La tempesta infuriava fuori della mia tenda gialla, che non riusciva a proteggermi dalla pioggia gelida. Era la prima notte lungo il cammino e stavo lì disteso, assalito dal rimpianto e dalla paura mentre l’acqua si avvicinava minacciosamente al mio costosissimo sacco a pelo blu.

Forse avrei fatto meglio a tornare indietro tre giorni prima, quando un funzionario dell’immigrazione all’aeroporto di Kunming, in Cina, mi aveva informato che i cittadini di Singapore possono entrare senza un visto, ma solo per un massimo di quindici giorni.

E invece avevo preso un volo interno per Shangri-La, pur sapendo che ottenere un visto non sarebbe stato possibile perché era un periodo festivo e perché ero diretto in un’area remota nei pressi del confine tra la provincia dello Yunnan e la regione autonoma del Tibet.

Il capo della spedizione, un britannico piuttosto alto che parlava mandarino, aveva provato a rassicurarmi. Dato che avrei superato di “appena due giorni” il periodo consentito, aveva detto che “con ogni probabilità” i funzionari dell’agenzia per l’immigrazione della Repubblica popolare cinese mi avrebbero lasciato in pace, limitandosi a un rimprovero verbale. Ma quella notte, nella mia solitudine insonne, non riuscivo a scacciare un dubbio: e se mi avessero inserito in una lista nera, arrestato o deportato?

Eravamo un gruppo di quattro escursionisti, due uomini e due donne. Non ci conoscevamo e nessuno di noi era esperto di passi montani e vallate della terra mistica che stavamo attraversando, dove le rocce sembravano cantare Om mani padme hum, accompagnate dalle bandiere di preghiera. Quel mantra di sei sillabe è un’invocazione a Budda presente in tutti i cuori.

Sabbia colorata

Il giorno prima, nel monastero Dong Zhu Lin, a Benzlian (una delle poche località tibetane che non sono state devastate dall’esercito cinese), avevamo incontrato alcuni monaci avvolti in tuniche marroni occupati a preparare marmo sbriciolato – colorato di rosso, blu, verde, giallo e nero – nell’accecante sole di metà mattina. Altri monaci, più anziani, disegnavano motivi geometrici su una tavola di legno, creando incavi che, per giorni, sarebbero stati meticolosamente riempiti di sabbia colorata con piccoli imbuti di metallo chiamati chakpur, fino a quando il mandala di Kalachakra (la ruota del tempo) sarebbe stato distrutto e disperso nell’acqua per celebrare l’ineluttabile provvisorietà dell’esistenza.

Dopo aver lasciato il monastero ci siamo diretti a casa del nostro capomulattiere, a Chalitong, nella contea di Deqin, vicina all’impetuoso fiume Mekong, per una deliziosa cena con riso, verdure e uova fritte. La nonna del mulattiere ci ha osservato per tutta la sera, benedicendoci con un sorriso misurato mentre faceva girare una ruota della preghiera. La mattina dopo abbiamo cominciato l’escursione partendo dal villaggio di Yongzhi, a dieci chilometri di distanza. La nostra carovana comprendeva il loquace capospedizione, il suo imperturbabile aiutante, tre flemmatici mulattieri e sette muli carichi di equipaggiamenti e provviste, sufficienti per dodici giorni.

In quella giornata d’inizio autunno abbiamo percorso la valle del fiume Qitong, ricca di vegetazione e con un fogliame che sembrava sul punto di perdere colore. Abbiamo allestito l’accampamento nel pomeriggio, accanto a un torrente che scendeva verso un pascolo verde circondato da dolci colline. Stavamo facendo un kora, un pellegrinaggio, che in questo caso prevedeva un giro intorno al Khawa Karpo, una delle montagne più sacre del buddismo tibetano. Ogni anno migliaia di pellegrini percorrono il sentiero.

Incontro speciale

Nel secondo giorno di cammino abbiamo arrancato per un paio d’ore, indifferenti al meraviglioso paesaggio che si nascondeva dietro la pioggia e le nuvole nere, inciampando in una fanghiglia scivolosa e preoccupati per la salute del più giovane di noi, che aveva cominciamo a mostrare i segni del mal di montagna. Alla fine abbiamo piantato le tende al campo base di Duokela. Intorno a mezzogiorno ho camminato fino a un “negozio” del campo base, fatto di pesanti teli di plastica appoggiati a pali di legno.

Alla cassa non c’era nessuno: chiunque fosse il proprietario del negozio si affidava all’onestà dei clienti, presumendo che avrebbero pagato per la merce. In questo caso avevo preso noo­dles istantanei e bibite in lattina. Dentro il negozio c’erano due uomini di mezza età che avevano messo a bollire l’acqua in una pentola su un piccolo falò. Le loro facce, stravolte dall’inclemenza degli elementi, si sono illuminate quando mi sono unito a loro. Come la maggior parte dei pellegrini, avevano un lungo rosario con 108 perle di preghiera, oltre a una piccola collana con ciondoli che raffiguravano le divinità buddiste locali. Erano partiti da Lhasa e avevano camminato per quasi mille chilometri usando scarpe scadenti.

In tasca avevano poco denaro e sulla schiena portavano cesti di paglia foderati di plastica per proteggere il contenuto dalla pioggia: un cambio di vestiti, piccoli sacchi di tsampa (farina d’orzo tostata), panetti di burro di yak, una ciotola, una torcia, batterie di ricambio e poco altro. Lì una mazzetta di banconote non sarebbe servita a nulla, forse solo ad accendere un falò. Lungo quel percorso tutti si affidano alla generosità degli altri viaggiatori, promettendo di ricambiare in futuro. I due pellegrini hanno riso quando ho cercato di mandare giù un cucchiaio di tsampa con del tè al burro. Era molto salato. Entrambi volevano proseguire e speravano di trovare un rifugio nelle ore successive. Ma d’altronde in quel luogo il tempo non rispetta la precisione dell’orologio: è elastico e scorre con un ritmo languido.

Un calore umano che una coperta non avrebbe mai potuto regalare

Per allontanare la preoccupazione, ho trascorso il resto del pomeriggio a leggere La via delle nuvole bianche (Ubaldini 1981), il racconto spirituale del viaggio di Anagarika Govinda in Tibet, prima dell’invasione cinese del 1950. Sono pagato per preoccuparmi, un istinto che ho affinato in vent’anni di lavoro negli investimenti bancari. Accetto rischi calcolati e penso ossessivamente agli scenari possibili. Nella finanza mi è capitato raramente di imbattermi in un futuro che non avevo preventivato. Nella vita fuori del lavoro, però, è tutta un’altra storia.

Pianura di pietre

Due anni fa mi sono ritirato dalla corsa a bonus sempre maggiori e sono passato dal trading alla gestione del rischio, un ruolo in cui ho continuato a combattere con il futuro anche se in modo meno implacabile e spietato. La mia mente, avvinghiata da sempre a preoccupanti pensieri ricorrenti, non era pronta ai silenzi del nuovo lavoro. Così il frastuono della pianificazione della vita ha sostituito quello del lavoro. Il famoso monaco buddista Thích Nhat Hanh disse: “Niente fango, niente loto”.

Quella notte, mentre ascoltavo il ticchettio della pioggia sulla tenda, mi è venuto in mente che durante l’università avevo trascorso alcuni mesi immerso nelle parole di giganti letterari come Albert Camus, Fëdor Dostoevskij e Thomas Eliot, incurante dell’afa, dell’elettricità razionata nell’estate indiana, dei dolori del passato, dei piani per il futuro e della mia giovane esistenza. Mi sono chiesto se il mio amore perduto per la lettura potesse essere ravvivato, se la mia mente potesse trovare pace nei libri esattamente come la trovava nelle lunghe escursioni e nella corsa, nella bellezza della natura e nell’innocenza di un pellegrino e di un bambino. Così è nata una speranza: un loto poteva fiorire perfino nella mia mente.

Il terzo giorno abbiamo continuato a seguire le orme dei pellegrini, sotto un cielo nuvoloso, superando alberi e rocce consacrate da offerte di abiti, collane e banconote. Superata la linea degli alberi siamo arrivati davanti a un ampio bacino d’acqua, prima di inerpicarci, con i polmoni doloranti, lungo uno stretto sentiero di pietre su cui può transitare a malapena un mulo e che porta a Dokar La, a 4.500 metri d’altitudine.

È il confine politico tra il Tibet e la Cina, lungo l’antica via del tè. Il sentiero, sacro per i pellegrini, è costellato di bandiere di preghiera colorate e sbiadite che raccontano di invocazioni portate via dal vento. Un’anziana, il figlio e la nuora, con un bambino di un anno sulle spalle, stavano fermi in equilibrio precario a un paio di metri dal sentiero, guardando avanti con stupore. L’aria sottile era appesantita dal loro canto gutturale, carico di una fede semplice che ho sempre ammirato e non ho mai avuto.

Quell’incantesimo è stato spezzato dal suono del mio telefono, un tenue segnale di distrazione che si era insinuato in quel paradiso. Avevo usato il cellulare come macchina fotografica dimenticando di attivare la modalità aereo. Non mi aspettavo di trovare campo durante il percorso. Mia moglie mi aveva scritto, un paio di giorni prima, per comunicarmi che mia figlia di dieci anni era tornata sana e salva da un viaggio a Bali con la scuola e che entrambe le mie figlie (l’altra ha otto anni) stavano bene e avevano nostalgia di me. Ho sorriso ricordando il periodo in cui le bambine correvano verso le mia braccia e mi guardavano con amore spensierato.

Affrontare la ripida discesa sull’altro versante del Dokar La, fino a una pianura di pietre, è stata una delle sfide più difficili del mio viaggio. A volte la fede può uccidere, non a caso una corda spessa seguiva un pendio ancora più ripido. Era lì per aiutare i pellegrini che, d’inverno, rischiano di scivolare sul ghiaccio. Abbiamo oltrepassato un valico, segnato dalle bandiere di preghiera, dove i pellegrini avevano lasciato in offerta ciotole di tsampa.

Poi il quarto giorno abbiamo raggiunto un rifugio a Qunatong, e lì abbiamo piantato le tende vicino a un canale. Io, però, ero colpevolmente attirato dal rifugio e ho chiesto al capo spedizione di poterci passare la notte. Era una struttura semplice: teli strappati, tenuti assieme da grossi pali di legno, servivano da tetto e mura, mentre i letti erano vecchi cartoni adagiati al suolo.

Ho pagato un dollaro statunitense per un materasso rialzato e per una coperta rovinata, che però non mi è servita. I pellegrini hanno fumato, chiacchierato e riso per tutta la notte, riempiendo l’aria di un calore umano che una coperta non avrebbe mai potuto regalare. Avevano quello che Peter Matthiessen, in Il leopardo delle nevi (Feltrinelli 2015), definisce “uno spirito allegro e spensierato, un’accettazione che non è fatalismo ma profonda fiducia nella vita, che mi ha fatto vergognare”.

Il quinto giorno abbiamo faticosamente raggiunto Natong La, a 3.650 metri. La pioggia e la foschia, compagne fedeli fin dalla prima notte, ci hanno finalmente abbandonato. Ci siamo avventurati in una vertiginosa discesa fino ad Abing, un caratteristico insediamento di una ventina di case, decorate con splendidi murales tibetani.

A cena, visto il tempo e la presenza di una grande quantità di spazzatura, lasciata dall’anno precedente, il capo spedizione ha proposto un percorso alternativo. Il giorno successivo abbiamo raggiunto il villaggio di Bingzhongluo, dove, dopo quasi una settimana, abbiamo finalmente fatto una doccia calda. Lì ho scoperto che avrei potuto procurarmi un fuoristrada e guidare fino a Dali, per poi volare a Singapore da Kunming senza superare il limite dei quindici giorni di permanenza in Cina.

Poco dopo aver lasciato Bingzhongluo, mi sono fermato davanti a una vallata, quasi ipnotizzato dalla prima ansa del fiume Nù Jiāng: nuvole bianche attraversavano verdi pendii su campi rosa di fiori di grano. Il fiume, torbido per i detriti, curvava inesorabile verso il suo lontano appuntamento con il mare. Come i pellegrini, anche il fiume sa che non è possibile seguirlo mentre scorre e aspettare che la vita faccia il suo corso. Il fiume sa che l’innocenza può essere reclamata e che la contentezza è la meraviglia negli occhi spalancati di un bambino. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1579 di Internazionale, a pagina 72. Compra questo numero | Abbonati