Non era un incubo, era reale. La guerra era tornata, così, da un momento all’altro, senza preavviso. L’orologio segnava le 2.20 quando ci siamo svegliati in preda al terrore per il suono assordante degli attacchi aerei. Tutto tremava intorno a noi. Mia figlia gridava: “Papà! Mamma! Che succede?”. La mia mente era nel caos. Era di nuovo un bombardamento? Le esplosioni si sono intensificate, e il suono era inconfondibile, lo conosciamo troppo bene: gli attacchi aerei israeliani su Gaza.
|
|
Podcast | |
Questo articolo si può ascoltare nel podcast di Internazionale A voce.
È disponibile ogni venerdì nell’app di Internazionale e su internazionale.it/podcast
|
|
Mi sono precipitata a prendere il telefono, scorrendo i gruppi di giornalisti locali. Dopo alcuni minuti sono cominciate ad arrivare le notizie: una casa colpita a Deir el Balah, un’altra a Nuseirat. Ad Al Mawasi, nella zona di Khan Yunis, sono state bombardate le tende delle famiglie sfollate, Rafah è stata bersagliata dall’artiglieria. A Jabalia, nel nord, è stato centrato un intero edificio residenziale. Sul centro di Gaza è stata scatenata una “cintura di fuoco”. Poi sono cominciate le richieste di aiuto disperate: “Una famiglia è intrappolata sotto le macerie”. “Un isolato residenziale è stato raso al suolo”. “Ci servono ambulanze”. È arrivata anche una valanga di foto e video: corpi smembrati, morti, feriti che hanno riempito tutte le strutture sanitarie funzionanti della Striscia. Scene che a stento avevamo cominciato a dimenticare sono tornate. Dopo poco Israele ha annunciato di aver annullato il cessate il fuoco e di aver ripreso la guerra a Gaza. È stato come un colpo in testa. “Cosa significa?”, ha gridato mia sorella. “No, Dio, basta! Non vogliamo di nuovo la guerra”. Ci siamo messi a fissare i notiziari. Le stesse immagini, lo stesso dolore, lo stesso incubo. La guerra stava ricominciando esattamente da dove si era interrotta.
Ci siamo chiesti: “Chiuderanno di nuovo la strada tra nord e sud?”. Eravamo intrappolati. La notte prima avevo invitato mio padre e le mie sorelle gemelle di vent’anni per un iftar, il pasto che rompe il digiuno durante il Ramadan a casa nostra vicino Deir el Balah, nel centro di Gaza. Sono rimasti per la notte, con l’intenzione di andare tutti a nord l’indomani. Avevamo in programma alcune visite e dei giri per comprare i vestiti per i bambini in vista dell’estate. Ora quei “piani” non avevano più significato. Fare progetti è diventato un crimine in questo posto. Pianificare la giornata è un lusso imperdonabile. Si è condannati a vivere in un costante stato di allerta, ogni secondo, ogni minuto, ogni ora, ogni giorno, ogni anno.
Domande senza risposta
Come sarà la prossima fase della guerra? Comincerà nel nord? O invaderanno il centro? La mia mente girava vorticosamente, saltando da un pensiero all’altro: avremmo dovuto di nuovo indossare i nostri giubbotti protettivi da giornalisti? Saremmo dovuti tornare a lavorare dagli ospedali? E cosa faremo con la scuola di Bania? L’avevo appena iscritta. Di sicuro non ci saranno più lezioni.
Quando è cominciato il cessate il fuoco abbiamo provato un certo sollievo, ma senza mai sentirci al sicuro. Paura, esitazione e confusione ci sono rimaste attaccate addosso. Due giorni prima io e mio marito eravamo andati a fare acquisti per la prima volta, avevo osato comprare un tappeto, un tavolo e delle sedie, piatti e cucchiai. Da quando ci eravamo trasferiti avevamo solo quattro materassi, quattro coperte, quattro piatti, quattro cucchiai e un pentolino. Durante la guerra ci siamo rifiutati di procurarci altre cose. I nostri vestiti erano accumulati su un lenzuolo steso sul pavimento, che scherzosamente chiamavamo “la cabina armadio”. Un vero armadio sarebbe stato un grande lusso e inoltre non eravamo sicuri se restare nel sud o spostarci a nord. Abbiamo sempre preferito restare leggeri, pronti a fuggire in ogni momento. Ma proprio il giorno prima dell’attacco israeliano avevo detto a mio marito: “Compriamo un armadio”.
Ho avuto la mia risposta. Niente armadio, ad aspettarci c’è solo il caos. Il caos dei miei pensieri, dei miei progetti in frantumi, di una vita che non posso più controllare, per quanto mi sforzi. Come se la distruzione e la rovina intorno a noi non fossero abbastanza, sappiamo che non possiamo più sognare, fare progetti, desiderare qualcosa, non possiamo sperare in niente. L’unica cosa che vogliamo è sopravvivere. ◆ fdl
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1606 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati