aggettivi coloriti all’inizio di ogni storia. Sul primo numero di The Incredible Hulk fu annunciata una nuova pagina della posta dove i lettori erano invitati a partecipare a una specie di culto di massa che Lee aveva battezzato “the merry Marvel marching society” (l’allegra brigata marciante della Marvel). Queste strategie non erano nuove; Walt Disney aveva creato il Mickey Mouse club; Mad e i fumetti dell’orrore della Ec già da tempo si rivolgevano ai lettori, presentando i loro sceneggiatori e disegnatori come parte di uno stravagante collettivo artistico. Essere un fan della Marvel, però, era diverso: era come una missione. I fumetti della Marvel erano parte della cultura di massa statunitense ma, paradossalmente, si presentavano come controcultura.

Come la narrativa pulp di fantascienza degli anni trenta, la pagina della posta della Marvel ispirava discussioni e sollecitava spiegazioni. Proclamando di rivolgersi a una “nuova stirpe di lettori”, la casa editrice trasformava gli eroi in nerd e i nerd in eroi. Come osserva Matt Yockey nell’introduzione all’antologia dal taglio accademico Make ours Marvel (University of Texas press 2017), “il successo della Marvel negli anni sessanta fu dovuto in buona parte al fatto che si presentava come una casa editrice iconoclasta, alla sua scuderia di eroi outsider e al fatto di trattare i suoi lettori come collaboratori”. In più, i fumetti erano auto­referenziali: sia Lee sia Kirby comparivano nel ruolo di se stessi nel numero 10 di Fantastic Four. In un altro numero, quando la Cosa e la Torcia Umana scappano attraverso una diga che crolla inseguiti da una palla di ferro assassina, si osserva che “una cosa così stupida potrebbe succedere solo nei fumetti”.

Fatto ancora più importante, le serie erano collegate tra di loro. All’inizio della sua carriera, Spider-Man tenta di entrare nei Fantastici Quattro e rimane deluso quando scopre che è un gruppo non profit. La Marvel, insomma, non era una semplice collezione di pubblicazioni e supereroi ma un universo virtuale con le sue leggi e la sua storia interna (a questo scopo, per comodità quasi tutti i supereroi vivevano a New York).

Il primo numero di Fantastic Four può essere visto come una pietra miliare della cultura pop, l’equivalente a fumetti di Quarto potere o di Sgt. Pepper’s lonely hearts club band

Lee non aveva ideato solo “una geniale strategia narrativa”, scrive Riesman, “ma una mossa ancora più geniale di marketing”. Fu ulteriormente avvantaggiato da un più ampio cambiamento culturale, basato sulla canonizzazione di tutto ciò che un tempo era considerato roba per ragazzini. L’ascesa della Marvel coincise con l’ammirazione nostalgica (con la conseguente nascita di un mercato) per gli albi del passato. Negli anni sessanta il fumetto cominciò a essere esaltato, non necessariamente con ironia, come l’essenza della mitologia statunitense. Quando nel 1965 un ragazzo del Bronx poco più giovane di Lee, Jules Feiffer, pubblicò il libro illustrato The great comic book heroes, artisti come Andy Warhol, Roy Lichtenstein e Peter Saul avevano già cominciato a trarre ispirazione dai fumetti da diversi anni. Dopo che Lichtenstein si appropriò di una tavola degli X-Men di Kirby per il suo dipinto Image duplicator del 1963, Lee saltò prontamente sul carro, proclamando ogni nuovo albo della Marvel “una produzione pop art della Marvel”. Parallelamente, questo approccio revisionista all’universo dei supereroi fu volgarizzato dalla serie tv di Batman, trasmessa negli Stati Uniti per tre stagioni a partire dal 1966, che portava autoironicamente sullo schermo l’assurdità di creature in costume che interagivano con il “mondo reale”.

Se Batman era un’icona della pop art, Spider-Man e compagnia erano qualcosa di più. Ad aprile del 1965 la scrittrice Sally Kempton analizzò il fenomeno Marvel in un articolo premonitore sul Village Voice: “Gli studenti del college interpretano i fumetti della Marvel. Un professore di fisica della Cornell li ha fatti vedere agli studenti in aula. I beatnik li leggono”. Ai miei occhi di liceale del Queens, l’articolo di Kempton dava credibilità al Village Voice, più che alla Marvel (anche se a Spider-Man, che era un mio vicino del Queens, preferivo Doctor Strange, il “maestro della magia nera”, che viveva nel Greenwich village).

Qualche mese dopo, Esquire pubblicò una lista dei ventotto miti più amati dagli studenti, dove Spider-Man e Hulk comparivano al fianco di Bob Dylan, Malcolm X e Fidel Castro. L’anno seguente, sempre Esquire pubblicò otto ricerche di studenti con il sottotitolo “Che ne sa Dostoevskij? Il vero messaggio è quello della Marvel Comics, a 12 centesimi al numero”. Sullo stesso numero della rivista c’era un articolo su un altro fenomeno letterario che in quei giorni impazzava nei campus degli Stati Uniti: l’entusiasmo per J.R.R. Tolkien, una reazione forse ancora più evidente a quello che Max Weber aveva definito il processo di “disincantamento”, ovvero il ripudio degli dèi e dei demoni (la devozione prossima al fanatismo suscitata alla fine degli anni sessanta dalla serie tv Star trek è un altro caso). Senza dilungarci troppo sull’argomento, è facile capire il fascino esercitato da queste fantastiche battaglie cosmiche su una generazione cresciuta all’ombra della catastrofe nucleare. Il pensiero magico, per quanto caricaturale, era una tregua dalla razionalità del “pensare all’impensabile”. Nello stesso anno in cui un gruppo di poeti e beat­nik provò a far levitare il Pentagono, il gruppo psichedelico Country Joe and the Fish minacciò di rivolgersi ai Fantastici Quattro e a Doctor Strange per liberare il mondo dal presidente degli Stati Uniti Lyndon Johnson (la Marvel ricompensò la band con un cameo su un numero del 1969 di Nick Fury).

La Marvel attirò anche l’attenzione del cinema europeo. Entrambe le biografie di Lee raccontano di quando Federico Fellini si presentò alla Marvel per fare un giro degli uffici (Riesman sostiene addirittura che Lee non avesse idea di chi fosse e che altri dipendenti della Marvel dovettero spiegargli chi era quello straniero dall’aria stravagante). Alain Resnais, che era un vero appassionato non solo della Marvel ma dei fumetti in generale, era particolarmente interessato a collaborare con Lee. I due lavorarono a diversi progetti, tra cui un’apocalittica storia d’amore interplanetaria dai risvolti ecologisti su un cumulo di spazzatura che prende vita. Nessuna di queste idee vide mai la luce, ma Resnais regalò a Lee un cameo nel segmento da lui diretto di L’an 01, un film antologico del 1973 basato sull’opera del fumettista francese Gébé, di Charlie Hebdo. Fu la prima (ma non l’ultima) apparizione di Lee sul grande schermo.

Lee era una persona socievole ed espansiva, ed esibirsi era una parte essenziale della sua personalità. Infatti, quando nel 1966 Ditko lasciò la Marvel e nel 1970 Kirby passò alla Dc, l’unico personaggio che Lee continuò a sviluppare fu “Stan Lee” (che a quel punto era diventato legalmente il suo nome). Fece diverse apparizioni nei campus universitari e a gennaio del 1972 si autoscritturò per uno spettacolo dal vivo alla Carnegie hall. L’evento, pensato come un tributo al suo genio, è descritto da Riesman come un fiasco umiliante in cui i dipendenti della Marvel venivano estratti a sorte per ballare vestiti da Fantastici Quattro mentre gli artisti disegnavano e Lee leggeva a voce alta. Leibovitz si sofferma sulla poesia che Lee scrisse per l’occasione e che recitò sul palco con la moglie e la figlia, un’ambiziosa ode in forma di filastrocca dal titolo God woke (Dio si è svegliato) sul rapporto tra il creatore e le sue creazioni.

Riesman e Leibovitz raccontano più o meno gli stessi fatti, ma leggere i due libri simultaneamente è come andare sull’altalena. Leibovitz, che attinge abbondantemente agli scritti autobiografici di Lee, è un fan adorante. Riesman, al contrario, è implacabile nella sua opera di ridimensionamento, se non di dissacrazione, del personaggio. Mentre Leibovitz attribuisce a Lee il merito di aver risvegliato “l’immaginazione morale dell’America”, Riesman batte continuamente sul tasto della sua appropriazione dei meriti altrui. Parte della collana Jewish lives della Yale university press, il libro di Leibovitz descrive Lee come un equivalente del J di Harold Bloom: Spider-Man è “diretto discendente” di Caino, Mr. Fantastic è “un hasid dell’era nucleare”, Iron Man è “un duro monito, tratto dalla teologia ebraica, volto a ricordarci che la redenzione arriva solo quando gli esseri umani si uniscono e perseguono obiettivi comuni”. Riguardo ai Fantastici Quattro, scrive Leibovitz, “chiunque abbia un minimo di familiarità con la Bibbia riconoscerà il tema del leader imperfetto e indeciso che si scontra con il suo ‘popolo dalla dura cervice’”. Come le canzoni di Bob Dylan, i fumetti di Lee sono “un dialogo continuo con l’artista che rispecchia l’antica logica talmudica della conversazione costante”.

