“Cannoni!”, rispose con un ruggito la folla entusiasta a Benito Mussolini. Il dittatore aveva chiesto: “Tra l’alternativa assolutamente ridicola: burro o cannoni, noi cosa abbiamo scelto?”. Era il 24 settembre 1938 e negli anni successivi gli italiani avrebbero vissuto sulla propria pelle cosa comportava l’aver scartato quell’“alternativa assolutamente ridicola”: rovina, massacri, desolazione (d’altronde è questo che fanno i cannoni). Oggi neanche Vladimir Putin si sognerebbe di chiedere a una folla di russi se preferiscono burro o missili. Ma neanche un qualunque leader occidentale correrebbe mai il rischio di consultare i propri cittadini su quest’alternativa. Scegliere missili, cannoni, droni e tanto altro prodotto dall’industria militare è scontato, va da sé, anzi è meritorio, persino umanitario. Quando entra in vigore la logica del riarmo, vale la stessa legge che Margaret Thatcher pronunciò a proposito del capitalismo finanziario: “Non c’è alternativa”.
Il solco che ci separa dal 1938 è ancora più profondo: tra le due guerre mondiali la scelta tra burro e cannoni veicolava tutta una riflessione sui “mercanti di cannoni”, che in inglese erano più accuratamente definiti “mercanti di morte”. Oggi l’espressione è bandita dal discorso pubblico. È stata cancellata dal nostro orizzonte politico l’idea che la guerra faccia arricchire qualcuno, ovvero che ci sia qualcuno, con nome e cognome, che lucri sulla guerra, sulla morte altrui. Anche i più lucidi e i più disincantati tra noi prendono sul serio i paroloni che ci sono ammanniti: patria, democrazia, libertà, indipendenza, diritto dei popoli, sopravvivenza della nazione. Nessuno oserebbe più affermare, come fece Anatole France nel 1922 appena dopo aver ricevuto il premio Nobel per la letteratura: “Crediamo di morire per la patria; moriamo per gli industriali”.
Certo, anche oggi il movimento pacifista denuncia l’aumento delle spese militari documentato dallo Stockholm international peace research institute (Sipri) nel suo ultimo rapporto, pubblicato il 24 aprile: nel 2022 il mondo ha speso in armi 2.240 miliardi di dollari. A questa spesa gli Stati Uniti contribuiscono per il 39 per cento, la Cina per il 13 per cento, la Russia per il 3,9 per cento, l’India per il 3,6 per cento, l’Arabia Saudita per il 3,3 per cento. I paesi della Nato spendono il 55 per cento del totale. Anche i pacifisti di oggi s’indignano perché con il denaro che va in armi si potrebbero risolvere problemi molto più urgenti: “Con 25 miliardi di dollari si potrebbero affrontare e risolvere le emergenze umanitarie più gravi del pianeta, con cento si potrebbe aggredire efficacemente la crisi climatica globale e con duecento si potrebbero raggiungere tutti gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite”.
L’argomento è lo stesso, ma guardate la differenza con il tono della giornalista e militante Marcelle Capy, nel suo intervento del 1932 al congresso della Lega internazionale dei combattenti della pace: “Con i soldi che è costata la guerra, si sarebbe potuto dare una casa da 75mila franchi a ogni famiglia degli Stati Uniti, del Canada, dell’Australia, dell’Inghilterra, dell’Irlanda, della Francia, del Belgio e della Russia. Si sarebbe potuta arredare ognuna di queste case con mobili da 25mila franchi, e versare a ogni famiglia un anticipo da centomila franchi. Sarebbe rimasto ancora abbastanza denaro per dare a ogni città di duecentomila abitanti di tutti i paesi citati 125 milioni per le biblioteche, 125 milioni per gli ospedali e 125 milioni per le università. E investendo il capitale rimasto con una rendita del 5 per cento si sarebbe potuto pagare a 125mila insegnanti e 125mila infermieri uno stipendio di 25mila franchi all’anno”.
Perturbare la pace
Capy continuava denunciando il “sur-capitalismo parassitario e internazionale che domina le nazioni e che da anni conduce il grande ballo della speculazione e governa dietro governi ridotti a comparse”. È difficile immaginare che oggi si possa pronunciare un discorso simile. Mentre Capy e i suoi contemporanei criticavano in modo chiaro “i profittatori internazionalisti del nazionalismo” (come scriveva Francis Delaisi in Le patriotisme des plaques blindées, pubblicato nel 1913 dalla rivista La paix par le droit), i loro eredi usano un linguaggio più asettico, fatto di “diritti umani”, “diplomazia” e “regole condivise”.
Chi di noi è capace di nominare anche un singolo nome di un capitalista occidentale o di un oligarca russo che si sta arricchendo grazie alla carneficina ucraina? E se anche fossimo capaci di nominarne qualcuno, mai lo definiremmo un “genio della distruzione” come fu chiamato Gustav Krupp, mai parleremmo dell’“Internazionale degli sciacalli”, come fece Mil Zankin nel suo pamphlet L’internationale des charognards. Les marchands de canons veulent la guerre, pubblicato nel 1933 dal settimanale pacifista Le Rouge et le Noir. Di certo non descriveremmo con questi termini il più ricco e potente mercante d’armi del mondo: “Sir Basil Zaharoff, la cui passione nei suoi anni del tramonto è la coltivazione di orchidee, probabilmente non si scandalizzerebbe a sentirsi definire il più grande assassino che il mondo abbia mai conosciuto. L’ha sentito troppo spesso. E potrebbe perfino godersi l’ironia delle sue donazioni (pochi milioni rispetto alle centinaia che ha guadagnato con la guerra mondiale) per il ricovero dei ‘feriti di guerra’”.
L’elemento più interessante di questo ritratto è che a tracciarlo non è un pacifista arrabbiato, ma il mensile Fortune, fondato nel 1929 da Henry Luce. La rivista si definiva “the ideal super-class magazine”, portavoce di lusso del capitalismo statunitense. Una copia costava l’equivalente di 16 dollari di oggi. Nel 1934 pubblicò un dossier senza firma, “Armi e uomini”, dal sottotitolo “Una guida ai produttori di armamenti europei; le loro miniere, fonderie, banche, holding, la loro capacità di fornire tutto ciò che serve per una guerra, dai cannoni al casus belli; i loro assiomi, che sono (a) prolungare la guerra, (b) perturbare la pace”. Riprodotto subito dal Reader’s Digest e poi pubblicato a parte, il dossier ebbe un’immensa eco. È impressionante il suo incipit, perché ci mostra che la grande finanza poteva allora esibire atteggiamenti oggi impensabili; immaginate se il Wall Street Journal o Forbes cominciassero un articolo così:
Secondo i migliori dati contabili, uccidere un soldato durante la guerra mondiale costava circa 25mila dollari. C’è una classe di grandi uomini d’affari in Europa che non si è mai mossa per denunciare la stravaganza dei suoi governi a questo proposito, per sottolineare che quando la morte è lasciata all’iniziativa individuale dei gangster il costo di una singola uccisione raramente supera i cento dollari. La ragione del silenzio di questi grandi uomini d’affari è molto semplice: uccidere è il loro business. Gli armamenti sono la loro merce; i governi sono i loro clienti; i consumatori finali dei loro prodotti, storicamente, sono quasi altrettanto spesso i loro connazionali che i loro nemici. Non ha importanza. L’importante è che ogni volta che un frammento di granata esplode nel cervello, nel cuore o nell’intestino di un uomo in prima linea, gran parte dei 25mila dollari finisce nelle tasche del fabbricante di armi.
Argomenti inutili
Non è che il portavoce ufficioso del capitalismo statunitense si fosse svegliato un bel mattino del 1934 con l’impellente bisogno di denunciare l’industria bellica europea (quella americana era degnata appena di un rapido accenno). In realtà era in corso una campagna nazionale che culminò il 12 aprile 1934 con la convocazione di una commissione d’inchiesta del senato statunitense sulla produzione e vendita di munizioni e sulle circostanze economiche dell’entrata degli Stati Uniti nella prima guerra mondiale. La maggioranza democratica ne affidò la presidenza a Gerald Nye, senatore repubblicano del North Dakota.
“Secondo i migliori dati contabili, uccidere un soldato durante la guerra mondiale costava circa 25mila dollari”
Nonostante “la lunga ed esaustiva indagine” avesse “prodotto un sordido rapporto di intrighi e corruzione, di collusioni e profitti eccessivi, di timori di guerra artificialmente alimentati e di conferenze sul disarmo deliberatamente naufragate”, come scrisse la pacifista Dorothy Detzer, la commissione servì solo a quel che servono normalmente le commissioni d’inchiesta, a nascondere sotto il tappeto gli scandali su cui indagano. L’indagine si concluse bruscamente all’inizio del 1936, quando il senato tagliò i fondi alla commissione.
Pochi anni dopo non solo Mussolini e il popolo italiano, ma tutto il mondo scelse i cannoni invece del burro. Perciò, con tutta la simpatia, perfino tenerezza e anche un po’ di nostalgia per il movimento pacifista degli anni trenta, ci sono due cose che vale la pena notare: da un lato fu assolutamente inefficace e dall’altro sulla maggior parte dei punti (non tutti, come vedremo) oggi le sue argomentazioni sono state superate dalla situazione economica e politica.
Allora i mercanti di morte ci erano presentati come potenze occulte: “Infatti, senza ombra di dubbio, al momento in Europa esiste una forza enorme e sovversiva che si annida sotto l’armamento e il contro-armamento delle nazioni: ci sono miniere, fonderie, fabbriche, holding e banche strette in un abbraccio internazionale, ma che lavorano inevitabilmente per la distruzione di quel poco di internazionalismo che il mondo ha raggiunto finora. Il controllo di queste miriadi di aziende è affidato, infine, a non più di un pugno di uomini il cui potere, per certi versi, supera il potere stesso dello stato”, scriveva Fortune.
Gli uomini che hanno un potere superiore a quello degli stati sono gli stessi che, nelle parole di Delaisi, “specializzati nella fabbricazione di macchine da guerra, corrompono sistematicamente gli alti funzionari responsabili della difesa nazionale, gettano nel panico un’opinione pubblica facilmente eccitabile con grandi campagne di stampa, esercitano pressioni sui parlamenti per strappargli i crediti necessari per commesse lucrative e, facendo leva sul patriottismo come distributore di dividendi, aggravano l’odioso regime della ‘pace armata’, quando non scatenano conflitti sanguinosi”.
Un potere mal riposto
Semmai è stata vera, quest’immagine dei burattinai che tirano i fili dei governi poteva esserlo all’epoca del capitalismo dei magnati, che però a cavallo della seconda guerra mondiale fu sostituito dal capitalismo dei manager. Fu allora che i mercanti di morte furono sostituiti nel discorso pubblico dal “complesso militare-industriale”.
L’idea che si fosse consolidata una nuova oligarchia, costituita da uno strato sociale integrato, interconnesso, formato dai tre pilastri dell’apparato economico, politico e militare, fu espressa nel 1956 dal sociologo Charles Wright Mills nel suo L’élite del potere (Feltrinelli 1986): i politici non erano più burattini in mano agli industriali e ai banchieri, non erano più il “comitato d’affari della borghesia”, ma erano stati integrati nell’élite e costituivano un elemento essenziale di una struttura di potere su cui influivano e da cui erano influenzati.
Ma l’idea del complesso militare-industriale fu imposta definitivamente al grande pubblico dal presidente statunitense Dwight Eisenhower nel suo messaggio d’addio il 17 gennaio 1961, al termine dei suoi due mandati: “Nelle sedi di governo, dobbiamo guardarci dall’acquisizione di un’influenza ingiustificata, voluta o meno, del complesso militare-industriale. Il potenziale per la disastrosa ascesa di un potere mal riposto esiste e persisterà. Non dobbiamo mai permettere che il peso di questa combinazione metta in pericolo le nostre libertà o i processi democratici. Non dobbiamo dare nulla per scontato”.
Senza saperlo, le pensioni di moltissimi lavoratori occidentali dipendono dai dividendi prodotti dai missili lanciati in Ucraina
Da allora l’immagine dei mercanti di morte è stata relegata solo a loschi figuri che trafficano con i paesi del terzo mondo e che vendono armi pericolose a terroristi. Mentre invece le “potenze serie” si affidano solo al loro complesso militare-industriale. Questa trasformazione da mercanti di morte a complesso militare-industriale ha avuto l’effetto di anonimizzare i soggetti, di sostituire esseri in carne e ossa dotati di nome e cognome con una struttura burocratica impersonale. In questo modo li ha sollevati da ogni responsabilità. Se, come avviene oggi, c’è mancanza di munizioni, i produttori di armi chiederanno assicurazioni ai governi prima di lanciarsi nella costruzione di nuovi stabilimenti, perché non vogliono trovarsi con fabbriche inattive sul groppone una volta che la guerra è finita. Il complesso militar-industriale serve a produrre gli armamenti di cui i militari hanno bisogno, ma anche a garantire che gli industriali non si ritrovino con investimenti a lungo termine resi improduttivi dal venire meno di emergenze a breve. Il continuo scambio tra industria degli armamenti e vertici delle istituzioni è ben descritto dalla figura della revolving door, la porta girevole: gli alti dirigenti pubblici (funzionari, politici, generali) diventano manager delle aziende private e viceversa. Per esempio, l’attuale ministro italiano della difesa è stato senior advisor di un’azienda del gruppo Leonardo, leader italiano nel settore degli armamenti, e presidente della Federazione aziende italiane per l’aerospazio, la difesa e la sicurezza.
Nell’immaginario collettivo del ventunesimo secolo i mercanti di morte sono oggi i narcotrafficanti, come dimostrato da una sterminata produzione cinematografica. Come se il settore industriale bellico non occupasse nel mondo più di cinquanta milioni di lavoratori e più di cinquecentomila scienziati, un universo infinitamente più grande di quello degli spacciatori e soprattutto integrato nella (e controllato dalla) grande e rispettabilissima finanza.
Costi e benefici
La seconda trasformazione che i mercanti di morte hanno subìto è dovuta proprio alla finanziarizzazione dell’economia. Padroni delle industrie di armi sono ormai i grandi fondi d’investimento che inseriscono nel loro portafoglio azionario anche le aziende di questo settore, per cui lo stesso fondo investirà in una società di case di riposo in Germania, nelle miniere di litio in Africa, in una piantagione di soia in Brasile, in una catena di supermercati in India, in una banca londinese, in una partecipazione in un produttore (multinazionale) di droni “suicidi”, in una quota di industria spaziale statunitense, oltre che in una serie di derivati per proteggere questi investimenti. Il tutto intercambiabile, e quindi sterilizzato, reso asettico: nella logica finanziaria, il missile anticarro non si differenzia dal letto d’ospedale, dato che entrambi sono caratterizzati solo dal loro rapporto costi-benefici.
La finanziarizzazione ha due effetti. Provoca il passaggio dall’internazionale al globale. Un secolo fa Delaisi poteva dire: “La grande internazionale, che gli idealisti politici e gli strateghi della classe operaia hanno cercato a lungo, ha preso forma nell’industria degli armamenti”, e si poteva parlare di “profittatori internazionalisti del nazionalismo”. Erano soggetti nazionali che agivano secondo una logica internazionale. Oggi sono soggetti transnazionali che si adattano alle esigenze nazionali in base ai propri interessi globali. La logica si è rovesciata. Ma c’è un risvolto più sarcastico della finanziarizzazione, ed è che ha reso tutti noi – anche il più modesto dei lavoratori, il postino, il maestro elementare, l’operaio – azionisti (quindi in un certo senso proprietari e profittatori) dell’industria di morte, semplicemente perché i fondi pensione sono stati privatizzati e per pagarci le nostre irrisorie pensioni devono investire per far fruttare il capitale, e quindi affidare il loro denaro a fondi d’investimento. Senza saperlo, le pensioni di moltissimi lavoratori occidentali dipendono dai dividendi prodotti dai missili lanciati in Ucraina. Questa è un’altra, forse inconscia ragione del silenzio generale sui mercanti di morte. Ed è la ragione per cui le indignazioni del secolo scorso ci sembrano così datate.
Ciò non toglie che su un paio di punti le vecchie analisi dovrebbero ancora farci riflettere. Il primo lo esprime benissimo Fortune quando sintetizza la “filosofia” dei mercanti di morte: “Mantenere l’Europa in una costante tensione nervosa. Pubblicare periodicamente allarmi di guerra. Impressionare i funzionari governativi con la necessità vitale di prepararsi alle ‘aggressioni’ degli stati vicini. Corrompere se necessario. Creare in ogni modo il sospetto che la sicurezza sia minacciata”. A stare ai nostri mezzi d’informazione, novant’anni dopo questa filosofia è praticata con forza, senza sosta, con tutti gli strumenti possibili.
L’altra caratteristica dell’industria militare che vige ancora oggi era stata formulata sempre da Delaisi: “In questo strano sistema, il potenziale bellico di un grande paese, o di un gruppo di paesi, è rafforzato dallo sviluppo della potenza militare avversaria. Il commercio di armi è l’unico in cui ogni ordine ricevuto da un concorrente aumenta quello dei suoi rivali. Le grandi aziende di armamenti delle potenze ostili si oppongono l’una all’altra come pilastri che sostengono lo stesso arco. È l’opposizione dei loro governi che produce la loro comune prosperità”.
Ecco perché, mentre l’industria militare russa conosce un boom senza precedenti, anche quella occidentale cresce. Nel Regno Unito, il gruppo Bae Systems ha aumentato il fatturato del 9 per cento, ma soprattutto ha visto lievitare i propri ordinativi da 21 miliardi a 37 miliardi di sterline con una straordinaria crescita del 73 per cento.
È andata bene anche alla Germania: da quando è scoppiata la guerra in Ucraina il suo principale fornitore per la difesa, la Rheinmetall, ha conosciuto un boom di ordinazioni, il suo fatturato è schizzato a 6,4 miliardi di euro (un aumento del 13 per cento), i profitti sono aumentati del 61 per cento, e il valore delle sue azioni è più che raddoppiato, passando da meno di cento euro nel febbraio 2022 a 261 euro (il 5 aprile 2023).
Perfino in un paese come l’Italia, che di armi all’Ucraina ne ha date davvero poche, il gruppo Leonardo vanta un aumento del 30 per cento delle ordinazioni, ricevute soprattutto da paesi alleati che di armi ne hanno date molte di più e devono perciò ricostituire gli arsenali.
Non era poi così strampalata l’idea che le grandi industrie militari di paesi ostili si oppongono come pilastri che sostengono lo stesso arco, e che l’opposizione dei loro governi favorisce la loro comune prosperità. Ma soprattutto, oggi come sempre, e più che mai, il patriottismo continua a essere “un distributore di dividendi”.
Marco D’Eramo è un giornalista e scrittore italiano. Il suo ultimo libro è Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi (Feltrinelli 2020).
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Questo articolo è uscito sul numero 1517 di Internazionale, a pagina 49. Compra questo numero | Abbonati