Chi è stato il primo a calcolare il pi greco? Il primo a capire che dividendo la circonferenza di un cerchio per il suo diametro si ottiene sempre lo stesso numero, cioè poco più di tre? Non lo sapremo mai con certezza, ma c’è motivo di credere che sia vissuto circa quattromila anni fa.

Partiamo dagli antichi egizi. Il papiro di Rhind, una specie di manuale di matematica scritto intorno al 1550 avanti Cristo da uno scriba di nome Ahmes, spiega come calcolare l’area di un cerchio all’interno di un quadrato. Se il quadrato ha i lati lunghi nove e il diametro del cerchio è uguale, l’area del cerchio sarà 64/81esimi quella del quadrato. Non è un calcolo diretto del pi greco, ma se lo inseriamo nella formula moderna per ricavare l’area di un cerchio otteniamo 3,16, corretto fino a un decimale. Niente male. Il papiro sembra essere la copia di un altro risalente a secoli prima, e sono stati trovati esempi simili in testi babilonesi e sumeri.

È solo con Archimede, nel terzo secolo aC, che i calcoli diventano più accurati. Archimede usò un metodo più sofisticato. Collocò il cerchio in un esagono e poi un esagono più piccolo nel cerchio. Calcolando il perimetro dei due esagoni fu in grado di mettere un limite superiore e inferiore alla circonferenza del cerchio, individuando un valore minimo e uno massimo per il pi greco. Archimede fece poi la stessa cosa con i dodecagoni, cioè poligoni con 12 lati, per poi passare a 24, 48 e infine 96 lati, arrivando a un valore del pi greco compreso tra 223/71 e 22/7, cioè 3,1408 e 3,1429, corretto fino al secondo decimale.

Per circa 1.500 anni quello di Archimede è stato l’unico metodo disponibile, anche se alcuni sono riusciti a ottenere stime più accurate. Tra loro il matematico cinese Zu Chongzhi, che nel quinto secolo dC usò un poligono con 24.576 lati per arrivare a una stima compresa tra 3,1415926 e 3,1415927, e il persiano Jamshid al Kashi, che nel 1424 arrivò a 16 decimali usando un poligono con più di ottocento milioni di lati. Il suo obiettivo era calcolare la circonferenza della sfera celeste con un margine di errore inferiore allo spessore di un crine di cavallo.

Gli storici della matematica di solito saltano direttamente da Archimede all’invenzione del calcolo infinitesimale a opera di Isaac Newton e Gottfried Leibniz nel seicento. Ma nel quattordicesimo secolo il matematico indiano Mādhava di Sangamagrāma fu il primo a esprimere le funzioni trigonometriche come somme infinite che gli permisero di ricavarne il valore con un’accuratezza sempre maggiore, arrivando a undici decimali, un record finché al Kashi non lo superò.

I calcoli con carta e penna andarono avanti ancora per secoli. Un tentativo che vale la pena ricordare è quello del tedesco Ludolph van Ceulen, che nel 1596 ottenne venti decimali usando il metodo di Archimede con un poligono di oltre 32 miliardi di lati. Nel 1621, dopo la sua morte, la moglie pubblicò i dettagli del suo calcolo a 35 cifre decimali con un poligono di più di quattro quintilioni di lati. Il valore è stato inciso sulla sua lapide.

Tempo da perdere

Presto risultò evidente che il calcolo infinitesimale era la strada da seguire. Nel 1666 Newton arrivò a 15 decimali, e in seguito scrisse: “Mi vergogno a rivelare il numero di cifre che ho calcolato, non avendo altro da fare all’epoca”. Nel 1706 il matematico inglese John Machin fu il primo a superare i cento decimali con una somma di sua invenzione. Ma i calcoli diventavano sempre più soggetti a errori: nel 1719 il francese Thomas Fantet de Lagny arrivò a 127 decimali con un metodo simile a quello di Machin, però solo i primi 112 si rivelarono corretti. Il record salì a 126 nel 1789 e a 152 nel 1841.

William Shanks, un matematico inglese dilettante, fu l’ultimo a ottenere risultati con la formula di Machin, e nel 1853 arrivò a 530 decimali, anche se gli ultimi tre erano sbagliati. Il suo record di 527 decimali fu battuto solo con l’invenzione del computer, o quasi. Nel 1946 un certo D.F. Ferguson scrisse alla rivista Nature per svelare gli errori di Shanks, e insieme a John W. Wrench Jr. usò un calcolatore meccanico per ottenere i valori corretti, arrivando a 808 decimali.

Il primo calcolo del pi greco eseguito con un computer moderno vero e proprio fu fatto con l’Electronic numerical integrator and computer (Eniac), il primissimo calcolatore della storia. Costruito nel 1945 dall’esercito statunitense, l’Eniac era usato per scopi più concreti, come valutare gli effetti delle armi termonucleari. Nel 1949, però, un team guidato da John von Neumann ottenne il permesso di usarlo durante il ponte del 1 maggio: dopo settanta ore arrivarono a 2.037 decimali.

Con il progresso dei computer i record caddero uno dopo l’altro, ma fino agli anni settanta si usarono sempre varianti del metodo di Machin. Alla fine del novecento sono state sviluppate nuove formule, molte delle quali ispirate a una somma infinita ideata nel 1910 dal matematico indiano Srinivasa Ramanujan. La sua formula era stata dimenticata per decenni, ma quando fu riscoperta diede nuovo impulso alla ricerca del pi greco. Degno di nota è soprattutto un metodo creato nel 1988 dai fratelli Grigorij e David Čudnovskij, i primi a ottenere un miliardo di decimali. Questo metodo è usato ancora oggi: il record più recente, 202mila miliardi di decimali è stato raggiunto nel giugno 2024 dalla rivista informatica StorageReview dopo 85 giorni di calcolo.

A questo punto forse vi starete chiedendo di quanto altro pi greco ci sia bisogno. Per un qualunque calcolo pratico, al Kashi non era troppo lontano dal suo obiettivo, perché per calcolare la circonferenza dell’universo osservabile con un’accuratezza pari allo spessore di un atomo d’idrogeno ne bastano poco più del doppio, cioè 37. Oggi però il calcolo del pi greco ha assunto un altro scopo, cioè fare da banco di prova per la potenza dei supercomputer. Sotto questo aspetto non ci sono limiti al numero di cifre decimali che si potrebbero ottenere.

Ma c’è un altro modo di vedere le cose. All’inizio dell’articolo ho chiesto chi ha calcolato per primo il pi greco. In un certo senso la risposta è nessuno. Il pi greco è un numero irrazionale, vale a dire che non può essere espresso come rapporto tra due numeri interi. È anche un numero trascendente, quindi non si può esprimere come un’equazione algebrica finita. Questo significa che è intrinsecamente infinito, che i suoi decimali non finiscono mai, e che noi non potremo mai calcolarne il vero valore. ◆ sdf

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Questo articolo è uscito sul numero 1606 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati