Quella notte Mama Maïsa Dieye non ha fatto in tempo a raccogliere le vecchie foto di famiglia né il suo unico vestito buono, dono di una cugina di Dakar. L’oceano si è portato via anche il telo batik appeso sopra il letto con l’immagine di Ahmadou Bamba, il leader sufi più venerato dai pescatori, la cui immagine è dipinta su quasi tutte le ottomila piroghe da pesca della Langue de Barbarie, nel Senegal settentrionale.
Quella notte del marzo 2018, quando è arrivata l’onda, Mama Maïsa ha avuto pochi secondi per decidere. Si è caricata sulle spalle il nipote più piccolo ed è riuscita a strappare alla risacca gli altri che dormivano nella sua stanza. Le viene un groppo in gola al ricordo delle cinque capre rimaste legate alla porta principale, affacciata sull’oceano Atlantico. “Ho visto i loro occhi disperati. Poi sono sparite insieme alla casa”, mi dice sotto una delle tende del quai du pêcheur (molo del pescatore), dove sta trattando la vendita di un marlin blu di quasi un quintale. Da quando l’Atlantico ha spazzato via la sua casa, vive accampata sulle macerie della proprietà distrutta, come migliaia di altre persone che si rifiutano di abbandonare la Langue de Barbarie, una lingua di terra chiamata in questo modo perché vi si insediarono per primi i berberi, “barbari”. È una stretta penisola tra l’oceano e il fiume Senegal e che dal confine meridionale della Mauritania si estende per circa trenta chilometri fino al delta del fiume. È collegata da due ponti all’antica città coloniale di Saint-Louis, che fu la prima capitale dell’Africa occidentale sotto il dominio francese.
Come sua madre e la madre di sua madre, e come fanno da secoli tutte le donne della Langue, Mama Maïsa, 49 anni e undici figli, compra e rivende il pesce portato dagli uomini che rientrano al porto nel pomeriggio. Lo preleva dalle piroghe entrando in mare fino alla cintura e lo porta a riva reggendo sul capo un grande mastello. L’acqua è rossa, la sabbia è intrisa di sangue, decine di corvi, falchi e gabbiani si contendono le interiora dei pesci. L’aria caldissima odora di sale, sudore e plastica bruciata.
Più del previsto
Il mondo di Mama Maïsa sta crollando, tempesta dopo tempesta, ondata dopo ondata. L’oceano se lo sta prendendo con tutte le radici. Per gli ottantamila abitanti della Langue l’unico futuro possibile è una nuova vita altrove, da sradicati.
Questa è la linea del fronte, la madre di tutte le future catastrofi lungo i litorali urbani del pianeta. La combinazione di forti mareggiate, correnti atlantiche e alte maree gonfiate dall’innalzamento del livello medio dei mari hanno trasformato questa parte di costa in un campo di battaglia. Una battaglia che l’oceano sta vincendo. Le acque che hanno sempre dato da vivere a Mama Maïsa e alla sua comunità gli si sono rivoltate contro. È stato calcolato che dal 2021 alla Langue de Barbarie la linea della spiaggia arretra di circa 160 metri all’anno (prima il bagnasciuga, con la bassa marea, era lungo più di un chilometro). Gli effetti dell’innalzamento dei mari dovuto al riscaldamento globale e allo scioglimento dei ghiacciai artici hanno creato un paesaggio di rovine che ricorda le città bombardate o terremotate, con migliaia di edifici, case, scuole e moschee di cui restano solo macerie spettrali. In questa parte dell’oceano Atlantico meridionale, il livello delle acque negli ultimi quattro anni è salito del 60 per cento in più rispetto alle previsioni (la stima era di trenta centimetri entro il 2035). Ma le conseguenze sono già catastrofiche. Secondo le Nazioni Unite e la Banca mondiale quello che succede nella Langue de Barbarie deve servire da lezione e da modello per trovare soluzioni, perché questa striscia di terra è tra le aree più densamente popolate al mondo.
Dal 2000 la città storica di Saint-Louis, costruita dalla Francia tra la fine del seicento e l’ottocento, a lungo centro del traffico di schiavi e di prodotti come la gomma arabica, è iscritta nella lista del patrimonio mondiale dell’Unesco. Molte splendide dimore hanno resistito bene alla salsedine, e anche allo spirito del Senegal indipendente, un paese che non ha vissuto un sentimento antifrancese come quello che ha caratterizzato il vicino Mali. Se per la sua natura anfibia e per l’aspetto decadente Saint-Louis si è guadagnata il soprannome di “Venezia d’Africa”, oggi, in tempi di crisi climatica, questo parallelo assume toni meno romantici.
Quello che succede nella Langue – che si trova a poche centinaia di metri dal vecchio palazzo del governatore di Saint-Louis e dai quartieri frequentati dai turisti – potrebbe presto interessare l’intera città di più di 260mila abitanti. C’è chi dice tra dieci o vent’anni. Tutto dipenderà da come andranno le cose sulla prima linea, cioè sulla Langue, dove l’Atlantico sfonda la costa come un ariete, dove le onde sono rostri che distruggono le abitazioni, provocando un gran numero di profughi climatici. Finora sono già ventimila.
Una nuova casa
Dopo la mareggiata del 2018, l’Onu ha messo a punto un progetto per ricollocare nell’entroterra le persone rimaste senza un tetto. È in costruzione una “nuova Langue”, in collaborazione con il governo senegalese e la Banca mondiale. Le famiglie degli sfollati hanno potuto scegliere se ottenere un risarcimento in base al valore stimato delle loro vecchie case e andare ad abitare altrove, o se ricevere un alloggio adeguato al proprio nucleo familiare in un nuovo villaggio. Per ora il piano prevede, oltre alla ricollocazione di chi ha già perso tutto, l’obbligo di sgombero per le famiglie che abitano nella cosiddetta zona rossa, cioè a meno di venti metri dal mare.
Tra loro c’è anche Mama Maïsa Dieye. Durante una pausa dal lavoro le chiedo se teme l’intervento delle forze dell’ordine. “Se mi danno dei soldi li prendo, ma di qui non mi muovo. Verrà l’esercito a mandarci via? Mi lascerò morire, camminerò nell’oceano fino ad annegare”, dice. Confessa di aver optato per il contributo statale a risarcimento della casa persa nell’ondata del 2018. “Ho visto come si vive nei prefabbricati”, aggiunge. “Non ci rimarrei neanche un’ora”.
Mama Maïsa si riferisce alla “nuova Langue”. Un giorno andiamo a Djougop, nel comune di Gandou, a dodici chilometri da Saint-Louis, già in pieno deserto. Lì sorge il cantiere. Incontriamo Insa Fall, 25 anni, l’ingegnere che fa da referente locale per il piano d’intervento statale, affidato a un’apposita agenzia per l’emergenza climatica. “Abbiamo un budget di 95 milioni di dollari”, dice. “Quindici milioni sono stati stanziati dal governo e ottanta dalla Banca mondiale. Procediamo con l’impianto urbanistico, la costruzione delle infrastrutture e successivamente delle prime seicento abitazioni, che dovrebbero essere pronte entro la fine del 2023. Contemporaneamente, affrontiamo gli aspetti sociali: queste persone devono cominciare una nuova vita lontano dall’oceano. È un progetto pilota, siamo i primi al mondo a gestire una simile emergenza causata dal cambiamento climatico”.
Nella grande spianata le ruspe e i camion sollevano nuvole di polvere sotto un sole implacabile, scavano strade, fondamenta e fognature. Il giovane ingegnere indica il posto dove sorgeranno le scuole e il mercato. Un’ampia area è prevista per la coltivazione d’ortaggi: in sostanza, si prevede che i pescatori si trasformeranno in agricoltori del deserto, passando dalle spigole ai mango. Oltre agli operai, l’unica presenza umana in questo paesaggio desolato è il campo profughi – l’embrione della futura città – dove già vivono circa quattromila persone, a cui sono state assegnate delle “unità abitative” che ricordano un accampamento di militari o di minatori. Per muoversi sulla sabbia rovente e spazzata dal vento, tra le file ordinate dei prefabbricati in plastica color kaki, bisogna coprirsi il viso come i tuareg. Michelle Gueye, 50 anni, guida il comitato dei residenti e si occupa della “riconversione sociale” di cui parlava l’ingegnere. Organizza corsi per insegnare alle donne a cucire, a diventare delle parrucchiere, a coltivare la frutta e la verdura. Gueye è arrivata al campo insieme ai primi sfollati, dopo la mareggiata del 2017. Quell’anno 180 famiglie sono finite nel campo di Khar Yalla, una baraccopoli ai margini di Saint-Louis, dove vivono ancora trecento persone senza fognature e acqua corrente.
“Ero preparata”, racconta Gueye, “in quei giorni la tempesta era spaventosa. Vedevo la vecchia massicciata costruita dai francesi nel 1950 che si sbriciolava. Eravamo in dodici a casa, avevamo riempito qualche sacco con le cose più importanti. Poco dopo la preghiera delle cinque del mattino una prima onda ha abbattuto parte della casa. Siamo fuggiti appena in tempo”.
Nel marzo 2018 lo sfondamento è avvenuto un chilometro più a sud, nel quartiere Santhiaba. Altre duemila persone sono rimaste senza casa. Gueye è tra quelle che si sono rassegnate alla nuova esistenza nel deserto, lontano dal mare: “Mi manca tutto della Langue: gli odori, il rumore delle onde che mi cullava quando mi addormentavo. Lì, le case non hanno le serrature, in un tragitto di dieci metri devi fermarti a parlare con venti persone, se sei in difficoltà ognuno fa qualcosa per te. Se ci sei nato, la Langue è una dipendenza. Vedi come si sta seccando la mia pelle qui al campo? Sto diventando un’altra persona, anche fisicamente”. Lei ha fatto una scelta tra due modi di sopravvivere, anche se dentro di sé sente “il dolore delle radici troncate”.
Una sera siamo invitati a una festa di matrimonio nel lotto Cinque, tra i prefabbricati: le donne indossano gli abiti tradizionali, ma è l’unico segno di festa in un evento che alla Langue sarebbe un’apoteosi di musica, balli, canti e cucina. Gli ospiti stanno seduti in silenzio su sedie di plastica in uno spiazzo desolato, sotto dei teli di plastica sbrindellati. L’atmosfera è quasi di lutto, anche l’aria è immobile. A sposarsi è il nipote di Alassane Sy, un pescatore con cui abbiamo parlato a lungo davanti alla spiaggia, in mezzo alle rovine della Langue. Sy, 53 anni, è un uomo tarchiato e dal sorriso ampio. Aide, sua sorella e madre dello sposo, racconta a bassa voce che la storia d’amore è sbocciata al campo e che la coppia vuole restare a vivere lì “perché è più sicuro”.
La festa comincia quando arrivano gli ultimi autobus della sera da Saint-Louis, che scaricano uomini e donne esausti. All’ingresso di un folto gruppo di familiari, una leggera brezza rompe l’afa. Alassane Sy li accoglie ringraziandoli, con amara ironia, per aver portato con sé i venti rinfrescanti dell’amata Langue.
Ogni mattina, dal campo partono in tanti, come mossi da un richiamo interiore: gli uomini per salpare con le piroghe e le donne per vendere o salare il pesce. Prendono il bus della linea 2 alle cinque del mattino e tornano alle nove di sera. Il loro mondo è ancora là, anche se impiegano due ore per fare dodici chilometri e il biglietto costa l’equivalente di 22 centesimi di euro, una somma elevata per chi guadagna in media tre euro al giorno.
