Nataliy è stata la prima a cui la guerra ha distrutto la vita. Il 23 febbraio suo figlio è morto in combattimento nella regione di Donetsk, nell’est dell’Ucraina. Da allora altre cinque delle 130 donne impiegate nella fabbrica di cappotti Lener Cordier di Berezne, nell’ovest del paese, hanno perso un marito o un figlio. Nataliy, però, non si è assentata un giorno, perché il lavoro le serve ed è pagata a cottimo. Guadagna circa novemila grivne al mese, l’equivalente di 230 euro.
“Nonostante la guerra le fabbriche di abbigliamento in Ucraina continuano a produrre”, fa notare Frédéric Lener, capo dell’azienda francese che produce cappotti e li vende con il marchio Trench & Coat, o li realizza per clienti come la Lacoste e il gruppo Monoprix. Lo stabilimento inaugurato nel 2008 a Berezne e quelli di una decina di subappaltatori locali tirano avanti, come succede in tutto il mondo, grazie alle donne, che fanno le sarte, le modelliste o le stiratrici. Per questo l’industria tessile ucraina, che dà lavoro a 133.500 persone, non ha problemi di manodopera. Le sue attività “resistono meglio di altre”, assicura Tetjana Izovit, presidente di Ukrlegprom, la federazione del settore tessile. Anche se “nel 2022 le vendite sono diminuite del 26 per cento, il calo è stato inferiore a quello del pil, sceso del 30 per cento”. Nonostante “il 20 per cento del parco industriale sia stato distrutto o danneggiato” dagli attacchi russi nel nord e nell’est, e “il 25 per cento del personale sia emigrato o abbia dovuto scappare dalle zone di guerra”, la produzione di giubbotti e cappotti continua. E raggiunge l’estero: il 66 per cento delle esportazioni ucraine consiste in capi di abbigliamento. L’industria tessile ucraina è molto attraente per le grandi marche di moda. Le operaie sono in grado di affrontare lavorazioni complesse come quelle di abiti di lana pesante o di impermeabili. Allo stesso tempo, percepiscono uno stipendio basso, tra i 200 e i 750 euro. Il costo della manodopera può essere anche di 20 centesimi al minuto (12 euro all’ora), un terzo di quello francese.
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Da quando è cominciata la guerra, “il 50 per cento dei committenti europei è scomparso”, lamenta Tetjana Izovit. L’azienda tedesca Hugo Boss ha lasciato due dei quattro fornitori ucraini “per ragioni economiche”. Invece i marchi francesi Bensimon, Zadig & Voltaire, Mugler e Vanessa Bruno hanno confermato gli ordini in segno di solidarietà o, più semplicemente, per la competitività dell’offerta locale. In Ucraina, nonostante l’inflazione che si aggirava intorno al 20 per cento nel 2022, gli stipendi sono rimasti bassi.
Alcuni stabilimenti lavorano a pieno ritmo, soprattutto nell’ovest. A Kovel, a 60 chilometri dalla frontiera polacca, una fabbrica di abbigliamento nel 2022 ha realizzato 130mila capi, 40mila in più rispetto al 2021. Nel 2023 la Zadig & Voltaire ha ordinato lì 76mila giacche, che in negozio si vendono a prezzi che vanno dai 575 ai 745 euro. Anche a nordest di Kiev, in una zona che era stata parzialmente occupata dalle truppe russe nella primavera del 2022, la Elegant produce a ritmo sostenuto, assicura la direttrice Nataliya Romanovska. Sempre in quest’area, in un’altra fabbrica nata nel 1943, i ritmi di lavoro sono intensi. La direttrice, vedova di guerra da un anno, chiede di non rivelare il nome dello stabilimento né il suo né quello della città. “I russi potrebbero trovarla su LinkedIn o Google Maps”, si preoccupa. Lavora per l’esercito ucraino e fa parte ormai di un “settore strategico”. Il 26 settembre i suoi 370 dipendenti hanno terminato di confezionare 94mila giubbotti per i soldati, da usare nei primi giorni d’inverno. La quantità enorme di giacconi imbottiti con il cappuccio dai motivi mimetici mette i brividi: la stoffa color kaki è su tutte le macchine da cucire, in ognuna delle sette catene produttive dotate di macchine robotizzate nuove di zecca. “Non m’interessa comprare una Mercedes. Reinvesto quello che guadagno per la mia gente, per l’Ucraina”, spiega la donna, che dice di “aver completamente cambiato mentalità” dopo la morte del marito. Per soddisfare gli ordini dell’esercito, l’imprenditrice ha assunto 70 persone, tra cui quindici sfollate dall’est del paese.
Una di loro, Svetlana, è scappata da Charkiv nel marzo 2022 e si è rifugiata in questa città con il marito e il figlio. Ex operaia di una fabbrica di lievito, la donna ha imparato a cucire ed è stata assegnata al reparto delle polo. Altre donne sfollate arriveranno prossimamente. Per dargli alloggio, l’azienda ha preparato dei monolocali. Un nuovo laboratorio sarà “inaugurato nella primavera del 2024”, spera la responsabile, che ha ottenuto dalle autorità il diritto di far lavorare nel cantiere degli uomini che in teoria potrebbero essere reclutati. Sottoterra ci sarà anche un rifugio antiaereo.
L’incognita
Gli imprenditori e le imprenditrici si dicono spinte dalla volontà di servire il loro paese e dare lavoro agli ucraini. Ma tutti si preparano anche al dopoguerra, cercando di entrare in contatto con il maggiore numero possibile di marchi esteri per essere pagati in euro. Resta il problema, però, di “rassicurare gli stranieri sulla capacità di completare gli ordini”, osserva la presidente della federazione dell’industria tessile.
Il tessile ucraino sopravvivrà a un secondo inverno di guerra? Tutti s’interrogano sulla fornitura di elettricità. A Rivne, dove l’azienda francese Verallia produce bottiglie di vetro, Vitaliy Koval, il capo delle autorità militari, ammette che i blackout sono un problema per le aziende che non hanno gruppi elettrogeni. Quelli forniti dallo stato sono riservati alle infrastrutture come gli ospedali.
Ma gli imprenditori si organizzano. La Cap Est ha già fornito un generatore del costo di 60mila euro allo stabilimento di Kovel. Altri invece puntano sull’energia solare. A Černihiv Nataliya Romanovska pensa di investire centomila dollari per ricoprire il tetto dello stabilimento di pannelli solari, ma esita perché sarebbero facilmente individuabili dal satellite. ◆ adr
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Questo articolo è uscito sul numero 1533 di Internazionale, a pagina 107. Compra questo numero | Abbonati