A73 anni Juraj Slovinský si è lasciato alle spalle già da un po’ la sua epoca d’oro. Lo stesso si può dire della città dove vive, la slovacca Prakovce. Slovinský ha lavorato tutta la vita nella locale fabbrica di armi, che oltre all’occupazione, portava alla cittadina anche una certa vivacità: una piscina pubblica in pieno centro, un polo culturale e una squadra di calcio che ha giocato nella serie B slovacca. Slovinský gestiva la piscina, dove gli abitanti si rinfrescavano dopo il lavoro, mentre i bambini giocavano nella vasca più piccola.

Della piscina non è rimasto molto. Sul fondo cresce l’erba, le pareti in calcestruzzo sono tutte crepate e l’unica acqua che si vede è quella piovana. Juraj Slovinský e sua moglie Daria la usano come orto. La vasca per i bambini è piena di pomodori e zucchine e ospita una comunità di bombi.

“Quando la fabbrica ha chiuso, qui è finito tutto”, dice Slovinský a bordo piscina. “È un disastro, in questa città non c’è più nessun futuro”.

Prakovce è al centro di quella che in Slovacchia chiamano “la valle della fame”, hladová dolina. Durante il comunismo il benessere era dovuto alla presenza della fabbrica di armi, che produceva cingoli per carri armati e mezzi corazzati. Ci lavoravano almeno tremila persone. Dopo il 1989, però, la fabbrica ha chiuso. Un terzo degli abitanti della città è rimasto disoccupato e molti si sono trasferiti all’estero. Della vivace Prakovce di un tempo è rimasto ben poco. La popolazione si è dimezzata e oggi non supera le tremila persone. Il centro culturale ha chiuso e la squadra di calcio è scesa di categoria anno dopo anno, fino a raggiungere l’ultimo livello amatoriale. Una volta a Prakovce tutto andava meglio, dicono gli abitanti. E hanno ragione.

Eppure c’è ancora speranza. La guerra in Ucraina ha rilanciato l’industria bellica europea, e anche quella slovacca ne sta approfittando. È curioso, dal momento che durante le elezioni parlamentari dello scorso anno il premier Robert Fico ha promesso che Bratislava non avrebbe inviato “nemmeno una pallottola all’Ucraina”. Fico ripete di continuo che i paesi occidentali non vogliono la pace e che, con gli aiuti militari all’Ucraina, non fanno che prolungare la guerra.

All’inizio di ottobre Fico ha fatto una nuova promessa: con lui al governo della Slovacchia, l’Ucraina non entrerà nella Nato. La sua dichiarazione è stata una risposta al nuovo segretario generale dell’alleanza Mark Rutte, secondo cui l’Ucraina “non è mai stata così vicina” a entrare nella Nato. Perché questo succeda, tuttavia, serve il consenso di tutti i trentadue paesi dell’alleanza, tra cui c’è la Slovacchia.

La gente di Prakovce spera dunque che la guerra riporterà prosperità e benessere, che presto dalle ciminiere delle enormi fabbriche ai margini della città tornerà a uscire il fumo e che il rumore dei martelli sull’acciaio risuonerà di nuovo nella valle.

Conflitti e speranza

Jozef Komora ha 75 anni e ricorda bene quando la fabbrica di armi ha chiuso. È stato Václav Havel, scrittore e primo presidente della Cecoslovacchia postcomunista, a decidere, nel 1990, di mettere un freno all’industria bellica. La Cecoslovacchia era un grande produttore di armi: se avesse smesso di esportarle, il mondo sarebbe diventato un posto più sicuro. Questa era l’idea. La decisione colpì soprattutto le fabbriche slovacche, dove venivano prodotte armi pesanti come carri armati e razzi. “Havel è stato eletto e subito dopo ci hanno licenziati”, racconta Komora, che lavorava nello stabilimento dal 1965. “Da un giorno all’altro il lavoro è scomparso”. La fabbrica ha chiuso e Komora, come molti suoi colleghi, è andato in Repubblica Ceca, a lavorare per l’azienda automobilistica Skoda. C’è rimasto per venticinque anni, alternando dieci giorni in fabbrica e tre a casa. Praticamente non ha visto crescere figli. “Ma cos’avrei potuto fare?”, si chiede. “Non si può mica vivere senza lavoro”.

Anche il sindaco Róbert Weisz, che ha 35 anni, incolpa Havel per i guai di Prakovce. I suoi nonni lavoravano nella fabbrica. “E ogni volta che mio nonno vedeva Havel in tv, gli sputava addosso”.

Nel 1993, quando la Cecoslovacchia si è divisa tra Slovacchia e Repubblica Ceca, i cechi hanno subito eliminato il divieto di esportazione di armi e hanno riavviato la loro industria bellica. Ma per la Slovacchia era già tardi: quasi tutte le aziende erano fallite. Il risultato, accusa il sindaco Weisz, è che “i giovani di Prakovce vanno tutti all’estero. Sui quaranta ragazzi che erano a scuola con me, solo in quattro sono rimasti”.

L’anno scorso Weisz ha accolto in città il premier Robert Fico. “Gli ho raccontato che Prakovce è vuota, che tutti se ne vanno e che vogliamo far rinascere la fabbrica”. Per un attimo si è parlato della riapertura degli impianti. Girava voce che ci sarebbero stati cinquanta nuovi posti di lavoro. “Alla fine erano una decina, tutti in altre aziende”, dice il sindaco. La visita di Fico non è servita a nulla. “Non è arrivato nemmeno un centesimo in più”.

Nonostante tutto, la maggioranza degli abitanti di Prakovce vota ancora per Fico e per il suo partito, Smer (Direzione), populista e nazionalista. E complessivamente un quinto degli slovacchi sostiene la Russia nella guerra con l’Ucraina. Il governo precedente inviava a Kiev munizioni, carri armati e aerei e applicava le sanzioni contro Mosca, ma con l’arrivo di Fico l’orientamento del paese è profondamente cambiato. Oggi il governo slovacco è tra i maggiori sostenitori della Russia. Tutto questo rende ancora più sorprendente il fatto che, poco dopo la sua nomina, il ministro della difesa slovacco Robert Kaliňák si sia impegnato per un rilancio dell’industria bellica. Il paese punta a raddoppiare la produzione di munizioni per carri armati e artiglieria. Munizioni che finiscono in Ucraina, ha detto l’ex ministro della difesa Jaroslav Naď al sito d’informazione Politico: “Quasi tutta la produzione dei prossimi tre anni è stata venduta all’Ucraina, direttamente e attraverso altri paesi”.

In questo modo Fico rinnega la promessa di non inviare più armi a Kiev. Perché l’industria bellica slovacca trae vantaggio dalla guerra. “Gli oligarchi del settore della difesa, alleati dello Smer, approfittano ampiamente dei contratti che gli permettono di vendere i loro prodotti all’Ucraina”, ha sottolineato l’ex ministro Naď. “Era evidente che avrebbero continuato”.

Troppo tardi

Tuttavia il messaggio di Fico contro l’invio di armi all’Ucraina ha il sostegno dell’elettorato. E questo danneggia il settore, fa notare Norbert Krušinský vicesindaco della cittadina di Moldava nad Bodvou, nel sud della Slovacchia a un’ora di auto da Prakovce. Lì l’industria bellica, già attiva, voleva espandersi. Ma il consiglio comunale si è opposto. “I consiglieri hanno dichiarato di essere a favore della pace e di non voler contribuire alla guerra”, racconta Krušinský. “È una tragedia”. A Moldava nad Bodvou, che come Prakovce sta vivendo un netto calo di popolazione, l’aumento della produzione di armi porterebbe almeno cento nuovi posti di lavoro.

La rinascita dell’industria bellica slovacca sembra arrivare troppo tardi per Prakovce. Di recente il comune ha discusso con alcuni investitori disposti a rilevare la vecchia fabbrica di armi. “Ma non c’è più l’acciaieria, che sarebbe indispensabile, e il resto dell’impianto è troppo vecchio”. Lo stabilimento dev’essere completamente ristrutturato per soddisfare le norme europee sulle emissioni di gas serra. Anche Komora è pessimista. “La fabbrica è in cattive condizioni e tutti gli esperti se ne sono andati”, dice. “Qui a Prakovce non c’è più futuro”.

Stando al sindaco, però, non è del tutto vero. “L’anno scorso la squadra di calcio è salita di categoria”, dice orgoglioso Weisz, in passato presidente della società. Oggi gioca nella sesta serie. La penultima del panorama calcistico slovacco. ◆ oa

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Questo articolo è uscito sul numero 1588 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati