Max Kresch ha trascorso più di due mesi in servizio come riservista sul confine con il Libano dopo il 7 ottobre 2023, quando è cominciata la guerra, ma ha appena annunciato che non si ripresenterà alla chiamata.

Kresch è arrivato in Israele nel 2014 a 18 anni, nell’ambito di un progetto della sua comunità religiosa sionista del Massachusetts, negli Stati Uniti. Dopo un anno in una yeshivah di Gerusalemme, ha deciso di trasferirsi in Israele e di arruolarsi. È stato inserito nell’unità di ricognizione Egoz e ha seguito un corso di formazione per diventare paramedico. In seguito è stato trasferito in un ambulatorio a causa – come dice lui –della sua riluttanza a uccidere. Dopo il congedo Kresch si è unito ai riservisti come soccorritore militare e non ha mai mancato un giorno di servizio.

Ora però ne ha abbastanza. Il motivo non è la fatica che colpisce molti militari: Kresch è uno dei 130 riservisti che all’inizio di ottobre hanno firmato una lettera aperta al primo ministro Benjamin Netanyahu dichiarando che non presteranno più servizio se lui non cercherà di raggiungere un accordo per il rilascio dei 101 ostaggi ancora prigionieri a Gaza.

Kresch è uno dei 64 soldati che hanno firmato la lettera con il loro nome completo; gli altri hanno usato le iniziali e hanno fatto riferimento al battaglione o alla brigata in cui sono arruolati. Per la maggior parte sono riservisti, mentre quattordici fanno parte dell’esercito regolare.

Uno dei soldati di leva è il diciannovenne Shai (nome di fantasia), in servizio nei corpi di difesa di confine nel sud del paese, che sta pensando di rifiutare “come atto di protesta, non di diserzione”, afferma. “La nostra priorità è garantire la sicurezza dello stato. Spesso ho la sensazione che i soldati siano sfruttati per le pubbliche relazioni”. Quarantasette firmatari sono in unità di combattimento. Alcuni, come Kresch, hanno già rifiutato di arruolarsi. Altri hanno deciso di non presentarsi per alcune missioni, mentre altri ancora stanno valutando cosa fare.

Secondo Yuval Green – paramedico nella brigata paracadutisti e promotore della lettera – più di cento firmatari hanno prestato servizio da quando la guerra è cominciata un anno fa: ventuno a Gaza e gli altri sul confine libanese. Anche se i soldati non hanno fissato una data in cui rifiuteranno di arruolarsi se non sarà raggiunto un accordo per gli ostaggi, la lettera evidenzia i malumori tra chi ha dedicato l’ultimo anno alla guerra.

Max Kresch (Naama Grynbaum, Haaretz)

Il loro malcontento è emotivo, morale e ideologico, una combinazione di stanchezza e ferite psicologiche, di rabbia verso il governo – che i firmatari considerano responsabile di aver sabotato un accordo per rilasciare gli ostaggi – e per la prosecuzione di una guerra che considerano senza scopo. Alcuni firmatari hanno sollevato un altro problema: la corruzione e lo spirito di estrema destra che secondo loro permeano gran parte dell’esercito israeliano.

Sulla linea del fronte

Kresch ammette di essersi trovato a disagio in alcune missioni a cui ha partecipato in anni recenti, mentre prestava servizio come soldato in Cisgiordania. Ma sentiva che la sua presenza nella squadra era importante per offrire una “voce della ragione”. I tentativi del governo di indebolire la magistratura con la riforma della giustizia proposta nel 2023 hanno aumentato le sue perplessità.

L’8 ottobre 2023, quando l’esercito si aspettava che Hezbollah avrebbe invaso il nord di Israele, Kresch è andato sul confine libanese. “Sapevamo di essere sulla linea del fronte ed eravamo convinti che ci sarebbe stato un massacro”, racconta. La situazione si è calmata dopo circa dieci giorni. Nonostante i colpi di artiglieria e i missili anticarro, non si avvertiva più “una minaccia esistenziale”, aggiunge. L’unità è rimasta sul confine per più di due mesi, impegnata soprattutto in esercitazioni, e i soldati hanno avuto tempo per discutere la situazione. Kresch racconta che alcuni suoi amici nell’unità si sono radicalizzati e lui è stato emarginato per le sue idee.

Il 12 ottobre sulla sua pagina Facebook ha scritto: “Ora è il momento di abbracciare i nostri amici arabi e palestinesi”. Ha anche criticato chi invocava la distruzione di Gaza: “Gli estremisti dicono che Gaza deve essere rasa al suolo, e questa è la cosa che fa più male perché si sta rinunciando alla pace. Io non ho rinunciato e non rinuncerò mai alla pace”.

Il post ha ricevuto reazioni sdegnate nella sua unità. “Le persone erano arrabbiate con me”, racconta. “È stato molto spiacevole e io sono stato rimosso dalla squadra. Mi è stato fatto capire che non mi volevano, che non potevamo andare d’accordo. Qualcuno mi ha detto di non essere più sicuro di poter contare su di me, di non sapere se nel momento decisivo avrei fatto quello che era necessario”. Il comandante gli ha spiegato che la rimozione non è stata dovuta alle sue opinioni, ma a motivi legati ai rapporti interpersonali. Ma lui è convinto che sia solo una scusa.

Kresch è tornato a casa “emotivamente distrutto”, ha detto. La sua compagna l’ha lasciato, lui ha sospeso per un semestre gli studi in biologia all’Università ebraica ed è tornato dai genitori. La terapia di gruppo per riservisti l’ha aiutato a riprendersi. Lì, racconta, si è reso conto che quest’anno ha avuto conseguenze pesanti su persone di ogni tendenza politica e che questa guerra senza fine sta “lacerando la società”. L’incapacità di raggiungere un accordo per gli ostaggi per lui è stato troppo, anche se “firmarlo ora non potrà comunque ricomporre le fratture tra gli israeliani”.

Riguardo alla sua decisione di non prestare più servizio, è convinto che non cambierà idea: “Il colpo di stato giudiziario continua e la guerra serve da diversivo. Dalla guerra uscirà un paese diverso da quello per cui mi sono arruolato, per cui ero disposto a sacrificare la mia vita. Troppe cose sono andate in una direzione in cui non credo, e non posso più accettarlo”.

Punto di non ritorno

Yotam Vilk, 28 anni, è cresciuto a Gerusalemme in una famiglia religiosa sionista che lui definisce di “destra moderata”. Oggi fa parte della sinistra religiosa, vive a Tel Aviv, sta facendo uno stage per diventare avvocato specializzato in diritti umani ed è un difensore dei diritti dei palestinesi nei territori occupati. Presta servizio come vicecomandante nei corpi corazzati e ha da poco concluso il suo secondo incarico da riservista dopo il 7 ottobre. Nell’ultimo anno ha combattuto per 230 giorni, per lo più a Gaza.

Dopo essersi rifiutato di prestare servizio nei territori occupati era stato congedato dall’esercito per motivi di coscienza, circa un anno prima dell’inizio della guerra. Ma il 7 ottobre 2023 si è offerto volontario. “Mi sono reso conto che la guerra stava andando in una direzione problematica quando Israele ha rifiutato di accettare sette ostaggi” nell’ambito dell’accordo raggiunto con Hamas nel novembre 2023, “sostenendo che se avessimo preteso di meno Hamas ci avrebbe messo in ginocchio o altre assurdità del genere. Per me era chiaro che Israele stava rinunciando alle persone che erano state sequestrate sul proprio territorio”.

Inoltre, aggiunge, “è impossibile entrare a Gaza e non accorgersi della sua sofferenza. Il territorio è stato totalmente distrutto, non può più essere abitato. Il lungomare di Gaza somigliava in modo inquietante a quello di Tel Aviv, ed è stato devastato”.

Anche la relazione di Vilk con la sua compagna è finita quando è tornato dal primo incarico, in parte a causa del suo stato psicologico. “Sento che Israele mi ha tradito”, dice. “Ha preso tantissimo da me, e mi sta usando per promuovere una guerra insensata”. Nonostante questo, non sa se rifiuterà di prestare servizio alla prossima chiamata: “Mi sembra che abbandonare Gaza significhi rinunciare agli ostaggi che sono ancora lì. Ma in ogni caso li abbandoneremo perché lo stato di Israele non li vuole. Raggiungere un accordo non è solo un obbligo, è l’unica soluzione possibile”. Il problema, conclude Vilk, è che “se Israele decide di non raggiungere un accordo per interessi politici personali e ambizioni messianiche, il mio servizio sarà messo in discussione”.

Da sapere
Il nord di Gaza sotto assedio

◆ Da quando l’esercito israeliano ha cominciato una nuova operazione nel nord della Striscia di Gaza il 5 ottobre 2024, centinaia di persone sono state uccise e circa 50mila sono state costrette a fuggire. I tre ospedali ancora operativi in quella parte del territorio palestinese sono sull’orlo del collasso, così come gli edifici che ospitano gli sfollati, ha denunciato B’Tselem il 22 ottobre. Secondo l’ong israeliana “è impossibile descrivere l’entità dei crimini che Israele sta attualmente commettendo nel nord della Striscia di Gaza per svuotarla di tutti i residenti rimasti. Va oltre ogni comprensione il fatto che centinaia di migliaia di persone sopportino la fame, la mancanza di cure mediche, bombardamenti e spari incessanti, e che Israele le abbia isolate dal mondo”.

La zona è sottoposta a un assedio quasi totale e bombardata senza sosta. A parte casi eccezionali, Israele non consente l’ingresso di aiuti umanitari o di squadre d’emergenza, “approfittando del fatto che l’attenzione internazionale” è concentrata altrove “per cambiare irreversibilmente la realtà sul terreno”, come scrive B’Tselem.

Secondo i soccorritori, in tre settimane i bombardamenti israeliani hanno ucciso almeno 77o persone. Il 29 ottobre la difesa civile di Gaza ha affermato che almeno 93 persone sono morte nella notte in un bombardamento israeliano a Beit Lahia, nel nord del territorio. Nella città di Gaza e nei suoi dintorni sono rimasti circa 400mila abitanti, che secondo l’Organizzazione mondiale della sanità vivono in condizioni “catastrofiche”.


Per il ventinovenne Assaf (nome di fantasia), che ha prestato servizio nella 16ª brigata fanteria, il punto di non ritorno è già stato superato. Ha combattuto a Gaza per due mesi all’inizio della guerra, e a marzo è stato richiamato per andare in Cisgiordania, dove aveva già trascorso il suo periodo di leva. Alla fine di questo secondo incarico, che lo ha segnato emotivamente, ha deciso di non rientrare come riservista.

“Dopo Gaza e tanti sacrifici, non solo nostri ma anche di famiglie e colleghi, siamo di nuovo in una situazione che dura da quando ho memoria. Ci dicono: ‘Devi fare questo, adesso; è una schifezza, è illogico, è sbagliato, ma va fatto’. È la stessa routine di emergenza da cinquant’anni. Non sono più disposto a saltare a bordo appena l’esercito decide che è necessario, indossare l’uniforme, presidiare una postazione e ubbidire agli ordini”.

Molti commilitoni di Assaf sono morti di recente, nei combattimenti ai quali lui ha rifiutato di partecipare. Questo è un altro dei motivi che contribuisce al suo senso di inutilità rispetto a questa guerra sempre più lunga e che secondo lui provano anche i compagni.

Parlare di politica

Yariv (altro nome di fantasia), quarantenne, sposato, con figli, ha prestato servizio regolare in un’unità di commando nel corso della seconda intifada e non aveva mai pensato che un giorno avrebbe rifiutato di arruolarsi. “Parte della mia identità consiste nell’essere un soldato. Io sono un soldato, un padre, un sionista, un uomo di sinistra”, dice. “Ho sempre prestato servizio da riservista”. Quando lo scorso anno il colpo di stato giudiziario era in pieno svolgimento, Yariv ha smesso di andare volontario. Ma il 7 ottobre, racconta, ha sentito “una forte necessità di tornare a essere un soldato”, e ha indossato la vecchia uniforme.

È stato dispiegato sul corridoio Netzarim. “La situazione per noi era abbastanza calma. Qualche mortaio, qualche pattuglia presa di mira, ma non credo di aver dato un contributo significativo”, dice. “Però ho visto l’esercito radicalizzarsi. Il numero di persone con le toppe con su scritto ‘Messia’ o ‘Grande Israele’ fino al Tigri e all’Eufrate è assurdo, e nessuno dice niente. Quando ho cominciato a protestare, mi hanno detto di smetterla di parlare di politica. Ho risposto: ‘Questa è politica, voi state facendo politica. Fate come volete, e io metterò sulla divisa una toppa con la scritta ‘Peace now’ e ‘Due stati per due popoli’. Questo ha irritato molte persone”.

Dopo il periodo trascorso a Gaza, Yariv è stato richiamato a prestare servizio in Cisgiordania, ma si è rifiutato. Tuttavia, se sarà chiamato in Libano, pensa di andarci. Tornerebbe anche a Gaza, se necessario, nonostante tutte le difficoltà e i sentimenti contrastanti.

“Mia moglie mi ha detto ‘Se muori, scriverò idiota sulla tua lapide’”, racconta. “Se sono lì so che la mia presenza protegge il popolo di Israele. Ma allo stesso tempo, mette a rischio gli ostaggi e incoraggia l’occupazione di Gaza e la creazione di colonie. È quello che sta accadendo. È chiaro che gli avamposti possono gradualmente diventare insediamenti. Sono uno dopo l’altro, a cinquecento metri di distanza tra loro. Stanno creando un corridoio ampio. Il senso di sicurezza è importante, certo, ma tra questo e gli insediamenti il passo è breve”.

In risposta a queste posizioni il portavoce dell’esercito ha dichiarato: “La presenza di riservisti è importante per realizzare le missioni dell’esercito. Dallo scoppio della guerra i riservisti si sono presentati in servizio e continuano a farlo per proteggere la sicurezza dello stato di Israele. Per quanto riguarda la lettera, l’esercito considera ogni appello al rifiuto del servizio con la massima serietà. Ogni caso sarà esaminato”. L’esercito non ha voluto commentare la vicenda della rimozione di Max Kresch dalla sua unità a causa delle sue opinioni. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1587 di Internazionale, a pagina 19. Compra questo numero | Abbonati