Durante il lungo lockdown di Melbourne, ero diventata dipendente da un’app che trasmette in diretta la vista dalla finestra di qualcuno in qualche parte del mondo. Adoravo la massa cerulea del mar Egeo o le foglie color ruggine di un pendio montano in Corea del Sud. Un giorno, mi sono trovata di fronte a un tramonto filmato da una zona residenziale sul lungomare dell’isola di Aberdeen, a Hong Kong. Sentivo il mormorio confortante del cantonese, il divampare di una fiamma del gas, lo sfrigolio di una frittura. Non riuscivo a chiudere quella finestra. L’ho lasciata aperta, guardando gli uccelli che passavano in volo e il cielo che trascolorava dal rosa al grigio al nero. Era un portale sul passato, su una casa dove non potevo più tornare.
Dopo la fine del lockdown, un cinema di Melbourne ha proiettato una serie di film del regista Wong Kar-wai. Ci sono andata, tutte le sere. Quasi immediatamente mi sono accorta che riuscivo a individuare tra il pubblico gli spettatori di Hong Kong. Spesso, come me, arrivavano da soli. Sceglievano posti leggermente appartati. Una volta cominciato il film, li sentivi piangere sommessamente nell’oscurità della sala, rimpiangendo la città perduta.
Una sera, la curatrice della serie, Kristy Matheson, ha fatto una breve presentazione di Happy together. Girato a Buenos Aires e uscito nel 1997, l’anno del ritorno di Hong Kong alla Cina, racconta la storia di un tormentato rapporto gay che allora molti lessero come un’allegoria del rapporto della città con Pechino. La coppia vive in esilio in una sorta di limbo fluttuante, senza rituali familiari o momenti significativi che segnino il passaggio del tempo. Matheson ha concluso con una citazione di Wong che descriveva lo stato d’animo prima del 1997: “Volevamo fuggire, ma più volevamo fuggire più diventavamo inseparabili da Hong Kong. Ovunque andassimo, era sempre con noi”.
È una condizione che i nuovi esuli di Hong Kong conoscono bene. I 7,4 milioni di abitanti della città stanno diminuendo rapidamente. Alcuni residenti hanno talmente fretta di partire che abbandonano le loro lussuose automobili nei parcheggi. Dalla fine del 2021 sono partite quasi 150mila persone, oltre 50mila solo nella prima metà di marzo. Secondo una ricerca, quasi il 25 per cento degli abitanti della città progetta di fare come loro.
Un motivo importante sono le draconiane normative contro il covid-19. Ma la causa principale rimane il clima politico all’indomani delle grandi proteste del 2019. Nel giugno 2020 Pechino ha imposto a Hong Kong una legge sulla sicurezza nazionale che punisce gli atti di secessione, sovversione, terrorismo e collusione con potenze straniere. La definizione di questi reati è così vaga che, a quanto sembra, sono attività sediziose applaudire durante un’udienza in tribunale o criticare la risposta del governo al covid sui social network, oppure indossare una maglietta o possedere adesivi con lo slogan, popolare durante le manifestazioni, “Liberare Hong Kong, la rivoluzione dei nostri tempi”.
La cosiddetta legge sulla sicurezza nazionale finora ha permesso l’arresto di 183 persone, in un terzo dei casi per reati di parola. Organizzazioni della società civile sono state costrette a sciogliersi.
In seguito all’arresto per sovversione di 47 attivisti politici che avevano tenuto un sondaggio elettorale, la vitale assemblea legislativa della città è stata trasformata in un irriconoscibile organismo di soli patrioti. Dal momento che la legge sulla sicurezza nazionale è di natura extraterritoriale, la sua potenziale minaccia si estende ben oltre le frontiere di Hong Kong.
Quando hanno annunciato la norma, ero immersa in una videochiamata su Zoom con il mio gruppo di studio. Siamo un piccolo collettivo di dottorandi di Hong Kong che vivono a Melbourne e le nostre ricerche riguardano l’identità di Hong Kong. Durante il lockdown ci riunivamo una volta alla settimana su Zoom per leggere e discutere articoli accademici. Ma dopo l’annuncio della nuova legge abbiamo smesso di riunirci e leggere articoli.
Il nostro lavoro a un tratto sembrava insignificante. Dopo tutto, come si può studiare un tema se solo parlarne potrebbe essere un reato? Era difficile capire cosa avrebbe comportato per noi la nuova legge, ma era chiaro che non c’era da aspettarsi niente di buono. In quella situazione era difficile perfino concentrarsi, e uno alla volta i miei amici hanno cominciato a chiedere dei permessi per assentarsi dagli studi. I loro genitori telefonavano per dirgli di non tornare a casa.
Malgrado la mia precedente vita come giornalista in Cina per la Bbc e la radio pubblica statunitense Npr – costretta a destreggiarmi ogni giorno tra le mutevoli suscettibilità politiche di Pechino – non avevo consigli utili da dare ai miei compagni. L’imprevedibilità della legge sulla sicurezza nazionale di Hong Kong fa sì che le linee rosse siano in costante movimento, dilatandosi in un mare che ingoia un elenco sempre più lungo di attività. Per certi aspetti sono un’intrusa: non sono nata a Hong Kong, anche se ci sono cresciuta negli anni settanta e ottanta con un padre cinese e una madre inglese. Eppure condividevo le paure degli altri dottorandi, al tempo stesso generiche e specifiche.
Oltre a preoccuparci perché le nostre ricerche potevano essere contro la nuova norma, vivevamo nell’ansia di mettere involontariamente in pericolo i nostri compagni. Avevamo paura per il futuro del lavoro che stavamo facendo. Ma non c’era modo di avere delle risposte. Sul rispetto della nuova legge vigilava un organismo orwelliano, l’Ufficio per la salvaguardia della sicurezza nazionale del governo centrale del popolo nella regione amministrativa speciale di Hong Kong, che era improvvisamente spuntato nel cuore della notte una settimana dopo la promulgazione, requisendo un albergo per le sue esigenze.
Dalla fine del 2021 sono partite da Hong Kong quasi 150mila persone. Secondo una ricerca, quasi il 25 per cento degli abitanti della città progetta di fare come loro
È sembrato subito evidente che i contorni della legge si sarebbero precisati solo dopo la loro violazione, e che il silenzio era l’unica garanzia per rimanere al sicuro. Cercando di chiarire meglio i pericoli impliciti nel discutere di Hong Kong all’estero, mi sono rivolta a Eric Yan-ho Lai, esperto di diritto di Hong Kong alla Georgetown University, negli Stati Uniti. Sono rimasta colpita dall’attenzione con cui ha soppesato le parole quando mi ha detto: “Se non siete in patria e vivete in un paese che non ha un accordo di estradizione con Hong Kong o con la Cina, potete ancora godere di un certo grado di libertà nell’esprimervi o nel discutere. Il pericolo o il rischio sarebbe quello di essere sorvegliati da parte delle ambasciate cinesi o dei loro agenti”.
Quella della sorveglianza da parte di agenti cinesi è una paura concreta per gli studenti di Hong Kong, che in Australia non sono mai stati così numerosi grazie alla decisione del governo di Canberra di aprire nuove vie per garantirgli la residenza permanente dopo l’annuncio della legge sulla sicurezza nazionale. Nelle università australiane gli studenti di Hong Kong, quando nel 2019 la loro città era scossa dalle proteste, si erano scontrati varie volte con i colleghi della Cina continentale. Uno di loro mi ha detto che non parla mai della situazione politica di Hong Kong finché non conosce l’opinione di tutti i presenti: “Abbiamo paura di dire qualcosa di sgradito al governo, perché poi potrebbero minacciare i nostri genitori, amici e parenti”.
Per mesi il mio gruppetto si è parlato a malapena. Ma quando Melbourne finalmente è emersa dal lockdown ci siamo riuniti in un parco, strizzando gli occhi per la luce del sole a cui non eravamo più abituati e mangiando fette di mango dolci e appiccicose. Quando hanno riaperto i ristoranti, ci siamo divisi grossi piatti di ravioloni fumanti. Non parlavamo della nostra ricerca. A Natale abbiamo ascoltato musica pop cantonese immergendo radici di loto e polpette di pesce nell’hot pot bollente. A metà della cena qualcuno ci ha portato dei waffle con bolle caldi, e ce li siamo passati a vicenda come un sacramento, spezzando con cura qualche bolla per gustare insieme il sapore di casa. Lentamente, dolorosamente, facevamo tornare in vita con la fantasia la nostra piccola Hong Kong.
Altri nuovi arrivati stanno facendo le nostre stesse cose. Poco prima del capodanno lunare sono andata a un mercato temporaneo di Hong Kong in uno spazio con il tetto a cupola che nell’ottocento ospitava il mercato della carne a Melbourne. Aziende gestite da hongkonghesi pubblicizzavano i loro servizi di giardinaggio, lunghe file aspettavano di comprare polpette di pesce al curry, e c’era un banco di libri che vendeva Il potere dei senza potere di Václav Havel insieme a una biografia di Li Ka-shing, il milionario che, durante le proteste, stampava sulle prime pagine dei giornali annunci criptici che venivano interpretati come critiche in codice alla strategia di Pechino su Hong Kong.
Dietro il mercato c’era un “muro di John Lennon”, a imitazione dei muri spuntati durante le manifestazioni del 2019. Come gli originali, aveva file di bigliettini con frasi vietate tipo “Liberare Hong Kong, la rivoluzione dei nostri tempi”. Ma a catturare la mia attenzione è stato un biglietto arancione con uno schizzo appena accennato del profilo della città sotto le parole inglesi I miss Home Kong.
A un banco che vendeva versi per il nuovo anno da incollare alle cornici delle porte – per esempio “Sposa la libertà” e “Persevera in quello che credi” – ho incontrato una donna che ha detto di chiamarsi Pearl. Mi ha spiegato che si sentiva in dovere di prendere la parola per conto delle persone di Hong Kong imbavagliate dalla nuova legge. Questa franchezza aveva un prezzo, mi ha detto, che aveva deciso di pagare: “Ho una famiglia a Hong Kong. So bene che non potrò tornarci”.
Questi calcoli impossibili – mettere su un piatto della bilancia casa e famiglia e sull’altro la libertà di parola – sono stati imposti a molti hongkonghesi, tra cui l’esponente politico in esilio Ted Hui Chi-fung, ex deputato del Partito democratico, appartenente allo schieramento pandemocratico che aveva ottenuto una vittoria schiacciante nelle elezioni distrettuali del 2019, le ultime prima che la legge sulla sicurezza nazionale modificasse il sistema elettorale.
Hui era a Melbourne per inaugurare il mercato temporaneo. “Sono uno dei pochi che può parlare”, mi ha detto alludendo alle decine di suoi colleghi in carcere in attesa di processo con l’accusa di sovversione. “È per questo che a volte mi costringo a espormi”. Quando è fuggito da Hong Kong, nel 2020, rischiava di essere incriminato per almeno nove reati. Anche due politici danesi che lo hanno aiutato a partire rischiano di essere perseguiti dalle autorità cinesi, sebbene all’epoca si trovassero in Danimarca. I beni di Hui, di sua moglie e dei suoi genitori sono stati congelati dalle autorità. “Ho la sensazione che la libertà di cui godo finché sono all’estero sia solo un prestito”, mi ha confidato.
Quando era bambino la parola “hongkonghese” era quasi sconosciuta. È un’identità che si è solidificata grazie al movimento di protesta. “Ogni slogan cominciava con Hong Kong”, mi ha detto. “Noi sappiamo di essere diversi. Sappiamo di dover essere liberi perché siamo stati liberi. Sappiamo che avevamo poco spazio per la libertà, e dobbiamo resistere e lottare per mantenerlo”. Ora teme che “hongkonghese” diventi un termine vietato. Ma è persuaso che le comunità in esilio non si faranno intimidire. “Più viene perseguitata, più la gente avrà a cuore quell’identità”, ha affermato con decisione. “Se non se ne può parlare a Hong Kong, ne parleremo all’estero”.
Non ero certa che questo sarebbe stato vero nella nascente comunità australiana di Hong Kong, che è ancora tormentata dall’insicurezza. Una cartina di tornasole è stata la decisione presa da alcuni gruppi della comunità di presentare Revolution of our times, un film sul movimento di protesta del regista hongkonghese Kiwi Chow, che ha vinto diversi premi. A Hong Kong il documentario è stato vietato, e questo significa che guardarlo è già un atto di resistenza. Il giorno in cui i biglietti sono stati messi in vendita online in Australia, la domanda è stata così alta che il sito si è bloccato. Quando ha ripreso a funzionare, in un solo weekend sono stati venduti 6.700 biglietti.
Il mio piccolo gruppo è riuscito a comprarli. Ci siamo visti in anticipo per cenare insieme in un ristorante cantonese, cercando la consolante untuosità della pancetta di maiale arrosto. Davanti ai noodles all’uovo punteggiati di tartufi neri e a un tegame di coccio pieno di pesce salato, tofu e pollo, abbiamo parlato di come procedevano i nostri dottorati. Ci stavamo tutti finalmente avvicinando al traguardo, ma a ciascuno di noi era stato consigliato di non pubblicare la tesi per proteggere la sicurezza dei nostri informatori. Quando avevamo avviato i nostri progetti, le istituzioni li avevano classificati a basso rischio. Ora il rischio era così alto che i lavori xa cui avevamo dedicato anni non sarebbero stati accessibili a tutti. Perfino parlare ai convegni sembrava pericoloso: come avremmo potuto sapere chi ci stava ascoltando?
Alcuni di noi avevano appena assistito a una conferenza sullo sviluppo dell’identità di Hong Kong tenuta via Zoom da un noto antropologo. A un certo punto, l’oratore aveva divagato facendo commenti generici che dipingevano come inevitabile la legge sulla sicurezza nazionale. “Il passaggio alla Cina è a metà strada, perciò è semplicemente naturale che succeda quello che sta succedendo”, aveva detto con indifferenza, alludendo all’impegno di Pechino di lasciare immutata Hong Kong fino al 2047.
Non ero d’accordo con i suoi commenti, ma non avevo preso la parola. Invece avevo controllato i nomi delle persone collegate a Zoom. Ce n’erano molti che non conoscevo. Così, invece di intervenire, mi ero limitata a lasciare la conferenza. Era stata una reazione istintiva, anche se poi mi sono vergognata della mia vigliacca complicità nell’imbavagliare il dibattito. Se gli studi su Hong Kong stavano diventando clandestini, la responsabilità era in parte anche mia. Durante la cena ho scoperto che due miei amici avevano fatto esattamente la stessa cosa. Se lo scopo della legge era ottenere il silenzio, noi ci stavamo allineando.
Ci siamo diretti verso il cinema avviliti. Ma il nostro stato d’animo è cambiato quando ci siamo avvicinati e abbiamo notato il flusso di hongkonghesi che camminavano nella stessa direzione. L’atrio era pieno di giovani volontari entusiasti. Avevano allestito una mostra di foto di protesta davanti all’ingresso e tutti postavano le immagini sui social network. Quando ci siamo seduti, la mia amica ha tirato fuori dalla borsa un pacchetto di fazzolettini. In quello stesso momento, una donna nella fila davanti a noi ha fatto altrettanto. Ne avremmo avuto bisogno.
Per le successive due ore e mezzo, abbiamo guardato scene di violenza sconvolgente, con la polizia che picchiava i manifestanti e lanciava lacrimogeni, trascinando i giovani sulla strada. Queste scene mi hanno tolto il fiato, ma non mi hanno fatto piangere. Piuttosto, a farmi venire le lacrime agli occhi sono stati i momenti di solidarietà; un vecchio affranto perché non poteva più proteggere i giovani dimostranti; un medico che implorava la polizia di poter curare i feriti.
Sono state queste immagini a ricordarmi quanto avevamo perso. Le leggi che sono arrivate dopo le proteste erano state concepite per distruggere ogni senso di comunità. Dovevano atomizzare i legami che ci rendevano pronti a rischiare la nostra vita per dei perfetti sconosciuti.
Quando Revolution of our times è finito, il pubblico è rimasto in silenzio, attonito. Poi un uomo davanti a me ha rotto il silenzio: “Heung gong yan!” (hongkonghesi!) Altri hanno gridato il ritornello del vecchio slogan di protesta: “Gaa yau!” (aggiungi benzina!). Quando mi sono alzata per andarmene, ho provato un senso di oppressione al petto, come se stesse per venirmi un attacco di asma. Ho detto ai miei compagni che faticavo a respirare. “Io lo sento nello stomaco”, ha detto un amico. “È un macigno”. Un’altra si è indicata la gola: “Io lo sento qui. Sempre”. Ora stavamo davvero portando Hong Kong con noi. Eravamo finalmente diventati inseparabili. ◆ gc
Louisa Lim
è una giornalista di Hong Kong. Questo articolo è uscito sul Financial Times con il titolo Hong Kong, my vanishing city.
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Questo articolo è uscito sul numero 1463 di Internazionale, a pagina 104. Compra questo numero | Abbonati