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Riesman non vola così alto, anche se in qualche modo contribuisce al dibattito sottolineando che Lee, pur essendo figlio di ebrei osservanti, “non sentiva alcuna affinità con la comunità ebraica ed era allergico all’idea stessa di religione”. In True believer l’integrità di Lee è continuamente messa in dubbio, in particolare rispetto alla figura di Kirby: “È senz’altro possibile, se non probabile”, scrive Riesman, “che i personaggi per i quali Lee era famoso siano nati tutti dalla mente e dalla penna di Kirby, ed è anche assai probabile che abbia spudoratamente e ripetutamente mentito sul contributo di Kirby alle storie che i due hanno scritto insieme”.

Leibovitz attribuisce qualcosa di ebraico anche a Kirby: il personaggio di Capitan America, creato dal disegnatore negli anni quaranta, “fa pensare a una sensibilità profondamente ebraica, una sensibilità che raramente si era vista prima nei fumetti”, scrive. Riesman, invece, ricorre all’immaginario biblico solo per sottolineare che la presunta corresponsabilità di Lee e Kirby nella creazione dei Fantastici Quattro e di altri personaggi della Marvel era “una salomonica divisione del bambino”. Stan Lee: a life in comics è l’opera di un accolito, mentre True believer ha il fragore tonante di un’epopea scritta da Kirby, che comincia con il pogrom in Romania da cui il padre di Lee rimane segnato e finisce con il patetico crepuscolo degli dèi degli ultimi venticinque anni di vita del protagonista.

L’ultima parte di True believer è dedicata proprio a questa lenta dissoluzione. Nel 1995 il mercato dei fumetti crollò. La Marvel dichiarò fallimento e Lee smise di fare l’editore, restando in carica come direttore emerito con un salario annuo di un milione di dollari. Nel 1998 creò la Stan Lee Media (Slm) in società con un abile truffatore di nome Peter Paul, che la posizionò sul mercato come “l’erede della Disney: un marchio di lifestyle globale specializzato nella creazione, produzione, marketing e distribuzione globale di contenuti”. Paul era un personaggio ambiguo, ma Lee non era da meno. Di fatto vendette la sua proprietà intellettuale due volte: cedette alla Slm la sua opera a tempo indeterminato e contemporaneamente negoziò un accordo con la Marvel per rinunciare agli stessi diritti, titoli e interessi.

In veste di capo della Slm, Lee fondò un nuovo fan club, Scuzzle, e cominciò a sviluppare un nuovo personaggio per i cartoni animati, Stan’s Evil Clone. Ebbe una serie d’incontri cordiali ma sterili con altri luminari pop come Michael Jackson e Francis Ford Coppola, mentre la Slm progettava un’improbabile espansione in India, stringeva partnership con il mondo del wrestling, promuoveva imbarazzanti iniziative di Scuzzle come “La fidanzata più bella della settimana” e girava film sulle top model. “Eravamo sempre sul punto di concludere un affare”, racconta un dipendente della Slm a Riesman, “ma poi l’affare non si concretizzava mai”. Potremmo considerare la Slm come il tentativo patetico di emulare la business art di Warhol o semplicemente come il segno della perdita del tocco magico di Lee. Una volta Kirby paragonò Lee a Sammy Glick, l’arrivista senza scrupoli del romanzo Perché corre Sammy? di Budd Schulberg. In realtà, l’ultimo Lee è più simile alla figura tragica del Willy Loman di Arthur Miller, un commesso viaggiatore che vuole disperatamente essere amato.

Lee rimase comunque la più grande risorsa della Slm, e quando andava alle fiere del fumetto i fan rimanevano ore in fila per comprare i suoi autografi, in vendita a cento dollari l’uno. A un certo punto, però, la questione etica diventò insormontabile: Paul partecipò alla campagna di raccolta fondi per Al Gore e Hillary Clinton e il Washington Post rivelò i suoi precedenti penali. La ricapitalizzazione si rivelò impossibile. La Slm pagò lo scotto dello scoppio della bolla di internet e fu accusata di aggiotaggio. Nel 2001 Paul se ne andò e la Slm uscì di scena per lasciare il posto alla Pow (acronimo di purveyors of wonder, fornitori di meraviglia), che Riesman descrive senza mezzi termini come “un’impresa sostanzialmente criminale” accusata di “truffare regolarmente gli investitori, mentire agli azionisti, essere entrata in borsa grazie a una fusione illegittima e aver fatto bancarotta fraudolenta”. Ma Lee, imperterrito, continuava a sfornare idee.

Viste nell’insieme, le iniziative della Pow fanno pensare al distopico miscuglio di generi culturali di massa del film Southland tales. Così finisce il mondo, una sorta di parodia del mondo dei fumetti di Richard Kelly. Ci sono Stripperella, che è un cartone animato su una spogliarellista-agente segreta doppiata da Pamela Anderson, e un fumetto di supereroi dove c’è anche Ringo Starr. Lee strinse alleanze con Hugh Hefner (da cui il cartone animato Hef’s superbunnies), Arnold Schwarzenegger e la National football league. Diede l’approvazione a un canale YouTube a lui dedicato, a una nuova versione dei Fantastici Quattro intitolata Stan Lee’s Mighty 7 e a un’acqua di colonia Stan Lee. La maggior parte dei progetti non vide mai la luce e gli altri fallirono, a conferma del fatto che il periodo veramente creativo di Lee coincise con i primi anni sessanta quando, lavorando a braccetto con Kirby e Ditko, sviluppò il metodo Marvel.

Il vecchio marchio, dal canto suo, si rivelava inossidabile. Una serie di film basati sui personaggi della Marvel sbancavano al botteghino, in particolare X-Men (2000) e Spider-Man (2002). Lee non ebbe alcun ruolo nella produzione, però grazie a una serie di comparsate nelle successive pellicole della Marvel e a una presenza continua alle prime dei film e alle fiere del fumetto ebbe una popolarità e una visibilità senza precedenti. Allo stesso tempo, però, Lee fece causa prima alla Marvel e poi alla Pow, e il suo crepuscolo fu segnato da una serie di accuse di maltrattamenti da parte di badanti e parassiti, tra cui la figlia.

La vita di Lee volgeva ormai al termine, ma il suo momento in realtà era già passato. In un certo senso, il cosiddetto Marvel cinematic universe (Mcu) è il culmine di uno sviluppo lungo quasi mezzo secolo. Negli anni settanta i generi d’azione tradizionali come il western, il film di guerra e il film poliziesco cominciavano a perdere rilevanza: a partire dalla metà del decennio, con Lo squalo e Guerre stellari Hollywood diventò sempre più dipendente dai film campioni d’incassi e dalle saghe cinematografiche, oltre che dal pubblico internazionale. Il patto sarà suggellato vent’anni dopo con la comparsa delle immagini generate al computer (cgi) in Jurassic park di Steven Spielberg e in Toy story della Pixar. Il cinismo culturale legato al Viet­nam e allo scandalo Watergate si spense. La restaurazione degli dèi e dei demoni del mondo antico diventò la regola: la magia degli effetti speciali era la nuova realtà. Harry Potter, gli adattamenti da Tolkien, le animazioni al computer e i revival di Superman e Batman hanno dominato al botteghino nei primi anni del nuovo millennio.

Nel 2009 la Walt Disney ha rilevato la Marvel per quattro miliardi di dollari (poco più della metà di quanto è costata la Pixar, ma grosso modo la stessa cifra che la Disney ha speso tre anni dopo per acquistare i diritti della saga di Star wars da George Lucas) e ha cominciato a sviluppare il Marvel cinematic universe (Mcu), l’equivalente cinematografico del mondo autosufficiente e ricco di riferimenti incrociati che aveva fatto la fortuna della casa editrice. L’Mcu ha fatto il suo debutto con The Avengers, campione d’incassi nel 2012 e soprat­tutto prima produzione holly­woodiana dopo l’11 settembre 2001 a mostrare lo spettacolo della distruzione di Manhattan. Due successive produzioni dell’Mcu, Avengers: infinity war e Black Panther, sono state i primi due film per incassi del 2018, l’anno in cui è morto Stan Lee.

Forse Lee è stato davvero il Walt Disney ebreo, un marchio conosciuto a livello mondiale i cui personaggi sono riusciti a sopravvivere al loro creatore. Però oggi la Disney rappresenta molto di più che Topolino o Disneyland. Dopo aver di fatto monopolizzato il mercato della cultura popolare americana – un risultato che va al di là di quello che Lee avrebbe anche solo immaginato – la Walt Disney Company è diventata talmente ingorda che, come il divoratore dei mondi Galactus, ha fagocitato anche l’universo Marvel. ◆ fas

J. Hoberman è un critico cinematografico statunitense. Questo articolo è uscito sulla New York Review of Books con il titolo Marvel’s ringmaster.

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Questo articolo è uscito sul numero 1427 di Internazionale, a pagina 100. Compra questo numero | Abbonati