Domenica 15 agosto Kabul è caduta nelle mani dei taliban, quasi vent’anni dopo che gli statunitensi li avevano cacciati via, punendoli per aver dato rifugio ai vertici della rete terroristica Al Qaeda. A fine giornata la bandiera degli islamisti non sventolava ancora sul palazzo presidenziale, di fronte a quella che un tempo era stata la sede della Cia, ma diversi comandanti insorti si stavano già mettendo in posa sulla poltrona del presidente afgano Ashraf Ghani. Quest’ultimo era scappato all’estero la mattina stessa lasciando solo un messaggio su Facebook: “I taliban hanno vinto”. In serata Mohammad Naeem, portavoce dell’ufficio politico dei taliban a Doha, in Qatar, dichiarava che la guerra era finita.

Poche ore prima, mentre sul terreno i taliban prendevano il controllo della capitale, gli elicotteri solcavano il cielo di Kabul per evacuare in tutta fretta le ambasciate occidentali e trasferire i dipendenti verso l’aeroporto. I loro colleghi russi, pachistani e cinesi sembravano avere meno fretta e sono rimasti chiusi nelle loro cancellerie. Le colonne di fumo nero che si vedevano qua e là non erano segnali di combattimenti ma frutto delle tonnellate di documenti e archivi che i ministeri, i servizi di sicurezza e i diplomatici occidentali avevano bruciato per sottrarli ai nuovi padroni dell’Afghanistan.

Le poche raffiche di armi automatiche avvertite in città hanno fatto crescere il panico, aggravando gli ingorghi mostruosi per le strade. In molti hanno ripensato all’immagine di Saigon, in Vietnam, evacuata precipitosamente dagli americani nel 1975. Eppure il 15 agosto il ministro dell’interno afgano Abdul Sattar Mirzakwal aveva parlato di un negoziato in corso a Doha, in Qatar, per un “trasferimento pacifico del potere”. La capitale, con i suoi sei milioni di abitanti, è stata preservata dai violenti combattimenti che hanno interessato altre città. Contro ogni previsione, si è arresa con una facilità che svela la natura di un regime mantenuto per vent’anni da Washington con grande dispendio di risorse. È bastato il ritiro delle forze statunitensi tra maggio e luglio perché cadesse come un frutto maturo. L’estrema debolezza dello stato e delle forze di sicurezza afgane è apparsa palese e lontanissima dai discorsi ufficiali americani, afgani o della Nato.

Ora la popolazione afgana e la comunità internazionale s’interrogano sul futuro di un paese guidato da un movimento che si definisce prima di tutto religioso anche se, dopo la sua disfatta lampo nel 2001, ha acquisito una cultura politica. Gli insorti hanno rilasciato molte dichiarazioni rassicuranti e si sono voluti mostrare realistici. Se è vero che sul campo ci sono state delle violenze, la dirigenza del movimento ha voluto limitarle. Dopo aver conquistato le città, le prime linee si sono ritirate per lasciare spazio a gruppi incaricati di contattare gli impiegati pubblici chiedendogli di tornare al lavoro. Il 12 agosto, all’indomani della presa di Kandahar i taliban hanno disarmato le sentinelle fuori dalla base dell’Onu ma hanno lasciato le armi ai gurka, le guardie private nepalesi incaricate della sicurezza all’interno dei locali: “I taliban ci hanno detto che non ci sarebbe successo niente se fossimo rimasti al nostro posto”, testimonia un agente dell’Onu, “e che sarebbe stato meglio non andare all’aeroporto, dove la situazione era ancora instabile”. Dello stesso tono i discorsi alle ong, soprattutto nel nord. Gli insorti hanno invitato gli uffici di Acted, Medici senza frontiere e Croce rossa a riaprire dopo la conquista delle città in cui queste organizzazioni sono attive.

I taliban del 2021 hanno frequentato le capitali di tutto il mondo

Un’identità diversa

I taliban delle zone rurali che avevano preso il potere nel 1996 non somigliano affatto a quelli di oggi, che hanno ottimi agganci e vengono ricevuti nelle grandi capitali regionali. Alex Strick van Linschoten, autore del libro My life with the taliban, scritto per conto del mullah Abdul Salam Zaeef, ex ambasciatore del regime in Pakistan, spiegava nel 2009 che questi studenti di religione diventati soldati erano già cambiati dopo il 2001: “Hanno perso la loro purezza religiosa”. Al tempo stesso, l’esilio o la morte degli ex leader taliban, l’arrivo di giovani attratti dalla paga, l’esaurimento di alcune fazioni pachistane che passavano dalle madrase (le scuole religiose) avevano modificato l’identità del movimento.

Nel 2010 il gruppo dirigente del movimento, che si era rifugiato in Pakistan, ha perfino dovuto affrontare delle contestazioni interne. Un giovane capo taliban incontrato a Kandahar ammetteva la frustrazione dei capi più giovani, che combattevano in Afghanistan, nei confronti della vecchia guardia che viveva in Pakistan a cui rimproveravano “un’eccessiva dipendenza” dai servizi segreti di Islamabad (Isi). Un risentimento accresciuto tra il 2010 e il 2013 dall’intensa campagna condotta dalla Nato per “sradicare i livelli di comando intermedi degli insorti”.

I leader taliban, di base in Pakistan, hanno ripreso il controllo sui giovani comandanti locali per perseguire una lenta strategia di accerchiamento delle autorità e delle città afgane che ha avuto una prima svolta nel settembre del 2015. Gli insorti s’impadronirono della città di Kunduz nel giro di 15 giorni prima di esserne scacciati. All’epoca Gilles Dorronsoro, docente di scienze politiche all’università Paris-I ed esperto di Afghanistan, sottolineava che “se non ci fossero stati gli statunitensi, Kunduz non sarebbe stata riconquistata dalle forze afgane e avremmo assistito come nel 1994 a un effetto domino, con la caduta di una città dopo l’altra. Ora”, proseguiva, “ci si può ragionevolmente chiedere cosa accadrebbe se dovessero condurre degli attacchi simultanei in tutto il paese. Le forze afgane sarebbero in grado di farvi fronte?”. Secondo Michael Semple, ex diplomatico britannico e docente all’università Queen’s di Belfast, la presa temporanea di Kunduz aveva fatto “risorgere dalle sue ceneri l’emirato” anche se l’obiettivo restava “la conquista del potere a Kabul”.

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L’altro momento chiave per il ritorno dei taliban è stato senza dubbio il negoziato di Doha, che gli ha permesso il 29 febbraio 2020 di firmare un accordo di pace solo con gli statunitensi. I taliban hanno preso il controllo delle trattative e non l’hanno più lasciato. Con l’unico desiderio di mettere fine al più lungo conflitto della loro storia, gli Stati Uniti di Donald Trump hanno infranto un tabù, instaurando un dialogo diretto con i taliban che ha tolto al governo di Kabul ogni credibilità in vista di negoziati futuri.

Riconosciuti come autorità legittime, i taliban hanno ottenuto molto senza dare nulla in cambio. Avevano il tempo dalla loro parte. Il cuore dell’accordo finale includeva un ritiro totale dei soldati statunitensi entro il 1 maggio 2021, l’inizio di un dialogo di pace interafgano e la liberazione dei prigionieri taliban. La partenza degli Stati Uniti, rinviata al 31 agosto ma di fatto già avvenuta il 3 luglio, ha eliminato l’ultimo ostacolo militare per i taliban. Il processo di riconciliazione nazionale si è rivelato una farsa e le migliaia di combattenti liberati hanno ingrossato le file degli insorti in vista dell’offensiva finale.

“I taliban del 2021 hanno frequentato le capitali di tutto il mondo”, sintetizza un diplomatico occidentale legato al processo negoziale di Doha, “sono stati armati da Cina, Russia, Iran e Pakistan con l’obiettivo di indebolire Washington, sono diventati maestri in comunicazione, social network e tattica e non si preoccupano di essere riconosciuti dall’occidente poiché sono riconosciuti dall’Onu”.

Da sapere
Caos e disperazione
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◆ Il 15 agosto 2021 i taliban sono arrivati alle porte di Kabul dopo aver conquistato tutte le principali città dell’Afghanistan in dieci giorni, senza quasi incontrare resistenza. Nel frattempo nella capitale si erano riversati 17.600 sfollati in fuga. Il presidente Ashraf Ghani è scappato all’estero con il suo staff e le ambasciate occidentali hanno cominciato a evacuare il personale con gli elicotteri. I taliban sono entrati nel palazzo presidenziale mentre migliaia di persone disperate invadevano l’aeroporto di Kabul, da dove partivano gli aerei militari con i cittadini stranieri e i loro collaboratori afgani. Almeno dieci persone sono morte cercando di scappare, alcune cadendo dagli aerei appena decollati. Bbc


Il mullah Baradar, fondatore del movimento con il mullah Omar e capo della delegazione taliban a Doha, è stato in passato imprigionato dai pachistani perché aveva voluto parlare direttamente con Kabul. Oggi è la figura più importante, molto più del capo ufficiale dei taliban, Hibatullah Akhundzada. La commissione militare è presieduta dal mullah Yaqub, figlio del mullah Omar, ma i servizi d’intelligence occidentali sono più preoccupati dal suo numero due, Sirajuddin Haqqani. Istruito, anglofono, storicamente legato ai servizi pachistani, avrebbe un programma tutto suo.

Retorica rassicurante

Malgrado una retorica ufficiale rassicurante, i taliban non hanno rinunciato ai loro sistemi. Credendo unicamente nel governo di dio, non intendono abbandonare la pratica rigorista dell’islam. Hanno dichiarato che le donne potranno andare a scuola, ma solo fino ai 12 anni. Le donne devono abbandonare il lavoro, la musica è proibita in molti luoghi e nelle zone conquistate ci sono notizie di rapimenti di adolescenti per matrimoni forzati.

Continuano, infine, a essere vicini ad Al Qaeda, indubbiamente l’aspetto più preoccupante per il futuro. Alla fine di maggio il vicepresidente Amrullah Saleh spiegava che “per Al Qaeda e i taliban questo conflitto non è una semplice insurrezione, ma una lotta che contrappone dei partigiani radicali di un islam politico e la civiltà occidentale. È il crollo del mito della superiorità militare dell’occidente, della sua retorica, dei suoi valori e della sua credibilità”. L’esperto di taliban Ahmed Rashid è convinto che i loro legami con Al Qaeda oggi siano più stretti che nel 2001, anche se quello dei taliban resta un movimento islamista nazionalista senza vocazione di jihad globale. Per il momento, dice, “chiederanno ai fratelli di Al Qaeda di agire con discrezione, ma il ritorno dei taliban avrà un effetto sull’intera regione”. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1423 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati