Mentre l’inverno si avvicina, decine di migliaia di civili rischiano di soffrire la fame in una contesa regione montuosa dell’Azerbaigian, dove una crisi in corso da quasi tre mesi sta arrivando al punto di rottura. Il Nagorno Karabakh, abitato in maggioranza da armeni, si era separato dalla neonata repubblica dell’Azerbaigian dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Ne era scaturita una guerra che aveva provocato migliaia di vittime, e costretto centinaia di migliaia di azeri a fuggire dalla regione. Il conflitto è rimasto congelato per decenni, finché nel 2020 l’Azerbaigian ha ribaltato la situazione in una seconda guerra, recuperando gran parte dei territori persi negli anni novanta. A quel punto i circa 120mila armeni del Nagorno Karabakh si sono ritrovati circondati da territori controllati da Baku.
L’unico collegamento tra la regione e il mondo esterno era il corridoio di Laçın, una striscia di terra lunga cinque chilometri che univa la regione all’Armenia. In base al cessate il fuoco del 2020, il corridoio avrebbe dovuto essere controllato dalle forze di pace russe. Ma a dicembre del 2022 è stato bloccato da un gruppo di sedicenti ambientalisti azeri, che protestavano contro l’estrazione illegale di minerali nel Nagorno Karabakh. Secondo il governo azero inoltre il corridoio era usato per fornire armi alle milizie armene. Nonostante i timori di una crisi umanitaria, però, le consegne di viveri e medicinali della Croce rossa e delle forze di pace russe non si erano fermate.
La situazione è cambiata nuovamente a giugno, quando l’Azerbaigian ha prima limitato e poi chiuso definitivamente l’accesso alla zona. Da allora nella regione non arrivano più provviste, latte in polvere, prodotti per l’igiene e farmaci. I corrispondenti stranieri hanno riferito che mancano viveri e carburante, i bazar e i supermercati sono vuoti e si formano code di ore per il pane. Non ci sono più trasporti pubblici, non è possibile consegnare i prodotti agricoli locali e l’elettricità e il gas sono razionati. Il sistema sanitario è prossimo al collasso. Secondo il ministro della salute Vardan Tadevosyan tutte le operazioni chirurgiche tranne le più urgenti sono state sospese e c’è una grave carenza di medicinali di base. I reparti di maternità sono in crisi: più del 90 per cento delle donne incinte soffre di anemia e gli aborti spontanei sono triplicati.
Vittoria incompleta
L’attenzione internazionale è aumentata progressivamente anche grazie al rapporto di Luis Moreno Ocampo, ex procuratore capo della Corte penale internazionale, secondo cui in Nagorno Karabakh è in corso un genocidio. L’Azerbaigian nega che ci sia una crisi umanitaria, e ha proposto un percorso alternativo per i rifornimenti destinati alla popolazione armena, che dovrebbe passare per la città azera di Ağdam. Ma gli armeni del Nagorno Karabakh hanno bocciato questa soluzione perché violerebbe gli accordi del 2020, che garantivano la libera circolazione lungo il corridoio di Laçın. La loro reazione ha alimentato in Azerbaigian la convinzione che non ci sia nessun blocco, e che nella regione sia in corso una sorta di sciopero della fame collettivo.
La questione delle due rotte fa capire quale sia la reale posta in gioco: il controllo del Nagorno Karabakh. Nel 2020 l’Azerbaigian ha ottenuto una vittoria schiacciante ma incompleta. Il Nagorno Karabakh è stato ridotto a un’enclave precaria, ma una parte resta fuori dal controllo di Baku. Questo ha permesso la sopravvivenza della repubblica dell’Artsakh, proclamata dagli armeni all’inizio degli anni novanta. L’invio delle forze di pace russe, inoltre, ha segnato una sconfitta simbolica per l’Azerbaigian, che nel 2013 aveva celebrato la rimozione delle ultime strutture militari del suo ex dominatore.
L’invasione russa dell’Ucraina ha offerto a Baku l’occasione inaspettata di “completare” la vittoria del 2020. L’Azerbaigian, infatti, è diventato un paese più importante per la Russia, soprattutto come snodo dei collegamenti con l’Iran e la Turchia. Inoltre le sue riserve di gas e petrolio sono diventate ancora più importanti per l’Unione europea. Il 31 agosto Hikmet Hajiyev, consulente di politica estera del presidente azero Ilham Aliyev, ha illustrato la posizione di Baku: “L’Azerbaigian non può più tollerare l’esistenza di una zona grigia sul suo territorio. Il regime illegale deve essere sciolto e disarmato”. Aliyev ha dichiarato che il corridoio di Laçın potrà essere riattivato solo dopo l’apertura della rotta di Ağdam e dovrà rispettare il regime doganale azero.
Recentemente il presidente del consiglio europeo Charles Michel ha spiegato che sono in corso dialoghi con l’Azerbaigian, l’Armenia e gli armeni del Nagorno Karabakh su un piano per la progressiva riapertura dei due percorsi. La ripresa dei collegamenti tra il Nagorno Karabakh e l’Azerbaigian dopo trent’anni sarebbe un passo storico, ma avverrebbe in un clima di totale diffidenza dovuto al blocco e alle continue violazioni del cessate il fuoco.
Resta da vedere se il corridoio di Laçın rimarrà transitabile anche dopo l’apertura della rotta di Ağdam, e a quali condizioni. Gli armeni potranno lasciare il Nagorno Karabakh attraverso il corridoio, ma non è chiaro quali sarebbero i requisiti per rientrare. Baku insiste sul “reintegro” della popolazione armena nello stato azero, ma non ha ancora presentato nessun piano concreto in questo senso.
Con la stagione fredda alle porte, gli armeni del Nagorno Karabakh si preparano a nuove sofferenze e temono che Baku voglia spingerli ad abbandonare quella che considerano la loro casa, un piano che equivarrebbe alla pulizia etnica. ◆ as
Laurence Broers si occupa di Caucaso per il centro studi britannico Chatham house. Ha scritto Armenia and Azerbaijan: anatomy of a rivalry (Edinburgh University Press 2019)
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Questo articolo è uscito sul numero 1528 di Internazionale, a pagina 30. Compra questo numero | Abbonati