Una mattina di marzo del 2021, Ulzii, 29 anni, ha ricevuto una telefonata dalla madre. “Sta arrivando una tempesta di sabbia”, l’ha avvertito Altantsetseg, 56 anni. La notizia era appena stata annunciata alla radio. “Porta subito al sicuro gli animali”. Il giovane pastore è uscito. In lontananza l’aria si era tinta di arancione, il forte vento era già carico dell’odore di polvere. Ulzii ha guardato la moglie. I due novelli sposi si erano da poco insediati in una tenda tutta loro ai margini del deserto del Gobi. Era la prima grande tempesta che dovevano affrontare da soli. La prima grande prova.
Ulzii e Munkhsaruul, 27 anni, hanno riunito in un recinto le seicento capre e pecore ricevute in dote dai genitori. Dopo aver legato saldamente i cancelli, si sono riparati nella tenda.
“Pensavamo di poter tornare dopo qualche ora”, racconta oggi Ulzii.
Quella, però, non è stata una tempesta normale, ma un ciclone come i pastori del deserto del Gobi non ne vedevano da decenni. La bufera ha imperversato sulle steppe mongole e le ha avvolte nell’oscurità. Il vento si è abbattuto sulla pianura come una furia, sollevando terra e pietre.
Mentre la coppia rimaneva chiusa dentro la tenda, di 590 nomadi si sono perse le tracce. Tsetsejnee, un lontano zio di Ulzii che abita a qualche decina di chilometri da lui, si era smarrito nel tentativo di salvare le capre. “È stato come se qualcuno mi avesse buttato una coperta in testa”, ricorda. “Non riuscivo più a vedermi neanche le mani. Il rumore era assordante. Per aria volavano sassi grandi come palle da tennis. I granelli di sabbia mi graffiavano le guance fino a farle sanguinare”.
La tempesta è durata circa diciotto ore ed è ricordata come la più violenta della storia recente della Mongolia. Il ciclone, che come sempre si è formato in Siberia, ha trascinato la sabbia per migliaia di chilometri, attraversando la Cina fino alla penisola coreana.
Ulzii e Munkhsaruul sono potuti uscire per liberare il gregge solo la mattina seguente. Ma ormai era troppo tardi. Capre e pecore erano sepolte sotto uno spesso strato di sabbia e terra, quasi tutte morte. Ulzii è visibilmente scosso quando lo racconta. “Sono riuscito a salvare una trentina di bestie tirandole dalle zampe posteriori. Le altre erano soffocate”.
Quella giornata è stata l’esempio lampante del cataclisma che i cambiamenti climatici stanno provocando in Mongolia. Ulzii e Munkhsaruul, come i loro genitori, sono nati in una tenda nelle praterie del Dundgov’, una provincia della Mongolia meridionale grande quanto i Paesi Bassi e il Belgio messi insieme. L’area conta meno di cinquantamila abitanti, quasi tutti nomadi buddisti. In inverno migrano verso grandi tende foderate con lana di capra chiamate ger, mentre in estate si trasferiscono in abitazioni più leggere in mezzo ai pascoli. La crisi climatica minaccia di mettere fine al loro stile di vita.
Del resto i nomadi mongoli sono già uno dei popoli più esposti del mondo alle variazioni climatiche. In inverno sopportano temperature che scendono a quaranta gradi sotto zero e tempeste di neve chiamate “dzud bianco”, durante le quali centinaia di migliaia di animali muoiono congelati e le persone si stringono l’una all’altra nelle tende.
In primavera e in autunno è la volta delle tempeste di sabbia e polvere, lo “dzud nero”. La parola dzud è antichissima, a riprova del fatto che la vita nel deserto del Gobi e nelle zone limitrofe è sempre stata difficile. Tuttavia, dal 1960 la temperatura nella regione è aumentata di 2,4 gradi, a differenza degli 0,8 gradi del resto del mondo. Di conseguenza, la Mongolia è il paese che si sta riscaldando più in fretta al livello globale.
Fuori dal mondo
Le ripercussioni sono già catastrofiche e pressoché irreversibili. Laghi che si prosciugano ogni estate e non si riempiono più. Fiumi che svaniscono per sempre. Innumerevoli specie vegetali e animali che scompaiono. Il deserto avanza da sud. Il 79 per cento della superficie mongola è ricoperto di sabbia. Per questo i consueti cicloni – che nascono dall’impatto tra il vento freddo siberiano e la più calda massa d’aria asiatica – si trasformano con crescente frequenza in tempeste di sabbia violente. Ogni anno se ne verificano dalle trenta alle sessanta e sono sempre più difficili da affrontare. Dopo la tempesta del 2021, Ulzii e Munkhsaruul sono tornati dai genitori, per ricominciare piano piano da capo.
Inoltrarsi nel deserto significa uscire dalla modernità. Dopo due ore di viaggio in automobile sparisce internet. Dopo quattro la rete telefonica. Dopo sei abbandoniamo le ultime strade asfaltate. All’improvviso ci ritroviamo in un altro mondo, senza persone, senza case né templi. Senza ripetitori né serbatoi per l’acqua. La natura si estende sterminata in ogni direzione. Gazzelle, lepri a pelo lungo e grilli colorati fuggono al nostro passaggio. Dalla prospettiva dell’automobile sembra tutto abbandonato, ma dalle rocce lupi e felini ci osservano.
Sumi, il guidatore, si guarda intorno in silenzio. Cosa starà pensando? Non l’abbiamo già visto prima quel crinale? Stiamo girando in tondo? Anche con il gps ci perdiamo di continuo. I due nomadi che incontriamo durante il lungo tragitto ci danno indicazioni preziose. Senza di loro si vedrebbero solo confuse tracce di pneumatici sulla sabbia che serpeggiano in ogni direzione. Sbagliamo ripetutamente strada e siamo costretti a tornare indietro più e più volte. Adesso è chiaro perché nel bagagliaio abbiamo caricato trenta litri d’acqua. Se dovessimo rimanere bloccati, potrebbe volerci molto prima che qualcuno ci trovi.
“Benvenuti, benvenuti”, dice Altantsetseg quando finalmente raggiungiamo la famiglia di Ulzii. “Pensavamo che sareste arrivati prima”. Ci porge delle ciotole di tè con una generosa aggiunta di latte di capra. Suo marito Bekh-Ochir, 57 anni, ci accompagna a visitare il campo. In mezzo alla pianura abbandonata sorgono due grandi tende circolari. La desolazione toglie il fiato. La terra è arida e dura. Un vento gelido appiattisce i fili d’erba. È un paesaggio lunare. A parte Altantsetseg, Bekh-Ochir e un’altra famiglia a cinque chilometri di distanza, qui non viene mai nessuno. “Una volta ho visto da lontano dei giapponesi in moto”, racconta il pastore. E occidentali? “Trent’anni fa, nel 1993, passò una giovane escursionista britannica. Stava attraversando la Mongolia con solo lo zaino e un dizionario”. La famiglia ne conserva un ricordo vivido. “Venne da noi, chiese se poteva restare a dormire e alle sei del mattino ripartì. Però non ricordiamo più il suo nome”. Altantsetseg e Bekh-Ochir sono il re e la regina di questo paesaggio lunare. Non solo sono i pastori più prosperi nel raggio di chilometri – “i primi ad aver allevato più di mille capi di bestiame” – ma la loro ospitalità è rinomata in tutta la zona.
Bekh-Ochir ha in mente un banchetto speciale per noi. Prima però bisogna guadagnarselo. “Dovete darvi da fare”, dice con un sorriso. Dopodiché afferra il suo cappello bianco da cowboy e salta in sella alla moto. Altantsetseg prende posto dietro di lui. Avvolta da sciarpe e con un grande paio di occhiali da sole, sembra un predone del deserto uscito da un film. I due si allontanano saettando attraverso il paesaggio arido.
Dal 1990 il numero degli animali è salito alle stelle. Negli ultimi tre decenni la steppa mongola è stata completamente brucata
Sfrecciano davanti alla pompa dell’acqua e a un gruppetto di cammelli, diretti alle capre che cercano un po’ d’erba in alto sulle rocce. Bekh-Ochir comincia a radunare il bestiame girandoci intorno lentamente con la moto. Il suo occhio allenato cerca una capra con un corno dipinto di rosso. “Quella è pronta per essere macellata”, spiega. Tuttavia mantenere il contatto visivo con la bestia non è facile. Le capre si sparpagliano ogni volta che il pastore si avvicina. In men che non si dica, è tutto un groviglio di corna, nugoli di polvere e lana. “Dovreste aiutarmi”, dice il pastore. In realtà vuole farci uno scherzo e riesce a malapena a rimanere serio in viso. “Sali sulla moto, quando ci avviciniamo devi saltare in groppa alla capra!”. Per due volte tentiamo un assalto disperato.
Dopo mezz’ora Bekh-Ochir è piegato sul manubrio della moto con le lacrime agli occhi dal ridere. “Vi faccio vedere come si fa”. Si avvicina al gregge un’ultima volta e afferra il lazo. Dopo due lanci ha già catturato la capra prescelta. Poi la scena si svolge in un batter d’occhio. L’esperto pastore pratica un taglio nel ventre dell’animale, vi infila il braccio fino al gomito e strappa il nervo principale. “Ora la capra non sente più niente, morirà subito”, ci spiega. Non è stata versata una goccia di sangue. “Gli animali vanno rispettati, come la vita in ogni sua forma”.
Mentre Bekh-Ochir scuoia l’animale, la moglie si occupa delle altre bestie. Le pecore richiedono particolare attenzione. Hanno la spessa coda coperta di ferite brulicanti di vermi. Altantsetseg trascorre ore a rimuoverli uno a uno con una pinzetta. “Mantenere milletrecento animali è un duro lavoro”, dice.
La vita di Bekh-Ochir e Altantsetseg incarna un antico ideale mongolo: creare il proprio paradiso sull’erba in totale libertà. Una libertà che è addirittura sancita dalla costituzione. I nomadi possono infatti stabilirsi in qualsiasi luogo della vasta Mongolia.
Tuttavia, a causa dei cambiamenti climatici in corso, si spostano sempre più spesso in direzione della capitale, fortemente inquinata. In sessant’anni Ulan Bator ha avuto un’esplosione demografica che l’ha vista passare da centomila a oltre un milione e mezzo di abitanti. Tanti pastori nomadi ridotti in miseria e messi in fuga dal clima hanno piantato le ger alla periferia della città, dove sorgono tendopoli povere e caotiche.
Democrazia e cashmere
Se non si provvederà ad affrontare in modo tempestivo e drastico questa emergenza ambientale, prima della fine del secolo in Mongolia la temperatura sarà aumentata di cinque o sei gradi. Secondo i climatologi il territorio a quel punto diventerà un deserto invivibile, che costringerà a migrare anche i pastori più temprati. “Si potrebbe dire che i mongoli sono allo stesso tempo molto dipendenti e assolutamente indipendenti”, afferma Nomin Chinbat, ministra della cultura nomade, nel suo ufficio di Ulan Bator. “Vivono lontano gli uni dagli altri e quindi devono essere del tutto autosufficienti, ma sono anche soggetti alle leggi della natura, che non possono controllare in alcun modo”.
Intorno al fuoco della ger ognuno riceve un grande coltello. Fuori è buio pesto e non vola una mosca. Il vento è calato. Sulla fiamma c’è una scatola di latta con uno spezzatino di carne di capra. Bekh-Ochir e Altantsetseg si avvicendano a raccontare come sono diventati nomadi. Era il 1990, avevano vent’anni e di punto in bianco tutto cambiò. Cadde l’Unione Sovietica e in Mongolia il capitalismo soppiantò il comunismo. Pochi paesi asiatici abbracciarono il liberalismo con altrettanto slancio.
Ancora oggi la Mongolia è una sporadica oasi democratica in un mare di nazioni autoritarie come la Russia e la Cina.
Quando Bekh-Ochir e Altantsetseg hanno cominciato ad accudire le prime capre, tutte le regole erano sparite. All’improvviso non c’erano più limitazioni alla proprietà privata. “Da allora siamo noi a decidere se macellare e mangiare un animale. Nell’Unione Sovietica si doveva andare al villaggio con un modulo per chiedere l’autorizzazione a un funzionario”. Con il nuovo sistema i due pastori hanno prosperato e sono stati i primi a superare il limite simbolico di mille capi di bestiame. Eppure non ne sono particolarmente entusiasti. “Ora, con tutte queste bestie, siamo più stressati e abbiamo molto più lavoro da sbrigare”, spiega Bekh-Ochir. “Ai tempi del socialismo c’era un limite di settantacinque capi per famiglia di pastori. Quel sistema aveva i suoi vantaggi. Le regole erano severe, ma si riceveva un salario, se uno degli animali si ammalava veniva mandato un veterinario e le bestie che morivano per una catastrofe naturale venivano rimpiazzate. In una democrazia, sopravvivere con settantacinque animali è impossibile. Bisogna essere previdenti per i tempi di magra”.
La libertà e la concorrenza hanno dato il via a cambiamenti radicali. Il Cremlino non era mai riuscito a industrializzare l’allevamento nei bassopiani della Mongolia. L’equilibrio sostenibile tra pastorizia e ambiente era fiorito sotto un ombrello di norme rigorose. Con l’arrivo del capitalismo si sono imposte la corsa al profitto, l’estrazione mineraria e la proprietà privata. In tutto il paese i pastori hanno infoltito le greggi. Il numero di animali è balzato alle stelle. Negli ultimi tre decenni la steppa mongola è stata completamente brucata. Quando Bekh-Ochir e Altantsetseg hanno cominciato ad allevare il bestiame, l’erba gli arrivava alle ginocchia. Ora spuntano solo ciuffi corti, e l’erba ricresce sempre più sottile a causa della siccità. Si è innescato un circolo vizioso: il clima peggiora e allora i pastori prendono sempre più animali, e se i pastori prendono sempre più animali, il clima peggiora.
“Ho chiesto un calcolo ben preciso”, afferma Bat-Erdene, ministro del clima e del turismo, nel suo ufficio di Ulan Bator. “Se vogliamo vivere in armonia con la natura, c’è posto per 25-30 milioni di capi di bestiame”. Di recente ne sono stati contati 90 milioni e il numero continua a crescere. Sono soprattutto le capre da cui si ricava la preziosa lana cashmere a danneggiare gravemente il territorio, perché non si limitano a brucare, ma sradicano l’intera zolla d’erba. La desertificazione è quindi inarrestabile.
Ravioli a colazione
Dalle aperture nella ger estiva entrano gli ultimi raggi di luce dorata, si fa sera. A un tratto dalla tenda di Ulzii e Munkhsaruul proviene uno strillo. Bekh-Ochir si alza allarmato e corre fuori. Il bambino di Munkhsaruul sta male. Mentre gli altri cercano un mezzo di trasporto per portarlo all’ospedale, che dista almeno tre ore di macchina, Altantsetseg estrae un pezzetto di metallo flessibile da una tasca sulla parete della tenda. Ne stacca un frammento e lo brucia all’aperto. Il materiale si accende come un fuoco d’artificio ed emana un odore solforoso. “Serve a tenere alla larga gli spiriti malvagi”, spiega Bekh-Ochir. Non è buddismo, ma sciamanesimo, qui i due culti convivono. “Qui siamo lontani da tutto. Per sopravvivere dobbiamo invocare il favore degli dèi e degli elementi”.
Mentre il neonato viene portato via, la seconda nipote di Bekh-Ochir si siede in grembo al nonno. Ankhiluun ha sei anni, ha corso tutto il giorno e giocato ad astragali, un gioco antico che si può fare con gli ossicini della caviglia di una pecora. Soddisfatta, si addormenta sulla coscia del nonno. “Va a scuola nella grande città”, dice Bekh-Ochir. “Probabilmente non diventerà una nomade. È una vita dura. Viene per le vacanze, ma frequenta la scuola per poter fare altro”. Nella steppa, durante i mesi estivi, vive ancora la vita migrante, le tradizioni e l’armonia con la natura.
Prima di mandarla a letto nell’altra tenda, la nonna le passa affettuosamente sul naso un dito di fuliggine del bollitore. Altantsetseg racconta che tanto tempo fa, secondo la leggenda, due demoni si presentarono a una tenda in Mongolia con l’intenzione di rapire un bambino. Per confonderli, la madre con movimento lesto sporcò il viso dei figli con un po’ di fuliggine e disse: “Questo non è un bambino, ma un coniglio”. Fu così che i demoni se ne andarono. Per un bambino mongolo è un rituale rassicurante: se di notte grandi ragni, locuste, grilli o altri insetti gli camminano sul collo, li scaccia con noncuranza, convinto che non possa trattarsi di spiriti maligni, perché questi lo credono un coniglio.
Dicendo che andrà tutto bene, crede di contribuire alla buona riuscita delle cose. Il mondo si può plasmare con l’ottimismo
L’indomani ci sono buone notizie. Il bambino sta bene. Alle cinque di mattina Altantsetseg sta già scuotendo il nostro sacco a pelo. Il sole non è ancora sorto. “In piedi”, dice, visibilmente divertita. “Che dormiglioni gli europei!”. Fa bollire l’acqua per il tè, taglia alcuni pezzetti di grasso e comincia a friggerli. Già di primo mattino la tenda si riempie dell’odore nauseante di grasso fuso, mescolato con quello dell’erba semidigerita proveniente dallo stomaco della capra, che sobbolle in un’altra padella. Nel frattempo Bekh-Ochir è immerso in una marea di faccende: pulire e controllare la motocicletta, tagliare finemente la carne di capra rimasta, preparare e stendere l’impasto per i buuz, i tipici ravioli mongoli. Dopo una o due ore salta sulla moto per riempire gli abbeveratoi e ricontrollare il bestiame. “Lavoriamo senza sosta, ma se vuoi vedere quant’è dura per davvero la vita di un nomade, devi tornare in inverno”.
Mentre i due sono indaffarati, il telefono squilla in continuazione. Anche se vivono a decine e talvolta a centinaia di chilometri di distanza gli uni dagli altri, i pastori si tengono in contatto. Qui il segnale gsm non arriva, ma la famiglia ha un telefono fisso “con cui si può chiamare fino in Corea”. Proprio come vicini che si scambiano informazioni sui figli e sul lavoro da una parte all’altra di una siepe, così l’arrivo del telefono ha introdotto una nuova forma di socialità. La vita in costante solitudine, quasi sempre ridotta a una, due o tre persone che dividono una tenda, si è gradualmente intrecciata con l’esistenza di altri. Allo stesso modo la tv nella tenda di Ulzii e Altantsetseg serve da collegamento con il resto del pianeta. Alla sera guardano insieme i notiziari sull’Ucraina, sui bambini malnutriti nel Corno d’Africa – “per noi è dura, ma forse per loro ancora di più” – e degli approfondimenti sul crescente potere economico della vicinissima Cina.
La ricchezza che si paga
“Una delle principali sfide per aiutare queste persone è fornirgli una connessione internet”, dichiara la ministra della cultura Nomin Chinbat. “In tal modo possono aiutarsi a vicenda, imparare più in fretta e compiere un balzo enorme dal punto di vista economico”. Ma la connessione 4G non rischia di compromettere l’unicità dello stile di vita e della cultura dei nomadi? Sulle panchine e nei bar di Ulan Bator si vedono pastori appena arrivati, senza lavoro né prospettive. Trascorrono giornate intere a letto o seduti davanti alla tenda a scrollare TikTok, un video dopo l’altro: calcio, wrestling, belle donne ed eventuali interessi personali, confezionati in montaggi di venti secondi. “Non spetta a noi precludergli il progresso”, afferma la ministra.
Sono domande che anche Bekh-Ochir si fa. Così come auspica il ritorno della sicurezza e dell’armonia che caratterizzavano l’era comunista, è scettico riguardo ai comfort della modernità. “Abbiamo un frigorifero per conservare più a lungo la carne, abbiamo una tv e abbiamo le automobili, ma tutte queste cose servono solo a sopravvivere. Di fronte alle prove della natura dobbiamo cavarcela da soli, perché nessuno verrà ad aiutarci. Quindi dobbiamo tenerci informati guardando i notiziari, è fondamentale avere le auto per spostarci più in fretta ed è senz’altro utile conservare più a lungo la carne per evitare malattie”. Ma questo basta a migliorare la vita? “Prima riuscivamo a sopravvivere con un numero di bestie ridotto. Niente andava perso”. Indica un mucchio di pelli di pecora e di capra sistemate sotto il camper. “Una volta le usavamo noi per la lana, per farci i vestiti e la copertura delle tende. Ora viene qualcuno a prenderle”. Il telefono squilla di nuovo. I nomadi della regione si stanno organizzando contro un’azienda mineraria che cerca l’uranio. “Venite anche voi alla manifestazione di oggi?”. Qui la trivellazione e la ricerca di materie prime proseguono a singhiozzo dagli anni novanta. Sulla carta la Mongolia è ricca, ma la maggior parte di questa ricchezza è nel sottosuolo. I nomadi hanno notato che nelle immediate vicinanze della miniera di uranio si verificano problemi gravi. I pozzi artesiani si prosciugano perché le aziende minerarie – attualmente una della Repubblica Ceca – riempiono i fori di trivellazione con il cemento e l’acqua non passa più. Inoltre l’area è stata colpita da malattie misteriose. Nell’inverno del 2012 decine di migliaia di animali morirono in poche settimane. Secondo alcuni nacquero agnelli con due teste. Anche il numero dei casi di cancro è molto superiore rispetto alla media nazionale. Tutti quelli che partecipano alla protesta hanno perso qualche parente.
Bekh-Ochir ci porta alla manifestazione. “Fate attenzione, la situazione può diventare violenta”, ci avverte preoccupata Altantsetseg. Percorriamo quaranta chilometri sul suolo sabbioso. Vicino alle tracce degli pneumatici, due condor beccano la carcassa di un agnello. Mandrie di cavalli galoppano in libertà. Arriviamo alla miniera con altri otto nomadi: la scena è pittoresca. I nomadi, che fanno pensare a un gruppo di avventurieri anarchici, affrontano geografi, ingegneri e addetti alla sicurezza venuti dalla capitale. “Il fatto che si verifichino tutte queste malattie e che muoiano tanti animali è strano, in effetti”, ammettono quelli con riluttanza. “Ma la miniera non c’entra niente. Può darsi che il terreno fosse già inquinato”. I nomadi sono indignati ma non cedono alla violenza. “Non siamo un popolo bellicoso, siamo buddisti, ma vogliamo comunque difendere il nostro territorio”, dice Bekh-Ochir. “Abbiamo sabotato le condutture dell’acqua e l’alimentazione elettrica della miniera”, dice un altro. “Non possiamo tollerare che distruggano il nostro ambiente naturale”.
Ma perché i nomadi non se ne vanno e basta? Dopotutto è possibile che non siano i fori di trivellazione, bensì il terreno e l’acqua stessi – che sono pieni di uranio – la causa dei tanti casi di cancro e malattie misteriose. “Siamo nomadi, ma torniamo il più spesso possibile nelle stesse valli. Qui i nostri animali si orientano. Riescono a trovare facilmente le sorgenti d’acqua, sanno dov’è l’erba e non dobbiamo pascolarli tutto il giorno”. Tuttavia la desertificazione e l’insabbiamento dell’intero paese, il cambiamento climatico e l’esaurimento del suolo hanno le loro conseguenze. In passato, nei periodi difficili, i nomadi si spostavano anche di mille chilometri in cerca di pascoli migliori. “Anche andando da un’altra parte, non troveremmo erba a sufficienza e ci sarebbero già altri nomadi”, spiega il pastore che abita vicino alla miniera. “Non vogliamo mettere ulteriore pressione sulla loro terra”.
Il sole sta calando e Bekh-Ochir ci riaccompagna in fretta all’auto. “Dobbiamo essere a casa prima che faccia buio”, dice. A differenza del guidatore che ci ha condotti qui, non ha la minima difficoltà a trovare la strada attraverso l’intreccio di impronte lasciate dagli pneumatici e le creste frastagliate. “Penso di conoscere ogni roccia”, afferma senza vantarsi. Sulla via del ritorno, dice che secondo lui il settore minerario non offre un’alternativa sostenibile al suo stile di vita. “Scaviamo la terra, distruggiamo la natura e spediamo ogni cosa di valore all’estero. Paesi come la Cina creano posti di lavoro per la propria gente e rimandano indietro i prodotti finiti. Non mi sembra un grande piano per la Mongolia, no?”.
Una volta tornati nella tenda, Bekh-Ochir prende una bottiglia di vodka di latte di cavalla e ne versa una dose generosa in grandi ciotole. “Prima dobbiamo ringraziare gli antenati e Budda”, dice. Infila il pollice e l’anulare nella vodka e sparge in aria tre gocce. Le ciotole vengono passate intorno finché non ne abbiamo una a testa. La bottiglia si svuota presto. A nostra volta estraiamo una bottiglia di cognac dalla borsa. Altantsetseg comincia a raccontare come ha conosciuto il marito. Con le guance arrossate, dice: “Lui era un poco di buono, ma non lo sapevo”.
Sono sposati da trentacinque anni. Bekh-Ochir era tornato dall’esercito e nel villaggio aveva la fama di donnaiolo. Un giorno, vedendola trascinare un grande secchio di latte le offrì il suo aiuto. Quando fu invitato dentro per il tè, disse: “Altantsetseg, ti voglio sposare. Non devi rispondermi subito, va bene anche domani. Tornerò”. E così il giorno seguente si ripresentò. La scena si ripeté per qualche giorno, finché lei non acconsentì. Solo in seguito Altantsetseg ha saputo della dubbia reputazione di Bekh-Ochir. “Sposerai quello lì?”, le chiedevano le amiche. Lei però aveva già deciso.
Azzurro, marrone e rosso
Bekh-Ochir ci ride sopra. “Era quella giusta. Quando incontri quella giusta, sai che puoi farci qualsiasi cosa insieme”. In mongolo, spiega, esistono due parole per amore. “Ci sono dortlig e hertlig. Dortlig è l’infatuazione sfrenata e impetuosa. Hertlig è un’unione profonda, il vero amore, che si può provare anche per i genitori e gli amici”. Nel corso degli anni il dortlig che Bekh-Ochir provava per Altantsetseg si è tramutato in hertlig. L’infatuazione adolescenziale riemerge solo nelle battute e negli scherzi di Bekh-Ochir, che dopo tanto tempo continuano ad affascinare Altantsetseg. La donna prende un libro che raccoglie poesie scritte da amici. “Parlano di noi”, dice con orgoglio. Legge: “Di coppie così ne esiste una su migliaia: tanto è il loro talento di pastori di pecore e capre, che sono i primi ad averne un migliaio”.
Non tutte le persone sono buone. I due lo hanno vissuto sulla propria pelle. Una volta hanno chiesto in prestito una grande somma di denaro per un amico in difficoltà, offrendo il loro bestiame come garanzia. L’uomo però si è volatilizzato. Per pagare il debito, la coppia ha dovuto vendere quasi tutti gli animali, rimanendo con appena quaranta capi. “Abbiamo imparato qual è il segreto di questa vita: fiducia reciproca e duro lavoro”, afferma Bekh-Ochir. Ci hanno messo quasi dieci anni per tornare a un migliaio di capi. “C’è chi dice che sarebbe meglio avere meno animali, per preservare la terra, che la carne poi sarebbe di qualità migliore, ma non è vero”. Secondo lui, da queste parti il principio meno è meglio non funziona. “Il peggioramento delle condizioni è davanti ai nostri occhi. Guardate cos’è successo a mio figlio”. Per qualche istante la conversazione s’incupisce. Per natura i mongoli non sono pessimisti. Sono convinti che ciò che dicono diventi parte della realtà. Dicendo che andrà tutto bene, un mongolo crede di contribuire alla buona riuscita delle cose. Il mondo si può plasmare con l’ottimismo.
Il credo buddista aiuta Bekh-Ochir a prendere le distanze dalle difficoltà. Tuttavia la crisi che sta colpendo lentamente questo bassopiano a volte incrina anche il suo abituale buonumore. “Credo ai cambiamenti climatici perché li vedo”. Alza quattro dita. “Se la terra è ancora umida a quattro dita di profondità, cresce lo scalogno. Se è umida a cinque dita di profondità, possono crescere anche altre piante. Ma è sempre più raro che sia umida così a fondo. Molte piante che vedevo da bambino non ci sono più”.
Forse, dice Bekh-Ochir buttando giù l’ultimo goccio di cognac, non dovremmo esplorare altri pianeti. “Abbiamo un pianeta azzurro e lo facciamo diventare marrone. E vogliamo andare nello spazio per vivere su un pianeta rosso? Che idiozia”. Lui s’informa su cosa succede nel mondo. “Vedo i tornado, i terremoti, le alluvioni e la siccità. La natura ci attacca, mentre per tanto tempo abbiamo vissuto in armonia. Vogliamo di più, più in fretta, spingendoci più lontano. È proprio il caso di andare su Marte? Guadagniamo molto, ma molto va anche perso”. ◆ dt
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Questo articolo è uscito sul numero 1522 di Internazionale, a pagina 140. Compra questo numero | Abbonati