“Senza l’oceano morirebbero”, dice la madre dello sposo. Chi vive lontano dalla Langue paga un prezzo altissimo, non solo per l’irreparabile perdita di storia personale e collettiva: deve spesso uscire più tardi in mare e quindi spingersi più al largo degli altri. In questo modo si pesca meno, si guadagna meno e si rischia di più.
Le donne devono rientrare con l’ultimo bus anche se non sono ancora arrivate le piroghe, oppure sono costrette a pagarsi un taxi, azzerando i guadagni della giornata. “Sempre meglio che stare chiusi in questa maledetta prigione rovente”, osserva una cugina di Alassane Sy, una venditrice di pesce vestita come una regina, ma con gli occhi che lasciano trasparire la sconfitta.
Quello che succede nell’Artico non rimane nell’Artico, affermano gli scienziati. Gli effetti dello scioglimento dei ghiacci sono globali. “Un cubetto di ghiaccio che si scioglie in Groenlandia è un altro pugno di sabbia nel Sahel”, ci ha detto un giorno il professor Peter Wadhams, dell’università di Cambridge, nel Regno Unito, che da decenni studia il riscaldamento dell’Artico. Infatti non bisogna fare i conti solo con l’innalzamento degli oceani. Secondo alcuni studi, la corrente del Golfo nell’oceano Artico subisce alterazioni e rallentamenti, con effetti atmosferici continentali in Europa che causerebbero un’accelerazione della desertificazione dell’Africa subsahariana, dove l’alternanza tra stagioni umide e secche non è più regolare. Si calcola che quasi novanta milioni di persone saranno costrette a migrare nei prossimi quindici anni.
C’è anche un’altra forza che preme sul paese dall’entroterra, a monte del fiume Senegal, cioè dal sudovest del Mali: nel Sahel la scarsità di cibo e le inondazioni alimentano gli spostamenti di massa e la violenza jihadista. Fino a quando questa regione vulnerabile del Senegal riuscirà a resistere alle minacce che arrivano dai paesi confinanti? Per ora Saint-Louis combatte la sua battaglia contro l’oceano. Oltre al piano dell’Onu per trovare una nuova sistemazione a chi ha perso la casa o vive nella “zona rossa” della Langue de Barbarie, per attenuare l’impatto delle onde, è stata costruita una barriera di massi lunga circa tre chilometri e larga tredici metri. Per la sua realizzazione Parigi ha concesso un finanziamento di quindici milioni di euro, dopo una visita del presidente francese Emmanuel Macron a Saint-Louis nel 2018. L’opera è stata inaugurata da un riconoscente presidente senegalese, Macky Sall, il 14 luglio 2022.
“Ogni anno l’oceano è più vicino”, dice il pescatore Alassane Sy, mentre camminiamo tra i resti di quella che era la più grande moschea della Langue. Accanto c’è una scuola che sembra sia stata colpita da un missile. Sui pilastri di cemento abbattuti una decina di capre sonnecchia al sole. Sui muri di cemento grigio dei numeri rossi indicano le proprietà destinate alla demolizione. “Fino a una decina di anni fa dovevi camminare per un chilometro sulla sabbia prima di bagnarti i piedi”, aggiunge il pescatore.
La spiaggia è affollata da centinaia di ragazzi che giocano a calcio in mezzo alla spazzatura, un problema cronico perché le stradine della Langue sono troppo strette per i camion della nettezza urbana. Tra le onde spunta una testa di capra, nell’incuranza dei bambini che sguazzano nell’acqua. Quando il vento spazza via la foschia sull’Atlantico, al largo dalla costa, s’intravede quella che il presidente Sall spera sia una soluzione per favorire lo sviluppo: una gigantesca piattaforma costruita su un giacimento di gas naturale, sfruttato in collaborazione con la Mauritania e le aziende Bp, britannica, e Kosmos Energy, statunitense. Il complesso d’estrazione di gas naturale Greater Tortue Ahmeyim (Gta) entrerà in funzione in autunno, ma ha già creato polemiche. Fa un certo effetto vedere un gigantesco impianto di produzione di combustibili fossili stagliarsi davanti all’esempio più evidente dei danni della crisi climatica. Il Gta è diventato il progetto bandiera di un’Africa che si ribella alle imposizioni ambientaliste occidentali, considerate un colonialismo di nuova generazione.
Abba Mbaye, un economista che ha studiato a Parigi, è il rappresentante locale di un partito populista che si oppone a Sall. Eppure, sul tema dell’estrazione dei combustibili fossili, sposa la linea del presidente: “Produciamo solo il 4 per cento delle emissioni globali di gas serra. Come possono venirci a dire di puntare sulle rinnovabili? Non è mai stato così da nessun’altra parte del mondo, e non può succedere a Saint-Louis e in Africa”, dice Mbaye. “Rivendichiamo il diritto di sfruttare le nostre risorse, non accettiamo l’ipocrisia dei governi occidentali che consumano allegramente gas, ma mettono una moratoria sul finanziamento di nuovi impianti in Africa. Lo fanno solo per venderci le loro tecnologie verdi. È arrivato il nostro turno di svilupparci e mettere fine alla povertà. Dicono agli africani di non inquinare, quando in Europa e negli Stati Uniti tornano addirittura a usare il carbone”. Riguardo alla piattaforma davanti a Saint-Louis, Mbaye trova “inaccettabile che le multinazionali si prendano il 90 per cento dei profitti. Cosa resta al Senegal, cosa resta ai pescatori della Langue?”.
Aria diversa
Al quai du pêcheur, Mama Maïsa racconta che il rapporto tra la Langue e l’oceano era già in crisi prima che arrivassero le mareggiate. I pesci li hanno presi i cinesi, i portoghesi, gli italiani, i francesi con le loro navi industriali. Secondo Greenpeace, in Africa occidentale si sottraggono ogni anno 500mila tonnellate di pescato per sostenere il business europeo dell’acquacoltura e per produrre mangimi per polli e maiali. Agli abitanti della Langue restano poche miglia marittime dove pescare. E devono stare alla larga dalla piattaforma, sorvegliata dalla guardia costiera locale.
“Era l’area più pescosa”, osserva Alassane Sy. I giovani si avventurano in acque mauritane rischiando il sequestro della piroga, le multe e la prigione. Così questi lidi sono diventati la rampa di lancio per la migrazione clandestina verso le Canarie, che fanno parte della Spagna. Quei pochi che ce la fanno inviano foto d’improbabili vite prospere in Europa, che funzionano da esca per i ragazzi più giovani.
Un pomeriggio incontriamo Latyr Fall, 38 anni, che sta verniciando la sua piroga davanti ai resti della sua abitazione. Sta disegnando lo stemma del Barcellona football club sulla prua. È da poco tornato dalla Spagna, dove raccoglieva fragole. “Se sei della Langue devi morire nella Langue”, dice Fall. “Senti come profuma l’aria? Questo è il nostro ufficio. Il mare è il nostro posto di lavoro. Non abbiamo conti in banca né auto… Come faccio a spiegarlo? Siamo quelli della Langue”. ◆
Marzio G. Mian è un giornalista e scrittore italiano. Il suo ultimo libro è Guerra bianca (Neri Pozza 2022). Sirio Magnabosco è un fotografo e regista italiano. Mian e Magnabosco fanno parte di Arctic Times, società giornalistica non profit che racconta gli effetti della crisi climatica nell’Artico. Questo reportage rientra in un progetto sull’innalzamento degli oceani.
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Questo articolo è uscito sul numero 1514 di Internazionale, a pagina 52. Compra questo numero | Abbonati