Le sue immagini sono la cronaca di un tempo disseminato di caos, terrore e morte. Il riflesso dell’orrore e la tragedia di una delle fasi più sanguinose nella storia di cosa nostra. Letizia Battaglia, con le sue fotografie in bianco e nero, è stata l’occhio di quegli anni violenti in una Sicilia tanto crudele quanto splendida, antica e misteriosa. La fotografa è morta il 13 aprile a Palermo, a 87 anni. “Era un simbolo internazionalmente riconosciuto nel mondo dell’arte, una bandiera nel cammino di liberazione di Palermo dal governo della mafia”, ha detto il sindaco del capoluogo siciliano Leoluca Orlando.
Battaglia è stata la prima donna a lavorare come fotografa per un giornale italiano. Ha scattato la prima fotografia di un morto nel 1974, pochi giorni dopo essere entrata a lavorare al quotidiano di Palermo L’Ora. “Il primo omicidio ti rimane in testa. Quando ci dissero: ‘Correte, c’è un omicidio nella campagna’, cominciai a tremare. Un morto, lì da qualche giorno. Un odore terribile. C’era un ulivo che si muoveva con il vento e portava in giro questo odore. Pensavo che si potesse muovere da un momento all’altro e invece non si muoveva più. Così cominciò una storia durata diciannove anni”, racconta l’artista nel documentario Shooting the mafia, diretto dalla britannica Kim Longinotto. Da quel giorno Battaglia ha passato le giornate incollata alle frequenze radio della polizia, per essere sempre la prima ad arrivare sul posto. I suoi scatti superano i limiti delle fotografie di cronaca nera e diventano un viaggio simile a quello della letteratura naturalista nei bassifondi di una terra massacrata dall’indifferenza di uno stato assente per decenni.
Storie di strada
I suoi ritratti della quotidianità immortalano l’idiosincrasia e l’asprezza dei palermitani, le loro feste, le loro tradizioni e la povertà che ha soffocato la città per tanto tempo. La morte e la vita a Palermo hanno attraversato l’obiettivo di Battaglia. Nelle sue immagini di strada ci sono persone comuni, prostitute, bambini che giocano con pistole nel giorno dei morti, spacciatori, transessuali ed emarginati, ma anche i clamorosi arresti dei boss e i cadaveri delle vittime. Sono ritratti che mettono l’accento su chi subisce l’omertà e sulla povertà e l’emarginazione causate dalla mafia e dalla corruzione.
La critica ha evidenziato la sua capacità di cogliere il dramma e il dolore, sempre con rispetto, senza mai cadere nei luoghi comuni ed evitando la spettacolarizzazione. Una delle sue foto più rappresentative mostra Sergio Mattarella, attuale presidente della repubblica italiana, mentre tira fuori da una macchina il corpo del fratello Piersanti, ucciso da cosa nostra quando era presidente della regione siciliana, nel 1980.
Con le sue fotografie Battaglia ha affrontato i mafiosi con dignità e coraggio. Come con la foto che mostra la furia del boss mafioso Leoluca Bagarella durante l’arresto nel 1979. Era così vicina con la macchina fotografica che Bagarella riuscì a darle un calcio e farla cadere per terra. Ai funerali dei boss di cosa nostra tossiva per evitare che si sentisse il clic dei suoi scatti. Battaglia ha lottato contro la mafia anche fuori dalla redazione del quotidiano per cui ha lavorato almeno fino al 1992, anno in cui furono uccisi i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, una delle pagine più drammatiche della storia italiana recente e fonte di grande commozione nel paese. Come ha spiegato lei stessa, era stanca della violenza e ha interrotto la carriera di fotoreporter per concentrarsi su altre attività di denuncia e divulgazione. Nel 2017 ha contribuito a creare il Centro internazionale di fotografia di Palermo, un archivio storico che raccoglie gli scatti di quasi centocinquanta fotografi (professionisti e amatoriali) per far conoscere al pubblico il loro modo di vedere la città.
Volevano un sud povero
“Com’è possibile che mentre a Palermo ci ammazzavano lo stato non ci aiutava? Com’è possibile che uno stato con tre corpi di polizia non riuscisse a catturare i quattro boss che c’erano negli anni cinquanta? Un governo non lo avrebbe mai accettato se non fosse stato nel suo interesse. Volevano avere un sud povero e ignorante che votasse per i partiti di governo. La mafia costringe i poveri a votare per questi politici”, spiegava in un’intervista. È stata molto più che la “fotografa della mafia”, com’è stata definita, o la “fotografa contro la mafia”, come preferiva essere chiamata. Nel 1980 la sua foto della bambina con il pallone, scattata nel quartiere palermitano della Cala ha fatto il giro del mondo. Nel 1985 è stata la prima donna europea a ricevere, insieme alla statunitense Donna Ferrato, il premio Eugene Smith a New York, in memoria del fotografo della rivista Life.
Battaglia raccontava che i suoi soggetti preferiti erano le donne e le bambine, specialmente quelle povere, con cui condivideva un sentimento di complicità: “Le protagoniste assolute delle mie foto sono le donne”. In varie occasioni Battaglia ha raccontato che fin da ragazza ha sentito la necessità di emanciparsi dai limiti imposti alle donne. Alla ricerca di questa indipendenza e in fuga dalla repressione di una società patriarcale, si è sposata molto giovane e si è separata dal marito che non la lasciava studiare, in un’epoca in cui il divorzio era ancora vissuto come uno scandalo. Sempre combattiva, Battaglia raccontava di non essersi mai piegata “né davanti alla prepotenza né davanti all’ingiustizia”. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1457 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati