Parlando in pubblico Saar Koursh, ex amministratore delegato della compagnia di sicurezza israeliana Magal Security Systems – che ha costruito la barriera al confine con la Striscia di Gaza –, spesso si vantava dicendo che il territorio assediato era il suo show room. In un’intervista nel 2016 dichiarò: “Tutti possono mostrarvi una presentazione PowerPoint, ma pochi possono esibire un progetto complesso come quello di Gaza, costantemente messo alla prova in battaglia”.

La barriera intelligente della Magal fa parte di un sistema integrato di muri in cemento, reti di sensori ad alta tecnologia, mitragliatrici automatizzate e torrette di osservazione, chiamato da alcuni israeliani il “muro di ferro”, in omaggio all’espressione coniata dal pioniere sionista radicale Zeev Jabotinsky. Quando fu completata, nel 2021, la barriera di confine a Gaza e il sistema di controlli su cui si basava erano considerati impenetrabili. I più di due milioni di palestinesi intrappolati dietro al muro erano tenuti lontano dagli occhi e dalle menti dell’opinione pubblica israeliana.

Con questo sistema ogni centimetro della Striscia di Gaza è regolarmente sorvegliato da droni, satelliti e palloni aerostatici spia. Tutte le comunicazioni sono intercettate da Israele e monitorate. Nel caso in cui i gruppi armati palestinesi volessero lanciare razzi oltre la barriera, anche il cielo è sorvegliato dal sistema di difesa missilistico Iron dome, finanziato dagli Stati Uniti. Nulla, si pensava, poteva succedere a Gaza senza che Israele lo sapesse.

Eppure, il 7 ottobre 2023 questo sistema di controllo apparentemente invincibile ha fallito in modo catastrofico. I dettagli ormai sono noti: quel giorno, cinquant’anni dopo lo scoppio della guerra arabo-israeliana del 1973, migliaia di miliziani di Hamas si sono infiltrati in territorio israeliano in un attacco coordinato da terra, cielo e mare. Hanno sequestrato più di duecento persone, hanno ucciso circa 376 agenti delle forze di sicurezza e soldati israeliani e 767 civili. Nonostante la sua sorveglianza su Gaza, l’esercito di Tel Aviv non è stato in grado di rilevare l’incursione, in alcuni casi è venuto a saperlo insieme al resto della popolazione attraverso i post sui social media e le telefonate concitate dal fronte.

La catena di comando israeliana messa sotto pressione ha ceduto e non è riuscita a organizzare un contrattacco fino alla fine della giornata. L’esercito si è affannato a muovere le sue forze verso sud, accorgendosi però di non avere mezzi di trasporto per le truppe. I soldati hanno dovuto usare auto condivise, scuolabus requisiti o chiedere passaggi per raggiungere il fronte, per poi restare fermi ore nei luoghi d’incontro stabiliti come distributori di benzina o parcheggi, in attesa che qualcuno desse gli ordini, anche se a volte si trovavano a pochi minuti di distanza dalle zone di combattimento. Con grande sconcerto di molti osservatori nel paese e all’estero, Israele ha impiegato due giorni per respingere un attacco terroristico che i suoi leader ed esperti avevano garantito sarebbe stato assolutamente impossibile.

Catena di eventi

Anch’io mi sono chiesto com’è possibile che un attacco così devastante sia potuto accadere sotto gli occhi dei tanto decantati servizi militari e d’intelligence israeliani. Ma io dispongo di una prospettiva unica per dare un senso a quello che è successo. Il mio campo di studi, la scienza dell’organizzazione, si occupa di come funzionano i sistemi sociali complessi, del perché falliscono e di come si possono migliorare. Nel caso delle cosiddette “catastrofi provocate dagli esseri umani”, come i cedimenti di grandi infrastrutture e gli attacchi terroristici, questo significa osservare la catena degli eventi che hanno condotto al disastro e identificare i punti critici in cui si poteva impedire o contenere.

Il duro sistema di controllo usato dal governo israeliano a Gaza prima del 7 ottobre è collassato a causa di problemi strutturali e operativi che si trascinavano da decenni all’interno delle forze armate e dei servizi d’intelligence, della sistematica disumanizzazione dei palestinesi che ha impedito agli analisti di riconoscerne le capacità, della crescente politicizzazione del processo decisionale militare e di un’ossessione per le “soluzioni” tecnologiche del conflitto a scapito di quelle politiche. I punti deboli creati da questo atteggiamento hanno profondamente indebolito l’apparato di sicurezza israeliano e hanno reso possibile l’assalto di Hamas, mandando in frantumi l’immagine di invulnerabilità di Israele.

Tel Aviv sta conducendo una campagna militare che ha già ucciso più di 41.500 persone a Gaza, ma probabilmente molte di più, oltre a diverse centinaia di soldati israeliani. La strage causata da questa offensiva ha suscitato un’ondata di critiche internazionali, tra cui le accuse di genocidio presentate contro Israele alla Corte internazionale di giustizia. A livello globale Israele è più isolato che mai, ancora una volta dipendente dalla protezione diplomatica e militare degli Stati Uniti, oltre che dalla loro costante fornitura di munizioni per continuare l’offensiva. Anche se Hamas non avesse più il controllo di Gaza alla fine della guerra, il collasso della situazione precedente al 7 ottobre ha danneggiato in modo devastante Israele.

Un’indagine sulla sequenza di errori che ha portato alla catastrofe è stata rinviata a dopo la fine della guerra. Ma con le lenti della scienza dell’organizzazione si può osservare come un accumulo di problemi – soluzionismo tecnologico, incompetenza militare, politicizzazione delle forze armate e disumanizzazione dei palestinesi – ha creato le condizioni per il crollo dello show room di Gaza.

I soldati hanno dovuto usare auto condivise e scuolabus requisiti o chiedere passaggi

La prima barriera lungo la Striscia di Gaza era una semplice recinzione fatta costruire nel 1971 da Ariel Sharon, all’epoca generale, per confinare e punire la popolazione del territorio per le sue aspirazioni nazionali e per le azioni violente della guerriglia palestinese. Rimase al suo posto fino al 1994 quando, sulla spinta degli accordi di Oslo, il primo ministro Yitzhak Rabin la sostituì con una barriera di sicurezza piena di telecamere, sensori e “varchi altamente tecnologici di accesso e di uscita”. La recinzione di Sharon aveva l’obiettivo di confinare gli abitanti non solo dentro la Striscia, ma nei campi profughi al suo interno, spianando la strada agli insediamenti ebraici. La barriera intelligente di Rabin rappresentava invece una nuova politica di separazione o hafrada tra le due popolazioni: Israele agli ebrei, la Palestina ai palestinesi, con la tecnologia come elemento chiave della divisione.

Minimizzare i rischi

Nel 2005 il muro di Rabin era stato ampiamente accettato dagli israeliani, convinti che queste misure riducessero gli attentati suicidi e gli attacchi dei miliziani palestinesi frequenti durante la seconda intifada. All’epoca inoltre c’era il timore di una “crisi demografica”, cioè che la popolazione ebraica israeliana potesse essere superata da quella palestinese in forte espansione. Quando Sharon diventò primo ministro, decise di ritirare unilateralmente le forze israeliane da Gaza e ingrandì il muro di frontiera con una rete di presidi armati, muri rinforzati, infrastrutture di sorveglianza ad alta tecnologia e sistemi automatizzati. Come il muro di Rabin, la nuova barriera di Sharon isolava la Striscia di Gaza, separandola dal mondo e sostituendo all’occupazione militare formale un’“occupazione virtuale”, in cui i diritti dei palestinesi sarebbero stati controllati in modo altrettanto rigido ma con meno interazioni dirette con i soldati israeliani.

Il muro voleva dire che gli abitanti di Gaza erano naturalmente violenti, al punto da doverli rinchiudere in un’enorme gabbia per evitare che manifestassero le loro tendenze aggressive, mitigando contemporaneamente la “minaccia demografica” percepita da Israele. Prometteva una soluzione tecnologico-militare al problema della pace, minimizzando i rischi per i soldati israeliani e consentendo ai leader di evitare un accordo politico che avrebbe imposto dei compromessi o un riconoscimento delle rivendicazioni palestinesi.

La nuova versione del muro era però diversa da quella di Rabin sotto un aspetto fondamentale. Cercava di creare opportunità per lanciare sul mercato mondiale le avanzate tecnologie di difesa e sorveglianza israeliane. Dalle aziende appaltatrici alle startup tecnologiche, le imprese israeliane cominciarono a includere nei loro materiali promozionali il fatto che i prodotti erano “testati in battaglia” sulla popolazione palestinese prigioniera.

Con ogni aspetto della vita quotidiana a Gaza osservato, limitato e controllato dalle postazioni informatiche sul lato israeliano della barriera, gli alti ufficiali dell’esercito cominciarono a vantarsi pubblicamente del fatto che Gaza non fosse più una minaccia. Prendendo per oro colato la visione dei falchi dell’intelligence e dell’apparato militare, i politici hanno ridimensionato e disarmato le forze di sicurezza lungo il confine.

Una nuova identità

Un tempo Gaza era relativamente accessibile agli israeliani. Il nuovo muro di sicurezza cambiava le cose. Per molte persone fuori dalla Striscia, la tecnologia ha reso il conflitto asettico, nascondendolo letteralmente alla vista. Nonostante la vicinanza, l’esistenza degli abitanti di Gaza è diventata gradualmente un’astrazione per molti israeliani, al di là degli incontri occasionali con i lavoratori a giornata che avevano i permessi per entrare in Israele. Si pensava che il muro, presidiato da poche truppe ma con grandi investimenti tecnologici, avesse finalmente arginato il “problema Gaza”. Da quel momento qualsiasi dispiegamento di forze intorno alla Striscia è diventato più un modo per rassicurare la popolazione che la risposta a un’esigenza di deterrenza o sicurezza. Questo cambiamento nell’atteggiamento israeliano verso Gaza e il conflitto palestinese in generale è stato il riflesso di trasformazioni più ampie nella società. Invece di risolvere il conflitto politico con i palestinesi, lo stato ebraico cercava ora semplicemente di trascenderlo, abbracciando una nuova identità di società ricca, sviluppata e tecnologica, non più definita dal conflitto stesso. A incarnare questo cambiamento era il fatto che l’esercito si presentava sempre più spesso non solo come una forza militare, ma come “la più grande startup di Israele”, un incubatore sostenuto dal governo che sviluppava nuove aziende tecnologiche per far crescere l’economia nazionale.

In linea con questi cambiamenti culturali c’è stata un’enorme crescita delle dimensioni dell’unità 8200, responsabile dello spionaggio elettronico, dovuta in parte alla ricerca di redditizi prodotti tecnologici sviluppati dai veterani dell’intelligence. Per ogni problema che lo stato e l’esercito si trovavano di fronte, la tecnologia era proposta come l’unica e la migliore soluzione. Gaza e la Cisgiordania presto sono state considerate laboratori in cui “testare” su una popolazione sottomessa le tecnologie di sicurezza e sorveglianza da promuovere sul mercato.

Questo cambio di prospettiva è andato di pari passo a un’idea di progresso tecnologico associato al profitto privato e ha trasformato l’atteggiamento di Israele verso i palestinesi. Lo spionaggio realizzato di persona attraverso il contatto diretto con i palestinesi ha lasciato gradualmente il posto a informazioni ricavate da intercettazioni, monitoraggio di comunicazioni internet, software di riconoscimento facciale e raccolta di immagini per mezzo di droni, palloni-spia e riprese video.

Beeri, uno dei kibbutz attaccati da Hamas. Israele, 23 ottobre 2023 (William Keo, Magnum/Contrasto)

L’idea di un sistema completamente automatico per controllare e monitorare Gaza è diventata un’ossessione nazionale, un modo per i burocrati della difesa di farsi una reputazione e uno strumento per convogliare denaro dagli apparati militari e d’intelligence verso il settore tecnologico e quello della difesa. Parte di questi soldi è finita a compagnie di sicurezza private israeliane, man mano che le postazioni di frontiera erano privatizzate per far crescere l’economia.

Tuttavia, questo slittamento nelle priorità dalla tradizionale attività d’intelligence a soluzioni tecnologiche da rivendere sul mercato ha avuto un costo, portando a trascurare, come ammettono ora alcuni funzionari militari israeliani, le “sfumature e il tentativo di comprendere il nemico al di là della semplice sorveglianza”. Per il governo e i servizi di difesa ogni aggiunta al sistema di sorveglianza e al muro di separazione è diventata un’opportunità per sbandierare la sua presunta eccellenza tecnologica, sacrificando le esigenze pratiche di sicurezza per farsi pubblicità sui mercati esteri. Molti generali che avevano promosso il progetto del muro una volta scaduto il loro incarico sono entrati nei consigli d’amministrazione dei fabbricanti di armi che l’hanno costruito.

Man mano che gli anni passavano senza un attacco di rilievo di Hamas, il progetto sul confine di Gaza è stato considerato un successo. Il suo sviluppo è continuato senza mai essere messo in dubbio, anche se una rete di corruzione si è estesa dietro le quinte. Anni prima del 7 ottobre 2023 qualcuno in Israele aveva cominciato ad avvertire che l’accoppiata tra soluzionismo tecnologico e ricerca del profitto stava cullando il paese in un falso senso di sicurezza. Nel 2019 il colonnello Yehuda Vach sul giornale interno dell’esercito, Bein-Haktavim, ammoniva che il muro “crea un’illusione, una falsa percezione che spinge le persone a ritenersi erroneamente al sicuro”.

Il 7 ottobre Hamas ha mandato completamente in frantumi quella percezione. Il gruppo ha affidato a duecento uomini delle sue forze speciali il compito di mettere fuori uso le telecamere e le torri di comunicazione radio, accecando il sistema di armi automatiche e sensori da cui la barriera dipendeva. Hamas ha usato proprio le attività di persona che Israele aveva abbandonato, osservando e mappando meticolosamente i punti deboli del sistema creato dall’esercito e travolgendolo in un unico attacco coordinato.

Beeri, uno dei kibbutz attaccati da Hamas. Israele, 23 ottobre 2023 (William Keo, Magnum/Contrasto)

L’attacco ha dimostrato una volta per tutte che il “muro di ferro” era un fragile progetto narcisistico fatto di costosi giocattoli e poco più, soggetto al rischio di un fallimento catastrofico. Ma affidarsi troppo alla tecnologia non è stato l’unico errore strutturale israeliano a rendere possibile il disastro del 7 ottobre.

A bassa intensità

Le prime fasi della costruzione del muro di Sharon a Gaza coincisero con la guerra israeliana in Libano del 2006, che rivelò alcune profonde falle nella struttura operativa dell’esercito israeliano, emerse nel corso della sua trasformazione da esercito di combattimento a esercito d’occupazione. Oltre a mancare alcuni obiettivi militari cruciali, le comunicazioni e i sistemi antimissile dell’esercito furono compromessi sul piano tecnologico da Hezbollah, mentre i soldati soffrirono di gravi carenze nelle forniture di viveri, acqua, munizioni, equipaggiamento e altro. Messi alla prova, molti comandanti militari si dimostrarono incapaci di prendere decisioni elementari sul campo. Questi fallimenti furono prodotti da una mutazione più profonda che aveva a che fare con il ruolo dell’esercito nella società israeliana. Mentre negli anni aveva firmato accordi di pace con Egitto, Libano e Giordania, Israele passava da una guerra convenzionale a un “conflitto a bassa intensità” asimmetrico contro avversari diversi dagli stati. Questo consentì di spostare la grande maggioranza delle risorse militari dalla difesa nazionale al progetto di vigilare sui Territori occupati palestinesi. Quando scoppiò la guerra del 2006 con Hezbollah, l’esercito si era ormai trasformato da una robusta macchina bellica in una forza di polizia militarizzata, poco abituata ai combattimenti convenzionali e più impegnata in operazioni di sorveglianza di massa, di controllo della folla e di protezione delle colonie israeliane in Cisgiordania.

Nel 2008 lo storico militare israeliano Martin van Creveld osservava che “oggi i soldati considerano uomini, donne e bambini palestinesi, per lo più disarmati, come se fossero una grave minaccia militare”. Nel frattempo, “la grande maggioranza dei comandanti a malapena ricorda di aver avuto un addestramento e un’esperienza in situazioni più pericolose di un’operazione di polizia: in tutto l’esercito ormai non è rimasto quasi nessun ufficiale che abbia comandato una semplice brigata in una vera guerra”.

Questo non sarebbe stato un problema particolarmente complicato se l’esercito avesse avuto una forte tradizione “intellettuale” militare, espressione usata dal sociologo militare Morris Janowitz per descrivere un corpo di ufficiali che usa un metodo rigoroso e scientifico per capire e migliorare le prestazioni in guerra. Se l’esercito avesse avuto questa capacità, sarebbe bastato sciogliere l’intreccio strutturale tra ruoli militari e di polizia, rivedere i sistemi efficaci del passato e predisporre percorsi di recupero e addestramento per gli ufficiali.

Negli anni dell’occupazione la catena di comando si è trasformata

Ma a differenza di altri eserciti moderni, che tengono traccia e trasmettono alle nuove generazioni la dottrina militare e le lezioni apprese, l’esercito israeliano ha formato i giovani ufficiali attraverso l’esperienza sul campo. Questo significa che dopo decenni passati a occuparsi quasi esclusivamente di operazioni di polizia in Cisgiordania e a Gaza, l’esercito era diventato capace quasi solo di svolgere compiti di questo genere. Come ha osservato il generale Yoram Yair nella sua indagine sulla prestazione della divisione 91 dopo la guerra del 2006, c’è stata “una mancata comprensione a tutti i livelli che questa era una guerra, non una semplice operazione di sicurezza”.

La guerra del 2006 fu da più parti considerata un fallimento e fu istituita una commissione speciale per indagarne le cause, presieduta dall’ex giudice della corte suprema Eliyahu Winograd. All’epoca la commissione fu criticata per essere troppo vicina al governo e incapace di esprimere una critica forte sulla gestione della guerra. Eppure, le sue raccomandazioni finali furono impietose.

La commissione infatti concluse che già molto prima della guerra alcune criticità si erano radicate nelle strutture politiche e militari israeliane: dal processo decisionale alla preparazione, dalla logistica alla strategia. Il rapporto criticava “la qualità della preparazione, i processi decisionali e le prestazioni degli alti comandi dell’esercito”, raccomandando un radicale programma di riforma interna.

Ma quelle indicazioni sono state per lo più ignorate. Negli anni successivi le forze armate israeliane hanno continuato a seguire un percorso basato sul vantaggio tecnologico per compensare altre debolezze. Questa tendenza è stata osservata dal giornalista israeliano Ari Shavit sul quotidiano Haaretz nel 2014: “È vero, abbiamo tecnologie avanzatissime, formidabili. E risorse per finanziare un esercito immenso, goffo e stanco. Ma non abbiamo la spericolatezza creativa e la disciplina nazionale che ci caratterizzavano in passato”.

Tagli e disciplina

Nel 2011 la guerra civile siriana provocò il collasso quasi totale dell’ultimo esercito convenzionale ostile alle frontiere di Israele. L’apparato politico e militare colse l’opportunità per fare tagli di bilancio e ristrutturare, continuando però a chiedere il sostanzioso aiuto statunitense da 3,8 miliardi di dollari all’anno per la difesa. Negli anni seguenti il bilancio annuale per la difesa è stato tagliato di circa 1 miliardo di dollari, è stato eliminato il 10 per cento dei posti da ufficiale e c’è stata una riduzione nell’organico di cinquemila soldati di carriera, mentre il numero di riservisti è diminuito del 30 per cento. Secondo la stampa israeliana anche l’addestramento per le forze regolari e di riserva ha subìto pesanti tagli, e quasi la metà dei ruoli di logistica e manutenzione è rimasto vacante. Nel 2018 il 52 per cento dei veicoli da combattimento della divisione settentrionale era stato dichiarato non idoneo a causa della scarsa manutenzione. I vari governi che si sono succeduti non sono stati in grado di approvare i bilanci e l’esercito è scivolato in un grave stato di deterioramento.

L’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 ha portato allo scoperto gravi carenze dei veicoli di trasporto, delle attrezzature di comunicazione e delle armi. La struttura di comando non se l’è cavata meglio. Negli anni dell’occupazione si è trasformata da una gerarchia militare tradizionale, in cui l’autonomia dei comandanti era incoraggiata, a una burocrazia avversa ai rischi, in cui le azioni devono essere controllate e verificate da una serie di parti civili, tra cui organizzazioni non governative e gruppi di coloni. Segnale eloquente del deterioramento istituzionale è stata la tendenza a vincolare le decisioni militari a considerazioni politiche, spingendo l’ex capo di stato maggiore dell’esercito Gabi Ashkenazi a protestare: “Non ho nessuno con cui lavorare nell’esercito. Sono tutti politici”.

Man mano che le milizie di coloni erano incorporate nelle forze armate e i coloni diventavano sempre più numerosi tra gli ufficiali, questa politicizzazione si è aggravata. Alcuni alti comandanti si sono trovati ad affrontare umiliazioni, difficoltà a controllare i soldati e perfino ammutinamenti dopo aver dato semplici ordini come imporre il rispetto della legge nelle comunità di coloni. E quando i massimi livelli militari hanno tentato di correggere la mancanza di disciplina, gli ufficiali spesso li hanno snobbati.

Nel frattempo molti all’interno dell’esercito contestavano i tentativi di indagare il problema. La politicizzazione ha permeato tutti i livelli, creando due categorie di comandanti: quelli impulsivi che agiscono in modo caotico sulla spinta dell’ego e dell’ambizione, concentrati sull’avanzamento di carriera, e quelli cauti, spaventati dalle potenziali conseguenze al punto da rifiutarsi di agire se non dopo aver ottenuto tutte le informazioni, le istruzioni e l’approvazione dei superiori.

I conflitti prolungati hanno ripercussioni psicologiche sulle società coinvolte

Soldati e comandanti che hanno trascorso la loro carriera nell’occupazione si sono convinti che tutti i combattimenti avrebbero avuto le stesse caratteristiche delle azioni di polizia condotte per anni nei Territori palestinesi occupati: visibilità a 360 gradi, controllo assoluto della situazione, strutture di comando e controllo chiare e problemi minimi di approvvigionamento. Alti ufficiali e politici hanno cominciato a credere che le guerre future sarebbero state tutte simili agli scontri a bassa intensità a cui erano abituati con i combattenti palestinesi dotati di armi leggere. Alcuni prevedevano che si sarebbero potute combattere e vincere senza perdere un solo soldato israeliano.

Questo deterioramento istituzionale ha contribuito a favorire una situazione in cui, quando l’esercito si è trovato in una vera situazione di guerra con tutta la sua incertezza, una piccola percentuale di comandanti “eroici” si è lanciata impulsivamente all’azione senza pensare, spesso causando perdite civili, mentre gli altri hanno tenuto le truppe ferme per ore, in attesa che qualcun altro prendesse il comando e gli dicesse cosa fare.

Se l’esercito israeliano fosse stato un’organizzazione militare resiliente una disfatta simile non ci sarebbe mai stata: i comandanti avrebbero agito in modo coerente, il sistema di comando militare si sarebbe ricostituito dal basso e il contrattacco sarebbe stato organizzato autonomamente senza attendere ordini da Tel Aviv. Ma in mancanza di un solido addestramento, di una rilevante esperienza di combattimento e di una robusta cultura istituzionale, l’organizzazione militare invece è collassata completamente: ogni comandante è andato per la sua strada finché non è stato richiamato dall’alto, lasciando per ore i miliziani di Hamas liberi di commettere violenze, con risultati disastrosi.

Sotto il naso

Con un “muro di ferro” più efficace e un esercito ragionevolmente competente il 7 ottobre non ci sarebbe stato un massacro così grave. Perfino alcune fonti di Hamas si sono stupite del fallimento delle forze armate israeliane. Ma anche se queste fossero riuscite ad arginare l’attacco, per impedirlo sarebbero stati necessari un significativo preavviso e la capacità di intervenire in anticipo.

In teoria Israele poteva avere entrambe le cose. L’attacco ha richiesto due anni di pianificazione, molti preparativi si sono svolti sotto il naso delle autorità di Tel Aviv, c’erano stati avvertimenti da vari alleati, tra cui Egitto e Stati Uniti, e lo stesso Hamas aveva più volte fatto pubblicamente riferimento a un attacco imminente. Non solo tutti questi segnali sono stati ignorati, ma pochi giorni prima dell’attacco tre battaglioni erano stati trasferiti dal confine con la Striscia di Gaza e assegnati alla protezione dei coloni illegali per i festeggiamenti di Sukkot in Cisgiordania. Sei giorni prima dell’assalto Tzachi Haneg­bi, capo del consiglio di sicurezza nazionale israeliano, aveva escluso la possibilità di un’offensiva dichiarando: “Hamas è molto cauto e comprende le implicazioni di un’ulteriore disobbedienza”.

Una disfatta così spettacolare per un sistema militare e d’intelligence in una posizione di assoluto vantaggio indica qualcosa che va oltre l’arroganza – o la “mancanza d’immaginazione”, come è stato definito il fallimento dei servizi segreti statunitensi che precedette l’attacco dell’11 settembre 2001. Il fallimento che ha portato al 7 ottobre sta nell’aver sistematicamente trascurato a più livelli tutti i segnali di un possibile attacco. In breve, si riteneva talmente inconcepibile che i miliziani di Gaza fossero in grado di organizzare un attacco che sono state ignorate tutte le prove del contrario. Questa cecità nei confronti dei palestinesi riflette un atteggiamento radicato di svilimento e disumanizzazione diffuso sia nella società israeliana sia nel suo apparato di sicurezza.

Conflitti prolungati come quello israelo-palestinese hanno pesanti ripercussioni psicologiche sulle società coinvolte. E producono una serie di meccanismi di adattamento per gestirle che lo psicologo sociale israeliano Daniel Bar-Tal ha definito “l’ethos del conflitto”. In decenni di scontro gli israeliani si sono profondamente convinti di combattere una causa inequivocabilmente razionale, giusta e moralmente buona, mentre i palestinesi sono considerati fanatici con obiettivi maligni e indegni. Questo ethos gli ha consentito di mantenere un’immagine positiva di sé negli anni. Ma il prezzo da pagare è stato promuovere una visione del mondo limitata e dogmatica, che ha portato gli israeliani a vedere i palestinesi in termini semplicistici e negativi, negando allo stesso tempo la legittimità dei loro diritti politici e perfino le loro capacità di avversari.

Come osserva Bar-Tal, “fin dall’inizio gli arabi sono stati considerati primitivi, incivili, selvaggi o arretrati. Inoltre sono ritenuti responsabili della prosecuzione del conflitto, dello scoppio di tutte le guerre e di tutti gli scontri militari, e del rifiuto intransigente di una soluzione pacifica”. Il perpetuarsi di questi stereotipi ha ridotto l’umanità dei palestinesi agli occhi dell’apparato militare e d’intelligence, generando un giudizio miope sulle motivazioni e sulle capacità dei miliziani di Gaza.

L’ingresso del kibbutz Kfar Aza forzato da Hamas. In lontananza la Striscia di Gaza. Israele, 14 ottobre 2023 (William Keo, Magnum/Contrasto)

Sostenuta da un crescente squilibrio di potere – alimentato in misura non trascurabile dalle armi e dai capitali statunitensi – anche la società israeliana nel suo complesso ha cominciato a essere dominata dalla convinzione che i “selvaggi irrazionali” dei Territori palestinesi potevano essere contenuti e sopraffatti grazie all’intelletto superiore, all’ingegno e alla tecnologia degli ebrei israeliani. L’idea dei palestinesi come individui sofisticati capaci di pensieri complessi e di pianificazione è gradualmente sparita. All’indomani del 7 ottobre molti analisti hanno ammesso che non ritenevano i palestinesi in grado di organizzare un’azione militare ampia e coordinata, come ha notato anche l’ex primo ministro Ehud Olmert in un’intervista: “Hamas ha fatto quello che normalmente facciamo noi: effetto sorpresa, astuzia e pensiero fuori dagli schemi”.

Dare per scontato

Non riconoscere i palestinesi come rivali e neanche come esseri umani al proprio livello, una tappa del processo di disumanizzazione, ha reso molto più facile trattarli come un semplice problema tecnico, risolvibile mettendo in campo una tecnologia avanzata. Questo atteggiamento ha avuto implicazioni concrete, perché nel combattere i miliziani palestinesi l’apparato d’intelligence israeliano è passato da sistemi umani di raccolta e analisi dell’informazione a strumenti in gran parte informatici.

Così, man mano che la Striscia di Gaza era assoggettata a un mastodontico apparato di sorveglianza, il pregiudizio umano era inevitabilmente codificato all’interno degli algoritmi usati per vagliare i dati grezzi sui palestinesi. Questi algoritmi sono stati poi usati per fornire informazioni agli analisti umani, dando per scontato che i calcoli fossero oggettivi. Così è diventato molto più facile farsi sfuggire informazioni insolite che avrebbero potuto essere segnalate da un analista umano nel tentativo di comprendere i soggetti sorvegliati e superare i propri pregiudizi.

In una certa misura l’intelligence israeliana era consapevole di questo rischio e ha sviluppato una procedura interna, chiamata “validazione”, per verificare che le valutazioni precedenti fossero corrette. Tuttavia, come ha notato un’inchiesta di Haaretz del 2019, questo passaggio è stato fortemente disincentivato, perché i capi dell’intelligence premiavano gli analisti che producevano grandi volumi di nuovi bersagli con vantaggiosi benefici come gite o giorni di ferie, penalizzando indirettamente chi dedicava tempo alla validazione. Questo ha prodotto un contesto in cui, come ha detto un analista, “tutti sapevamo che chi approfondiva le informazioni non avrebbe avuto licenze per le due settimane successive. In molti casi è diventata una sorta di attività automatica”.

Un informatore dello Shin bet a Gaza è diventato un agente doppiogiochista

Man mano che aumentava la capillarità della sorveglianza, qualcuno nei servizi d’intelligence ha cominciato a preoccuparsi della visione distorta dei palestinesi che si stava formando e delle sue conseguenze. Nel settembre del 2014, 43 agenti ed ex allievi dell’unità 8200 hanno firmato una lettera esprimendo il loro dissenso nei confronti del livello estremo di sorveglianza imposto ai palestinesi.

Altri, citati dal Financial Times un anno dopo, hanno osservato che il loro compito consisteva nel sorvegliare non solo i sospetti miliziani ma l’intera popolazione palestinese alla ricerca di persone che avrebbero potuto essere ricattate per diventare informatori. Come ha detto un ex agente, “in un certo senso questo potere dà alla testa. Entri nella vita delle persone e ridi delle loro abitudini sessuali o dei loro problemi di salute. Questo dimostra quanto in là ci si può spingere. Quanto il potere può corrompere”. Eppure nonostante le periodiche contestazioni interne, l’apparato della sicurezza è andato avanti con lo stesso sistema disumanizzante e tecnologico per controllare i palestinesi.

Prima del 7 ottobre le azioni militari “a bassa intensità” erano diventate la norma a Gaza: attacchi con i droni, arresti o raid erano spesso compiuti senza valutare con attenzione se la persona presa di mira fosse davvero pericolosa per la sicurezza nazionale. E dato che per i politici gli attacchi su Gaza erano un modo per guadagnare consensi, l’esercito ha cominciato a eseguire operazioni più aggressive e a breve termine per ingraziarsi la classe politica, anche a scapito del vantaggio strategico sul lungo periodo. Come ha spiegato un ex agente dell’intelligence militare, “a volte per compiacere un politico, arriva l’ordine di fare un’azione che non ha nessuna giustificazione operativa e che potrebbe compromettere piani su cui stai lavorando da anni”.

Doppio gioco

Questa ossessione per le vittorie a breve termine e le soluzioni automatizzate a scapito di una conoscenza profonda e di lungo periodo della popolazione palestinese, compresi il suo malcontento e le sue aspirazioni, ha contribuito a produrre il 7 ottobre. In un’ironica simmetria, però, proprio mentre gli israeliani rinunciavano a comprendere i palestinesi, i loro rivali avevano cominciato a studiarli più attentamente che mai.

Fin dalla sua fondazione nel 1987, Hamas ha dato un’enorme importanza alla segretezza. I tentativi dell’intelligence israeliana di infiltrare e compromettere i gruppi miliziani palestinesi sono noti da decenni. Per contrastare questa minaccia, Hamas ha creato un suo reparto di controspionaggio. Per anni il suo obiettivo è stato identificare e uccidere i presunti informatori. Ma tutto è cominciato a cambiare nel 1993, quando due informatori, Maher Abu Srur e Abd al Munaim Abu Hamid, si offrirono di fare il doppio gioco, fornendo a Hamas informazioni sui metodi e sulle spie dello Shin bet, i servizi segreti interni d’Israele, prima di uccidere i loro referenti israeliani.

All’inizio degli anni duemila si passò a far circolare informazioni false, sempre con l’obiettivo di tendere trappole e uccidere soldati e agenti dell’intelligence israeliani. Dopo aver preso il controllo di Gaza nel 2007, Hamas cominciò a comportarsi più da governo che da gruppo clandestino, formando due nuovi servizi di controspionaggio: il servizio d’informazione militare e la forza di sicurezza interna. Seguirono sofisticate operazioni d’intelligence. Una di queste, condotta tra il 2016 e il 2018, aveva l’obiettivo di comprendere a fondo i meccanismi con cui Israele sorvegliava e interferiva negli affari di Hamas.

Stare al governo ha cambiato la visione del mondo di Hamas. Se prima cercava solo di reagire ai colpi di Israele, ora voleva capire l’avversario e il modo in cui operava. In una nota operazione, un informatore dello Shin bet a Gaza è stato individuato e convinto a fare il doppio gioco. Fornito di cimici e telecamere nascoste, ha consentito ai suoi referenti nei servizi segreti di Hamas di osservare e studiare le operazioni e il comportamento delle spie israeliane. Con viva curiosità, Hamas ha analizzato tutto, dalle domande che facevano gli agenti alla conoscenza che avevano delle operazioni del gruppo ai metodi con cui chiedevano agli informatori di raccogliere notizie. Ha tracciato, riprodotto e approfondito il modo in cui gli israeliani usavano i droni per seguire i movimenti dell’agente doppiogiochista. E quando l’hanno incaricato di sabotare i sistemi di lancio dei razzi di Hamas, il gruppo ha studiato i nascondigli, i materiali di addestramento e le lacune degli israeliani nella conoscenza delle loro risorse.

L’operazione è stata un tale successo che anche quando l’agente ha attivamente pregiudicato il lavoro dell’intelligence israeliana trasmettendo false informazioni, il suo referente dello Shin bet, il capo del settore Gaza e il governo l’hanno riempito di elogi per il lavoro fatto “per conto di Israele”. Dopo due anni di inganni, gli israeliani hanno cominciato a sospettare qualcosa e allora Hamas ha pubblicato un filmato sull’operazione, fornendo le prove che i razzi lanciati contro Israele erano gli stessi che l’intelligence israeliana credeva di aver messo fuori uso.

Il kibbutz Beeri, Israele, 20 ottobre 2023 (William Keo, Magnum/Contrasto)

Questo smacco ha sconvolto l’apparato dei servizi segreti israeliani. Ma negli anni successivi le attività d’intelligence fatte di persona invece di essere ampliate e rafforzate sono state ulteriormente ridimensionate e inglobate all’interno dell’unità 8200, enormemente potenziata, un altro segnale della convinzione della leadership israeliana di poter risolvere qualsiasi problema con la tecnologia. Mentre Hamas approfondiva la sua conoscenza delle idee, dei metodi e delle pratiche dell’intelligence israeliana, e imparava a sfruttare gli innumerevoli pregiudizi dell’avversario a vantaggio dei suoi obiettivi politici e militari, gli israeliani pensavano che non valesse la pena conoscere i loro nemici. E più le iniziative di intelligence di Hamas producevano risultati, più il livello dei servizi israeliani si deteriorava, determinando così il successo dell’attacco a sorpresa, totalmente imprevisto, del 7 ottobre 2023.

Mentalità da assedio

Alla vigilia della guerra, una società israeliana sempre più conservatrice era ampiamente convinta di avere ormai “vinto” il conflitto israelo-palestinese. Gaza era confinata dietro un muro pesantemente militarizzato, Hamas era considerato assoggettato da decenni di assedio terrestre, aereo e marittimo e dai continui bombardamenti (“falciare il prato”, come diceva l’esercito), e la graduale annessione della Cisgiordania proseguiva a ritmo sostenuto senza vere conseguenze. Dopo trent’anni di governo del Likud il movimento pacifista israeliano era per lo più estinto, e gli Stati Uniti – in passato la più grande fonte di pressioni per una soluzione a due stati – avevano alla fine ceduto all’annosa rivendicazione israeliana di riconoscere Gerusalemme come capitale, spingendo al contempo i vicini arabi verso una completa normalizzazione dei rapporti. Tutto questo succedeva senza alcuna concessione ai palestinesi.

Se alcuni analisti consideravano insostenibile lo status quo su un piano morale, molti non si rendevano conto che la situazione aveva portato la società israeliana a essere vulnerabile. L’anomala combinazione di decenni di pace e miglioramenti nella sicurezza regionale e una mentalità da assedio che vedeva l’esistenza d’Israele continuamente minacciata ha creato una dinamica in cui l’apparato militare e d’intelligence è stato lasciato a degradarsi, mentre le voci critiche erano accusate di “rafforzare i nemici di Israele”, anche se molti tradizionali avversari non rappresentavano più una minaccia.

Le indagini pubbliche sono state accantonate, il dissenso interno ignorato, e chi denunciava era trattato non come un cittadino spinto da buone intenzioni ma come un nemico pubblico. Così gli israeliani hanno continuato a essere saldamente convinti che l’esercito fosse la stessa forza solida e competente che nel 1967 aveva sconfitto da sola cinque eserciti arabi, anche se prove schiaccianti dimostravano il contrario.

Nel frattempo, per la maggior parte degli israeliani la ricerca di una soluzione, più o meno pacifica, della “questione palestinese” non era più un tema di cui parlare. Questa indifferenza è stata consolidata dalla capacità dell’Iron dome di ridurre i lanci di razzi a una trascurabile seccatura. Muri, strade di accesso private e posti di blocco hanno eliminato i palestinesi dalla vista, e gli insediamenti in espansione in Cisgiordania sono diventati un’allettante alternativa ai prezzi immobiliari sempre più alti in Israele. Per molti, anche all’interno dell’apparato della difesa, questo isolamento ha consentito di minimizzare le occasionali proteste o i lanci di razzi dei palestinesi da Gaza riducendoli a un esempio delle loro “tendenze violente” invece di considerarli atti di resistenza contro una potenza occupante, come fanno i palestinesi. La sempre maggiore centralità delle tecnologie avanzate ha assecondato la percezione degli israeliani di essere una nazione moderna e occidentale, in contrapposizione a una popolazione araba “arretrata”.

Questa situazione era inaccettabile per Hamas, che per due anni ha pianificato un’operazione mirata non a distruggere Israele ma a colpirlo con una forza tale da spingerlo di nuovo al tavolo dei negoziati sfruttando la leva degli ostaggi. Come è stato dimostrato, nei tre giorni successivi all’attacco Hamas aveva offerto di restituire tutti gli ostaggi civili in cambio della rinuncia a un’invasione di terra.

Monumento allo sfacelo

Tuttavia, nessuna delle due parti si rendeva conto di quanto fossero compromesse le capacità della sicurezza nazionale israeliana né di come gli israeliani avrebbero reagito alla distruzione della loro percezione di sé causata dall’attacco. Infiltrandosi in territorio israeliano i miliziani di Hamas si aspettavano di andare incontro a un’accanita resistenza e al martirio per mano di un avversario di gran lunga superiore; invece si sono trovati di fronte a una resistenza minima e a un esercito preso così alla sprovvista da sparare in alcuni casi perfino sui civili israeliani.

Gli alti funzionari, anche loro colti di sorpresa e incapaci di spiegare come era possibile che ci fosse stato un attacco simile, hanno reagito parlando di inflazione delle minacce per schivare le loro responsabilità, rinviando un’inchiesta a dopo la fine di una guerra di rappresaglia lanciata frettolosamente. L’assenza di una spiegazione ufficiale su come sia stato possibile un attacco così grande ha ulteriormente terrorizzato la popolazione, creando il pretesto per una ritorsione con un livello di violenza senza precedenti nella storia del conflitto israelo-palestinese.

Eppure, come dimostra questa analisi, nulla di tutto ciò era inevitabile. Parafrasando il generale prussiano Carl von Clausewitz, l’obiettivo dell’azione militare e, per estensione, della tecnologia militare, è creare le condizioni per cui la diplomazia diventa possibile, non eliminare del tutto la necessità di negoziati. L’analisi basata sulla scienza dell’organizzazione dimostra che la sostituzione della tecnologia alla politica, la disumanizzazione dei palestinesi e il declino degli apparati politici e di sicurezza d’Israele avevano da anni preparato il terreno per il disastro del 7 ottobre 2023.

Lo show room di Gaza di cui si vantava Saar Koursh è crollato. Invece di essere una vetrina della maestria tecnologica e della potenza militare di Israele, la Striscia di Gaza è diventata un monumento al suo sfacelo istituzionale, all’indifferenza verso il diritto internazionale e al crescente isolamento globale. Quale nuovo ordine emergerà dalle macerie della guerra non è ancora chiaro. Ma la convinzione che Israele possa essere al sicuro denigrando, ignorando o reprimendo una popolazione palestinese tenuta prigioniera in una gabbia fatta di tecnologie di sorveglianza e brutali politiche di polizia, si è rivelata un’illusione, pagata con le vite israeliane e palestinesi. ◆ fdl

James Rosen-Birch è un saggista esperto di scienze dell’organizzazione e tecnologia. Vive a Toronto, in Canada.

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Questo articolo è uscito sul numero 1583 di Internazionale, a pagina 50. Compra questo numero | Abbonati