L’attentato contro l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump è stato condannato in modo unanime da politici e commentatori, che hanno predicato la calma e hanno chiesto di mettere da parte la polarizzazione tossica che ha spaccato il paese. Il New York Times ha scritto che “la violenza sta infettando la vita politica statunitense”, mentre il presidente Joe Biden ha detto: “Questo non è ciò che siamo come nazione”. Ma è davvero così? In realtà molte reazioni sembrano ignorare la presenza costante della violenza nella storia degli Stati Uniti. Anche se l’ideologia dell’eccezionalismo spinge gli americani a credere che il loro paese sia fondamentalmente diverso da altri colpiti da eventi simili, la verità è che ha alle spalle una lunga storia di persone che hanno cercato di risolvere le questioni politiche con le armi da fuoco invece che attraverso il voto.
La violenza è uno dei motivi per cui il sistema elettorale statunitense è sempre stato estremamente fragile. Nel corso dei secoli sono serviti sforzi eroici per proteggere una repubblica che secondo Benjamin Franklin, uno dei padri fondatori, avrebbe avuto sempre bisogno di essere curata e difesa. La convinzione diffusa secondo cui la violenza è antiamericana trascura un punto cruciale: la normalizzazione della retorica violenta a cui abbiamo assistito negli ultimi anni è pericolosa non perché costituisce una novità ma proprio perché affonda le sue radici in una storia che gli statunitensi scelgono di ignorare a loro rischio e pericolo.
Sono stati uccisi leader politici, presidenti e candidati. Abraham Lincoln pagò un prezzo molto alto per aver protetto l’unione e messo fine alla schiavitù: fu ucciso da John Wilkes Booth il 14 aprile del 1865 a Washington. Nel luglio 1881 Charles Guiteau sparò al presidente James Garfield, che sarebbe morto due mesi dopo. Il paese si era appena ripreso dal trauma quando, nel 1901, l’anarchico Leon Czolgosz uccise il presidente William McKinley. Poi nel 1963 tutti furono sconvolti dalla morte di John F. Kennedy, assassinato da Lee Harvey Oswald.
A questo bilancio di quattro presidenti assassinati bisogna aggiungere una lunga serie di tentativi falliti. Come quello del febbraio 1933, quando il presidente Franklin Roosevelt fu quasi ucciso da Giuseppe Zangara, un anarchico. Nel 1973 il presidente Gerald Ford sopravvisse a due attentati nel giro di poche settimane. La vita di Ronald Reagan fu quasi stroncata da John Hinckley Jr. nel marzo 1981. Reagan volse l’incidente a suo favore: lui e i suoi collaboratori si misero a raccontare storie divertenti sulla vicenda, per esempio che il presidente avrebbe detto ai chirurghi che si apprestavano a operarlo: “Spero che siate tutti repubblicani”.
Anche i candidati alla presidenza sono finiti spesso nel mirino degli attentatori. Il 14 ottobre 1912 John Schrank sparò all’ex presidente repubblicano Theodore Roosevelt, che chiedeva un terzo mandato, durante un comizio. Una custodia per occhiali in metallo e le cinquanta pagine del discorso che conservava in tasca gli salvarono la vita, anche se un proiettile gli penetrò comunque nell’addome. L’ex presidente si rifiutò di andare in ospedale e continuò con il suo discorso. “Non so se avete capito che mi hanno appena sparato”, disse. “Ma serve più di un semplice proiettile per uccidere uno come me!”.
Voto negato
Molti statunitensi nati dopo la seconda guerra mondiale ricordano il giorno in cui il senatore Robert Kennedy, dopo aver vinto le primarie del Partito democratico in California, fu ucciso da Sirhan Sirhan all’Ambassador Hotel di Los Angeles, nel giugno 1968. Quattro anni dopo George Wallace, il governatore dell’Alabama passato alla storia per la lotta contro l’integrazione razziale, rimase parzialmente paralizzato da un proiettile durante la campagna elettorale.
La violenza ha trovato spesso posto anche al congresso. La storica di Yale Joanne Freeman scrive che prima della guerra civile (1861-1864) i fatti di sangue in campidoglio erano comuni come la torta di mele nelle cucine degli americani. Negli anni cinquanta dell’ottocento i parlamentari andavano a lavorare con la pistola carica e spesso si aggredivano in aula a causa della schiavitù. Freeman ha documentato più di settanta casi di violenza al congresso, nel turbolento periodo compreso tra il 1830 e il 1860.
Altre volte i parlamentari sono stati vittime della violenza dei civili. Nel 1935 Carl Weiss, un medico, uccise il senatore della Louisiana Huey Long, potenziale candidato alla presidenza. L’8 gennaio 2011 Gabrielle Giffords, deputata democratica dell’Arizona, è stata gravemente ferita a Tucson in un attentato che è costato la vita a un suo collaboratore e ad altre cinque persone. Nel 2017 un uomo di 66 anni di nome James Hodgkinson ha ferito il capogruppo della maggioranza alla camera, il repubblicano Steve Scalise, durante un allenamento in vista dell’annuale partita di baseball tra i parlamentari.
Nemmeno i familiari dei politici sono sfuggiti agli attentati. Nell’ottobre 2022 Paul Pelosi, marito dell’ex presidente della camera Nancy, è stato aggredito nella sua abitazione da David DePape, seguace di varie teorie complottiste.
La violenza non ha colpito solo i politici. Nel 1968 ci furono rivolte di piazza dopo l’omicidio di Martin Luther King Jr, leader del movimento per i diritti civili, ucciso a Memphis ad aprile. Tre anni prima la stessa sorte era toccata a Malcolm X.
Ci sono poi i tantissimi episodi legati alle elezioni locali. Nel sud durante la segregazione razziale vigeva un sistema politico in cui la violenza istituzionalizzata era essenziale per emarginare gli afroamericani. In stati come il Mississippi gli abitanti neri erano consapevoli degli enormi rischi che correvano ogni volta che andavano in tribunale per registrarsi a un partito in vista del voto. Medgar Evers, il carismatico segretario dell’Associazione nazionale per la promozione delle persone di colore (Naacp), fu ucciso davanti alla sua abitazione il 12 giugno 1963. T.R. Howard, chirurgo e attivista per i diritti civili, dichiarò nel suo elogio funebre per Evers: “Per un secolo abbiamo porto l’altra guancia, ancora e ancora. E loro hanno continuato a colpirci su entrambe le guance. Sono stanco di soffrire in silenzio”.
Quest’anno ricorre il 60° anniversario della Freedom summer del Mississippi, quando tre attivisti per i diritti civili – James Chaney, Mickey Schwerner e Andrew Goodman – furono uccisi dal Ku klux klan e da alcuni agenti di polizia perché avevano partecipato alla mobilitazione per il diritto di voto che aveva ispirato i giovani di tutto il mondo. Un anno dopo, nella “domenica di sangue” del 7 marzo 1965, gran parte della popolazione (compreso il presidente Lyndon B. Johnson) reagì con orrore quando la polizia e una folla di bianchi attaccarono brutalmente gli attivisti nonviolenti che stavano marciando da Selma a Montgomery per chiedere leggi a garanzia del diritto di voto.
Il 27 novembre del 1978 Dan White, ex componente del consiglio delle autorità di vigilanza di San Francisco, uccise il sindaco George Moscone e il consigliere comunale Harvey Milk, militante del movimento di liberazione omosessuale. Dopo le elezioni del 2020, culminate nel tentativo di insurrezione al campidoglio del 6 gennaio 2021, il 40 per cento dei parlamentari statali intervistati dal Brennan center for justice ha riferito di aver subìto minacce.
Gli Stati Uniti hanno tante caratteristiche eccezionali, e la violenza è una di queste: come ha scritto lo storico Richard Slotkin, la mitologia violenta è sempre stata profondamente radicata nella cultura americana. Di recente lo storico Steven Hahn ha analizzato l’impatto profondo dell’illiberalismo e della violenza elettorale fin dalla fondazione del paese.
Questo lungo e triste elenco non può certo sminuire l’innegabile incremento della violenza e delle minacce a cui abbiamo assistito negli ultimi anni, di cui sono stati vittime rappresentanti eletti, giudici e perfino scrutatori. La storia dovrebbe essere un promemoria dei pericoli che comporta l’uso della retorica violenta. Questo avvertimento è stato rivolto spesso proprio a Trump, che da presidente e da candidato ha mostrato una preoccupante tendenza a incitare le folle contro i rivali. Questi appelli all’azione attingono a un tratto insidioso della cultura americana che è sempre pronto a emergere. ◆ as
Julian E. Zelizer è uno storico statunitense. Insegna all’università di Princeton.
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Questo articolo è uscito sul numero 1572 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati