Elena Ferrante
In genere, per ragionare, tendo a marcare le differenze. Nel nostro caso la differenza più evidente è questa: io ho deciso da più di trent’anni di mandare in giro, di me, solo scrittura; lei da cinquant’anni si è messa con tutto il suo corpo, con tutta la sua persona, coraggiosamente al centro della scena. Eppure, fin da quando ho cominciato a riflettere sul suo straordinario L’artista è presente, la coincidenza tra corpo e opera che lei mette in atto mi è sembrata non troppo distante dal mio tagliarmi via di netto dal libro pubblicato. Voglio però spiegare in che senso. In L’artista è presente, con un’evidenza ancora più forte che altrove, lei fa di Marina Abramović – l’artista appunto – l’opera stessa. E offre quell’opera alla contemplazione del pubblico non diversamente, secondo me, da come un testo molto elaborato viene offerto ai lettori. Voglio dire che anche il corpo, con le sue molteplici esperienze, è materia grezza, conta quanto la pietra, il legno, la carta, l’inchiostro. Importante invece è come quella materia è lavorata poeticamente, come la inventiamo, come ne diventiamo autrici. Il resto è industria della grandezza, mercato, successo, celebrità, biografismo e autobiografismo, tutte cose niente affatto irrilevanti di cui la nostra persona anagrafica può godere o a cui – con un autocontrollo le assicuro non facile – rinunciare.
Marina Abramović
Un’altra differenza tra noi è che in una discussione, e nel mio lavoro in genere, mi piace trovare elementi che uniscono le persone e le mettono in relazione. Quando ho scritto la mia autobiografia, Attraversare i muri, ho notato delle somiglianze tra scrittura e performance di lunga durata. Entrambe le pratiche implicano un’apertura all’elaborazione, a patto di essere disposti a guardare le cose con curiosità e aprendo il proprio cuore.
In L’artista è presente, per esempio, mi sono resa conto che il tavolo che mi separava dalla persona seduta di fronte a me ostacolava lo scambio di flusso di energia tra noi. Quando stabilisco una comunicazione non verbale, quell’energia per me è fondamentale. È il motivo per cui, a un certo punto durante i tre mesi della performance, ho deciso di sbarazzarmi del tavolo a favore di una cornice più essenziale.
Il titolo stesso, L’artista è presente, evoca uno degli aspetti principali della performance art: è qualcosa che succede qui e ora, in presenza dell’artista. D’altra parte, dopo la mia performance al Museum of modern art di New York, mi è apparso sempre più chiaramente come il ruolo del pubblico andasse ben oltre l’essere un semplice spettatore. Nella mia pratica mi sono allora concentrata sulla partecipazione del pubblico. Anche se non posso tagliarmi via del tutto dalla performance, ho chiaramente trovato un modo per confondermi, così che il pubblico possa fare il proprio viaggio. Ma lei ha ragione, al centro della mia opera ci sono sempre e comunque io. Devo cominciare da me stessa perché sono ciò che conosco meglio. Il mio corpo è il mio universo ed è l’inizio di tutto.
La performance art può essere radicale se ci si apre a scelte audaci, come ha fatto lei con la sua scrittura e decidendo di non apparire in pubblico. Posso chiederle perché?
Elena Ferrante
Da ragazzina mi sentivo una matassa arruffata, impresentabile. E mi vergognavo di tutto, soprattutto di voler scrivere. Scrivere mi pareva un atto di superbia, come se pretendessi di riassumere in me il mondo. Ma la passione era forte e mi sono addestrata a condurre la mia vita di timida separandola radicalmente dal tempo in cui il corpo si sfrenava nella scrittura. Più questa separazione era netta, più mi sentivo libera.
Il successo ha complicato non poco le cose. Le persone che mi sono vicine mi dicevano: goditelo; se non te lo godi, perché scrivi? Ho dovuto lavorare ulteriormente su di me. Tutto sommato m’incuriosiva e mi tentava lo spettacolo della celebrità, ma alla fine si è consolidata la convinzione che il mio corpo vero, capace di uscire dai margini con l’energia necessaria, è la scrittura. Lì c’è il mio io che scrive, il resto mi pare significativo solo nella sfera privata. Se mi esibissi, diventerei personaggio, una pubblica finzione che condizionerebbe anche la finzione della scrittura. Lei, voglio chiederle, conosce questa separazione? C’è una parte di sé che non ha esposto e che a tratti le sembra più viva, più gioiosa, di quella a cui ha assegnato senso con le sue performance? Ho molte domande da farle. L’arte delle donne non ha una sua tradizione robusta. Lei ha provato a saldare il femminile al maschile – parlo delle sue opere in collaborazione con Ulay – per dar vita a un terzo elemento, e ha dovuto dichiarare fallimento. C’è una violenza inevitabile nell’incontro-urto tra maschile e femminile così come sono ancora storicamente determinati? La nostra creatività può esplodere solo con un impegno assoluto – niente figli, per esempio – e in solitudine? E dedicarsi in modo così totale alla propria arte, rovesciare l’intera vita nell’opera, non le genera una sorta di angoscia dello sciupìo e dell’impermanenza?
Marina Abramović
Una volta mi è stato chiesto d’illustrare un libro per l’infanzia a mia scelta e, senza esitare, ho scelto Il brutto anatroccolo. Da bambina, e poi da adolescente, m’immedesimavo completamente in quella storia. Anche io ero il brutto anatroccolo. Mi sono sempre sentita una disadattata, fin da piccolissima. Gli anni dell’adolescenza, quindi, sono stati per me anni d’intenso disagio e infelicità. Avevo le gambe magrissime, portavo scarpe ortopediche e occhiali orrendi. Mia madre mi tagliava i capelli molto sopra le orecchie e li fissava con una forcina, e mi faceva indossare pesanti vestiti di lana. E avevo una faccia da bambina con un naso smisuratamente grande. Mi consideravo la ragazzina più brutta della scuola.
Quando ho trovato il mezzo della performance per esprimermi, è cambiato tutto. Nel momento esatto in cui mi sono presentata davanti al pubblico per la mia prima performance, ho sentito la mia trasformazione, come se fossi uscita dal guscio di un uovo. Mi sono lasciata alle spalle i dubbi e la scarsa autostima e ho scoperto il mio sé superiore. Quando mi esibisco in una performance mi sento bella, radiosa e potente. Tutto è possibile, e il mondo intorno a me diventa luminoso.
Anche il corpo è materia grezza, conta quanto la pietra, il legno, la carta, l’inchiostro. Importante invece è come quella materia è lavorata poeticamente, come la inventiamo
Per questo la linea di separazione tra vita privata e pubblica, nel mio caso, non è mai stata netta. Come artista performativa, ho bisogno di ricevere attenzione ed energia dal pubblico, e un modo per riuscirci è mettere in scena le mie paure, le mie fragilità e i miei dolori, in modo che il pubblico possa entrarci in relazione. Non credo ci sia una sola parte di me che io non abbia esibito, anche se ci sono certamente cose di me che molte persone non sanno. Per esempio, che posso essere molto divertente. Adoro stare con i miei amici, scambiare con loro battute politicamente scorrette. A volte le persone hanno un’immagine di me che rispecchia l’austerità delle mie performance. Non sono assolutamente così.
Non vuol dire però che non ho fatto grandi sacrifici per il mio lavoro. Come lei ha notato, la maternità per me non è stata un’opzione perché ho deciso di dedicare tutta la mia attenzione alla performance. In molte occasioni, le mie scelte professionali hanno creato una distanza tra me e gli uomini della mia vita, compreso Ulay. L’intensità dell’energia che s’intrecciava nelle nostre performance poteva essere forte quanto le nostre differenze nella vita privata, dove il nostro ego tendeva a prevalere. La violenza che lei evoca, come effetto dello scontro tra mondo maschile e femminile, aveva secondo me più a che fare con la nostra natura di esseri umani che di artisti. Nella vita mi è capitato molto spesso di sperimentare la solitudine e penso, ma mi corregga se sbaglio, che lo stesso valga per lei. Dice di essersi “addestrata a condurre la sua vita di timida”. Lei ha quindi fatto della solitudine una parte della sua vita?
Elena Ferrante
Da ragazzina sono stata molto sola, in seguito ho avuto una vita affollata, oggi in pochi hanno ancora bisogno di me e passo il tempo a scrivere. Scrivere del resto è un lavoro che si fa in assoluta, pericolosa solitudine, anche se ti gremisce la testa con troppe persone, troppe voci, troppi oggetti. Per di più l’intervento del pubblico arriva sempre a cose fatte e poiché ho scelto di non incontrare i lettori, di non avere frequentazioni e appartenenze letterarie, nella convinzione sempre più dichiaratamente polemica che i libri devono bastare a se stessi, eccomi in una solitudine direi assoluta. Perciò m’interesso da sempre alla sua creatività, che invece s’inventa e si attua in pubblico e col pubblico. Mi colpisce, devo dire, soprattutto la fierezza con cui si dichiara artista. Io non userei mai il termine “scrittrice” con lo stesso orgoglio, mi sembrerebbe di eccedere. Eppure il processo creativo è, quando va bene, ugualmente coinvolgente, implica la stessa coraggiosa immersione totale, lo stesso rischio di perdersi, lo stesso sforzo di ritrovarsi. Perché considera l’artista un essere umano speciale, uno che non conosce limiti, uno che per l’arte può esporsi perfino alla morte? Mi colpisce soprattutto che lei sottragga l’artista anche alla specificità maschile o femminile. In effetti viviamo ancora in un mondo a dominanza maschile, dove sono gli uomini a definire i canoni estetici, chiedendoci di subordinarci a essi in ogni nostra manifestazione di vita, pena l’esclusione o la reclusione nel mercato rivolto solo alle donne. Lei non crede che, artiste o no, siamo ancora ben lontane dalla possibilità di esprimere autonomamente noi stesse, sfuggendo cioè alla gabbia della potente, straordinaria tradizione maschile?
Marina Abramović
Devo dire che sono molto affascinata dalla nostre differenze e sento che, se avessimo l’occasione d’incontrarci, potremmo imparare molto l’una dall’altra.
In molti casi, non penso che il lavoro dell’artista basti a se stesso. Un’opera d’arte può racchiudere tantissimi strati di significato e, quando è possibile, noi artisti dovremmo sempre cercare di colmare il divario tra l’opera e il modo in cui il pubblico la percepisce. So che potrebbe sembrare un’affermazione forte, ma ho sempre pensato che l’artista fosse al servizio della società. Se hai il dono della creatività, lo devi condividere perché non appartiene solo a te. E la creatività dovrebbe essere sottratta alla specificità maschile e femminile. Per me ci sono solo due tipi di arte: l’arte buona e l’arte cattiva.
Il mondo dominato dagli uomini è una struttura a cui tutti contribuiamo. Il mese scorso ho partecipato a una residenza d’artista organizzata da Modern Art Oxford in collaborazione con il Pitt Rivers Museum. Ho avuto accesso a moltissimi artefatti di ogni genere, che riflettevano chiaramente il predominio di culture matriarcali. C’erano rituali e cerimonie in cui le donne avevano tutto il potere sulla base di un dato incontrovertibile: erano loro a creare la vita nei loro corpi.
Forse non tutti sanno che, durante i due conflitti mondiali, in Montenegro e in Albania le donne che perdevano il marito in guerra si davano talmente da fare che finivano per trasformarsi in uomini, indossando abiti maschili, usando armi, smettendo di avere le mestruazioni e facendosi crescere la barba. Voglio dire che è anche colpa nostra se abbiamo finito per cedere così tanto potere agli uomini.
Faccio sempre l’esempio di Louise Bourgeois, una delle più importanti artiste della nostra epoca. Ha cominciato a concentrarsi sulla propria arte e sulla propria carriera solo dopo la morte del marito. Senza neanche rendercene conto, creiamo tante sovrastrutture per noi stesse e per la nostra società. Solo noi possiamo cambiarle. Possiamo tutte essere guerriere, ognuna a modo suo.
Elena Ferrante
Mi auguro anch’io che avremo occasione di discutere tra noi. E mi piace il suo spirito di guerriera. Ma bisogna battersi perché mai più nessuna donna debba aspettare la morte del marito per esprimere il proprio genio. E non mi convince nemmeno che bisogna cogliere una qualche opportunità per sostituirci ai maschi e fare come loro. È invece necessario battersi perché finisca per sempre il più grande, lungo, ottuso spreco che si sia mai visto su questo pianeta: lo spreco dell’intelligenza e della creatività femminile. La qualità delle opere poi si vedrà. Le sue sono di straordinaria inventiva, a me fanno venir voglia di scrivere.
Da qualche decennio – tanto per fare un esempio – provo a portare avanti un romanzo che abbia al centro la performance che lei tenne nel 1974 a Napoli, allo Studio Morra. Qui non voglio tediarla con gli abbozzi che ho accumulato finora senza mai venirne a capo: c’era sempre qualcosa che mi spaventava e mi bloccava. Le dico solo che doveva essere la storia di una giovane donna napoletana che veniva trascinata da un uomo maturo in quella galleria, tra il suo pubblico. E gliene parlo qui per sottolineare che le sue performance, più di altre, mi paiono pensate perché, dentro un perimetro sotto controllo, intervenga un urto, uno spintone, quindi la domanda: e ora che cosa accadrà? Inventa in tutta consapevolezza situazioni potenzialmente narrative?
Marina Abramović
Lei evoca un aspetto importantissimo della performance art, e del processo molto personale attraverso cui creo il mio lavoro. La performance è il mezzo che mi ha dato l’opportunità di stabilire poche regole ma precise, da seguire unicamente come artista in un dato spazio e intervallo di tempo. Come essere umano di solito non ho la stessa energia né lo stesso coraggio di quando mi esibisco in una performance. Per citare liberamente uno dei primi film di Almodóvar: “Sono solo umana e sono molto imperfetta”. Faccio affidamento sull’energia del pubblico, rappresenta quell’aiuto in più di cui ho bisogno per realizzare le mie performance.
Quando mi viene un’idea per una nuova opera performativa, non penso a situazioni potenzialmente narrative. Ho una serie d’istruzioni e un preciso intervallo di tempo per il loro svolgimento. Tutto ciò che accade in quell’intervallo diventa parte dell’opera e, quindi, della sua narrazione. Non c’è nulla di pianificato, e questo è legato a un altro aspetto importante della mia pratica: non ripeto le mie performance. Lascio che la vita e l’energia le attraversino, e questo significa che può scatenarsi un terremoto, qualcuno nel pubblico può svenire o uno spettatore può interrompere l’opera. Non c’è uno svolgimento prestabilito, accetto qualunque cosa nasca da ciò che di solito consideriamo un momento dirompente.
La ragazza trascinata nella galleria da un uomo maturo, nella sua bozza di romanzo ispirata a Rhythm 0, ha risvegliato un ricordo che avevo completamente rimosso e che finora non ho mai condiviso. Ricordo distintamente che, durante la performance allo Studio Morra, un signore anziano e basso mi rimase accanto per tutte e sei le ore. A un certo punto si avvicinò moltissimo, pur senza toccarmi né mai partecipare attivamente alla performance. Ma lo sentivo respirare e avvertivo il suo fiato sulla pelle. Le sembrerà strano, ma è l’unica persona di cui ho avuto paura in quella sala.
Detto ciò, in Rhythm 0 non mi sono mai sentita una vittima. È stata una mia decisione, solo mia, quella di essere un oggetto tra gli altri settantadue che avevo scelto, tra cui una pistola e un proiettile. Ho deciso che il pubblico poteva fare quello che voleva, anche uccidermi, ma solo nell’intervallo di tempo che gli concedevo. Dopo sei ore, avrebbe perso quel diritto.
Infine, lei ha sollevato un altro aspetto importante della curva creativa: come lei, anch’io ho pensato a delle opere senza mai realizzarle. Secondo lei perché succede?
Elena Ferrante
Non lo so. Mettere ordine nei processi creativi, ricostruire in maniera affidabile come un racconto nasce, si espande e arriva a compimento è un’impresa ardua, forse impossibile. Devo dire anzi che mi fido poco di chi parla del concepimento delle proprie opere dettagliatamente. Si tratta, nella mia esperienza, di lampi, di urti, di apparizioni frammentarie e sfuggenti nel teatrino del cervello. La maggior parte di quelle schegge lascia segni pallidi. Altre invece si tirano dietro di tutto, il racconto viene giù a cascata fino alla fine. Altre ancora cambiano continuamente direzione, le rincorri, ti perdi, a volte ti vengono addosso all’improvviso da un’angolatura imprevista e ti fanno male. Io propendo per queste ultime, è stato sempre così, e la conseguenza è che abbandono parecchi lavori. Di solito è perché li ritengo superiori alle mie forze (chi scrive, come le dicevo, può contare solo su di sé, il pubblico arriva dopo). Ma in qualche caso insisto, aspetto, ricomincio. Per il libro più refrattario alla mia scrittura ho dovuto aspettare un decennio, s’intitola La figlia oscura. E scriverlo mi ha fatto paura, ero sicura che non sarei riuscita a cavarmela. Perciò, sì, penso che alcune delle opere che non realizziamo si accuccino nel cervello e attendano insieme a noi il momento giusto. Sono lì, ne abbozziamo frammenti, ma le forze e il coraggio sono insufficienti. Niente di grave. Un po’ si sono affacciate e qualcun altro le attuerà al nostro posto. Non siamo indispensabili. È stato un vero piacere, Marina, questo scambio alla ricerca di punti di contatto, grazie. ◆
Marina Abramović
è un’artista serba naturalizzata statunitense.
Elena Ferrante
è una scrittrice italiana. Il suo ultimo libro è La vita bugiarda degli adulti.
Questo articolo è uscito sul Financial Times con il titolo “I have a lot of questions for you”: Elena Ferrante talks to Marina Abramović. Il testo di Marina Abramović è tradotto da Francesca Spinelli.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1448 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati