Il festival del cinema documentario ha inaugurato la sua 44a edizione in un clima da insurrezione, mentre il paese era in sciopero e il centro di Parigi era animato da proteste spontanee con i manifestanti inseguiti dalle pattuglie della Brav-M, i reparti di polizia in motocicletta.

Un cinema all’altezza della situazione sarebbe forse in grado di adattare questa atmosfera ai propri ritmi, restituendo un po’ di lentezza a tutta questa velocità o al contrario aumentandola, a seconda delle esigenze. Ma sempre di più la realtà supera la realtà, tanto che un passante ha detto che quest’anno il primo premio del Cinéma du réel avrebbe dovuto essere attribuito alla registrazione di quello che è successo a Sainte-Soline, dove ci sono stati gravi incidenti tra i poliziottti e i manifestanti. In un audio di quattro minuti si sente un dipendente del pronto soccorso dichiarare di non essere autorizzato ad andare a soccorrere un manifestante in gravi condizioni (“Non possiamo mandare un elicottero o un’ambulanza sul posto perché abbiamo ricevuto l’ordine dalla polizia di non farlo”).

Sulle rive

Insomma un secondo di audio gracchiante, per quanto sia breve, può tranquillamente mettere in crisi la realtà che viviamo. Quindi, datemi retta, ascoltate con gli occhi: i film, quando sono all’altezza delle situazioni che descrivono, riescono ancora a catturare tutto il rumore del loro tempo.

Diviso in tre parti, per circa dieci ore di proiezione (anche se la durata non implica qualcosa di monumentale nella forma) il Voyage au lac di Emmanuelle Démoris, che arriva dopo il notevolissimo Mafrouza (2007-2010), passa dai sobborghi di Alessandria alle rive del lago di Bolsena, nell’Italia centrale. Un viaggio percorso con una macchina da presa mobile e loquace, per descrivere i rapporti, gli incontri, le situazioni, e per raccontare il senso di comunità che lega le persone e la loro capacità di accogliere gli altri. Quello che Voyage produce è una sorta di etnografia senza una tesi da portare avanti, fatta con la pazienza, condividendo con la regista il piacere di andare in giro, di parlare, di lavorare, di stare insieme. Questa è la sua sola politica.

Eventide di Sharon Lockhart, in una sequenza unica girata su una grande spiaggia dove delle figure munite di torce si mettono a esplorare il suolo in una notte che si fa sempre più scura sotto le stelle cadenti, racconta un’altra riva, un’altra necessità di comunione. Attenta analisi delle incertezze tra i movimenti e le rivoluzioni della terra e del mare, il film è un quadro mobile, a metà strada tra il mondo fisico e quello metaforico.

Scopriamo così che il cinema della realtà cerca di (o serve a) descrivere le relazioni tra il piccolo e il grande, definire i loro limiti, articolare le storie con la storia, le escursioni con la geografia, i movimenti del corpo con i sentimenti delle folle o con i pensieri del mondo.

Allensworth di James Benning (Cinéma du réel)

Ed è quello che Coconut head generation di Alain Kassanda testimonia direttamente, visto che mostra gli incontri settimanali del cineclub dell’università di Ibadan, in Nigeria, vero e proprio spazio di discussione politica, che può diventare una base per i movimenti di contestazione studentesca.

Questo film dovrebbe essere proiettato in tutti i cineclub del mondo per ricordare che ogni gruppo che si riunisce per parlare di un film si ritrova ben presto a discutere della realtà, e a criticarla per trasformarla.

El juicio di Ulises de la Orden ricostituisce un altro spazio in cui la realtà si dispiega attraverso la parola. È montato sulla base delle testimonianze video del primo processo, nel 1985, alla giunta argentina dopo la fine della dittatura militare (1976-1983), per tracciare il suo svolgimento, le prove e le testimonianze sui soprusi e sulle trentamila persone scomparse. E per ricordarci il livello di rifiuto, di arroganza, di menzogna e di aggressività mostrato dagli imputati (in primo luogo Jorge Rafael Videla, Emilio Eduardo Massera e Orlando Ramón Agosti) e dai loro assurdi avvocati difensori.

Il regista attinge alla registrazione integrale del processo (materiale incredibilmente denso) per darci un riassunto di tre ore molto interessante. La scelta del montaggio – accelerare il tempo avanzando per piccoli frammenti, cercare di dire tutto ricorrendo alla contrazione – forse non rende del tutto giustizia alla necessità di sentire i fatti e di capire le motivazioni giuridiche (e quindi politiche: come uscire dal fascismo attraverso la legge, come tornare alla distinzione tra legalità e illegalità dopo la sua distruzione deliberata e perversa da parte dello stato?) di un processo fuori dal comune.

Per completare il quadro di una realtà così ricca, ricordiamo anche il bellissimo Adieu sauvage di Sergio Guataquira Sarmiento, dove il giovane regista parte alla ricerca di se stesso e finisce per ritrovare qualcun altro nell’Amazzonia colombiana; Otro sol di Francisco Rodríguez Teare, fantasia cilena dove l’hybris (e il crimine) è molto presente, producendo della fiction e del mito attraverso tutti gli strumenti di contrabbando disponibili al documentario; e infine Allensworth, del grande ed essenziale James Benning, omaggio all’omonima città-museo per raccontare la storia di tutto ciò che resiste ancora nell’America nera.

Padre e figlio

Accanto a queste opere ci sono poi le retrospettive dei bravissimi Olivier Zabat, Franssou Prenant e di Jean-Pierre Gorin, che nel fine settimana ha fatto il punto sul gruppo Dziga Vertov, fondato insieme a Jean-Luc Godard nel 1968 per produrre film impegnati.

Ma il documentario che è rimasto più impresso nei nostri occhi e nelle nostre orecchie è probabilmente Un café allongé à dormir debout di Philippe de Jonckheere, ritratto del figlio autistico e autoritratto di padre, entrambi persi e ognuno con le sue difficoltà ma uniti, attraverso la macchina da presa, davanti al mondo, i suoi ospedali, i suoi fiumi, i suoi rumori strani, confusi e importanti. Con le sue velocità e le sue lentezze, Un café ricorda Beckett ma è reale ed è un film che, proprio come una persona, al tempo stesso non ha bisogno di nessuno e ha bisogno di tutti. ◆ adr

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Questo articolo è uscito sul numero 1506 di Internazionale, a pagina 85. Compra questo numero | Abbonati