Di rado finisce sui titoli dei giornali, anche se ogni giorno porta il pane sulle nostre tavole. Il commercio dei cereali è uno dei settori economici meno appariscenti ma più importanti tra quelli che alimentano l’economia globale. E ha appena subito lo scossone più grosso dell’ultima generazione. La Bunge, un’azienda statunitense specializzata nel commercio e nella lavorazione di generi alimentari, ha annunciato l’acquisizione della rivale Viterra, che commercia cereali ed è controllata dal colosso svizzero delle materie prime Glencore e da due fondi pensionistici canadesi. Il prezzo è di 8,2 miliardi di dollari (parte in azioni e parte in contanti) più il debito. Quando l’accordo sarà concluso, probabilmente nel 2024, gli azionisti della Bunge controlleranno due terzi della nuova società, che diventerà la seconda azienda più grande del mondo per fatturato nel settore del commercio di prodotti agricoli e dominerà i mercati della soia e del grano. Quest’operazione dovrebbe attirare l’attenzione delle autorità antitrust e far preoccupare chiunque coltivi la terra o mangi i suoi prodotti.
Negli ultimi 25 anni il mercato dei prodotti agricoli è stato dominato da quattro aziende: la Archer-Daniels-Midland, la Bunge, la Cargill e la Louis Dreyfus, indicate di solito con l’acronimo ABCD. Ora B sta diventando molto più grande, sta superando A e si sta avvicinando a C. La concentrazione ha fatto aumentare i profitti, soprattutto negli ultimi due anni, quando gli utili record sono diventati la norma. La Cargill acquisì il controllo del settore delle materie prime agricole nel 1998 comprando per 450 milioni di dollari la parte della Continental Grain che si occupava del commercio di cereali. Fu l’ultimo grande scossone nel settore, che fece scattare i controlli delle autorità antitrust. Alla fine il dipartimento di giustizia degli Stati Uniti costrinse la Cargill a vendere alcune attività, sostenendo che in caso contrario “molti agricoltori statunitensi avrebbero rischiato di vedersi imporre prezzi più bassi per i raccolti di cereali e semi oleosi, tra cui mais, soia e grano”. Oggi le autorità antitrust dovrebbero fare lo stesso.
Con la fusione tra la Bunge e la Viterra si uniranno non due, ma quattro aziende. La Viterra è il prodotto di una corsa alle fusioni e acquisizioni cominciata nel 2012, quando la Glencore inglobò l’azienda pagandola sei miliardi di dollari. Nel 2016 la Viterra fu scorporata e nel suo capitale entrarono due fondi pensione canadesi. Poi nel 2022 ha comprato l’operatore statunitense Gavilon per 1,1 miliardi di dollari. Tutte insieme, la Bunge più Glencore-Viterra-Gavilon l’anno scorso hanno registrato un fatturato di 140 miliardi di dollari, più dei 102 miliardi della Archer-Daniels-Midland e poco meno dei 165 miliardi della Cargill.
Mercati complementari
La Bunge e la Viterra sostengono che da un punto di vista geografico i loro mercati sono complementari, hanno poche sovrapposizioni. È vero, ma solo se le autorità di controllo considerano per esempio il mercato statunitense e quello canadese come due mercati separati, o ritengono che l’Argentina e il Brasile abbiano poco in comune. Dubito che la pensino così. La Bunge e la Viterra, inoltre, sono entrambe importanti per la Cina, ed è probabile che anche Pechino osserverà da vicino l’accordo, visto che sta rafforzando la presenza delle sue aziende di stato nel commercio globale dei cereali.
Questo non è solo un consolidamento orizzontale, in senso geografico: è anche verticale, lungo l’intera filiera. La Bunge propende di più verso il settore della lavorazione, mentre la Viterra è più specializzata nel commercio. Insieme controllerebbero un segmento più ampio del percorso dalla fattoria alla tavola. In futuro gli agricoltori e le aziende loro clienti potrebbero avere meno possibilità di scelta. L’accordo ha senso da un punto di vista economico, ma sarà necessaria un’adeguata valutazione da parte delle autorità antitrust. Nel 2022 il Fondo monetario internazionale ha definito il settore del commercio delle materie prime uno di quegli “angoli dei mercati finanziari globali di cui il grande pubblico sa poco”. Non dovrebbe essere così. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1517 di Internazionale, a pagina 108. Compra questo numero | Abbonati