In seguito alle proteste scoppiate in Cina tra il 26 e il 28 novembre molti si chiedono: “Finirà nel sangue come a piazza Tiananmen nel 1989?”. L’esplosione del dissenso contro la politica “zero covid” è stata la più forte che molti cinesi ricordano. Il 30 novembre c’è stato un altro inquietante parallelismo con le manifestazioni del 1989: la morte dell’ex presidente Jiang Zemin. A molti ha fatto pensare alla scomparsa, il 15 aprile di quell’anno, del riformatore Hu Yaobang, l’ex capo del Partito comunista cinese. La sua popolarità portò in piazza quasi centomila persone per i suoi funerali segnando l’inizio delle manifestazioni culminate nel massacro del 4 giugno. Qualcuno temeva che la morte di Jiang potesse essere la miccia per nuove contestazioni.
Le persone in lutto hanno già cominciato a lasciare corone e fiori davanti all’ex residenza di Jiang nella provincia di Jiangsu. Ma il 2022 non è il 1989. Avendo seguito il massacro di piazza Tiananmen, non penso che la storia possa ripetersi. Le proteste di oggi sono importanti, ma è ancora presto per definire la loro portata storica. È vero che, in un gesto senza precedenti, molti manifestanti hanno invocato le dimissioni del presidente Xi Jinping e dichiarato di non volere un “imperatore a vita”, ma una cosa dev’essere chiara. Sono una minoranza, la maggioranza è scesa in strada per opporsi alla politica zero covid.
Mentre manifestanti e polizia si scontravano, le autorità già facevano a gara per intestarsi il merito dell’allentamento delle restrizioni. Procedendo a singhiozzo, i burocrati locali hanno cercato di ammorbidire la politica zero covid, percepita spesso come un’ossessione personale di Xi. I comitati degli inquilini infuriati si sono organizzati. “Se contagiato, farò la quarantena a casa e non accetterò di essere portato via”, si leggeva in un manifesto dei residenti del complesso Runfeng Shuishang di Pechino.
Aperture occasionali
Prima tutte le persone positive al covid erano trasferite in centri per la quarantena, chiuse in celle malandate o addirittura in accampamenti, in condizioni igieniche disgustose. Ma sembra che le cose stiano cambiando. Una residente di un’area semirurale nella zona sudorientale di Pechino mi ha raccontato che alcuni lavoratori immigrati a cui aveva affittato delle stanze hanno contratto il virus, “ma nessuno li ha prelevati, sono rimasti a casa con l’indicazione di bere molta acqua”.
Il 29 novembre è arrivato un altro segnale di un cambiamento imminente. Il consiglio di stato cinese ha dichiarato di voler portare il tasso di vaccinazione delle persone con più di ottant’anni sopra il 90 per cento. Il giorno dopo i mezzi d’informazione di stato hanno riportato le parole della vicepremier Sun Chunlan, durante un vertice con i dirigenti sanitari: “La battaglia della Cina contro il covid è in una fase nuova e richiede nuove misure”.
Nella stessa occasione Sun, la leader più convinta della politica zero covid dopo Xi, è stata anche la prima ad ammettere che la variante omicron è meno pericolosa rispetto alle altre. ll 1 dicembre – a tre anni precisi dal contagio del paziente zero di Wuhan –Sun non ha pronunciato nemmeno una volta le parole zero covid, lo slogan distintivo del presidente.
Fino al 1 dicembre gli analisti avevano ripetuto che la politica zero covid non sarebbe stata accantonata nel giro di poco tempo, salvo qualche apertura occasionale. Improvvisamente si è avuta la sensazione opposta. I mezzi d’informazione di stato hanno riferito che gli amministratori saranno puniti se ordineranno lockdown arbitrari, mentre in passato le sanzioni colpivano il lassismo. Alcuni funzionari, che hanno chiesto di restare anonimi, hanno affermato di conoscere alcune aree di Pechino dove ai contagiati è già permesso trascorrere la quarantena in casa, e non negli appositi centri, un approccio che sembra particolarmente diffuso nel distretto di Chaoyang, con 3,5 milioni di abitanti e molte ambasciate straniere.
Un segnale convincente che qualcosa sta cambiando è l’“effetto mondiali”, mi ha spiegato un amico cinese. “Alla maggioranza delle persone non importa niente della politica, e anche se molti hanno contestato il Partito comunista, chiedendo le dimissioni di Xi, erano pur sempre una minoranza”, racconta. “Gli interessa di aver perso la libertà di viaggiare, guadagnare, mangiare come e quando vogliono, e godersi lo sport e lo spettacolo. Inoltre, non gli piace sentire bugie”.
Non c’è da stupirsi se il pubblico cinese dei mondiali tende a essere per lo più maschile, competitivo e impulsivo. Intuendo il rischio, la censura si è messa in moto per evitare i paragoni tra i tifosi senza mascherina in Qatar e i lockdown con mascherine obbligatorie in Cina. Ma poi gli spettatori si sono resi conto che la tv di stato cinese Cctv tagliava le inquadrature in cui si vedeva il pubblico sugli spalti. Mark Dreyer, un giornalista sportivo che vive a Pechino, ha twittato: “Ho trascorso le ultime due ore a guardare due dirette della partita Brasile-Svizzera e in 42 occasioni la Cctv ha censurato le riprese della folla di tifosi”.
Calcio e mercati
Secondo il mio amico, è così che si è accesa la proverbiale lampadina nelle teste dei cinesi. “Hanno capito che la Cctv censurava le immagini dei tifosi senza mascherina”, ha spiegato. “E in quel momento si sono detti: ‘Oh, ci hanno imbrogliato’”. Un utente del social network cinese Weibo ha commentato: “C’è chi guarda le partite dei mondiali dal vivo senza mascherina e chi è prigioniero in casa da un mese, o rinchiuso in un dormitorio da due mesi, senza neanche poter uscire dalla propria stanza. Chi ha rubato la mia vita?”. Un’altra persona chiedeva se la Cina fosse “sullo stesso pianeta in cui si trova il Qatar”. Entrambi i post sono stati censurati.
Il racconto sembra già abbastanza orwelliano, ma c’è dell’altro. La sera del 30 novembre un tifoso cinese ha postato online un’incredibile profezia: il giorno dopo i mercati finanziari sarebbero risaliti, perché la Cctv stava mostrando più persone senza mascherina ai mondiali. Naturalmente l’idea che il calcio influenzi le misure anti-covid appare assurda. Eppure, la mattina del 1 dicembre la borsa ha aperto in ripresa e lo yuan si è rafforzato.
Tutto questo ha un po’ più di senso se si considera la regola cinese dello zero covid come una campagna ideologica, più che sanitaria. Applicando i princìpi della pechinologia alla modalità e all’intensità della censura sui video dei mondiali operata da Cctv, è facile concludere che la fazione a favore di mascherine e lockdown sta perdendo terreno rispetto a quella favorevole ad aprire la fase di convivenza con il covid. Ma bisogna chiedersi se, nella corsa per arginare il dissenso, Xi Jinping e i suoi alleati riusciranno a offrire cambiamenti sufficienti e abbastanza rapidi per mettere a tacere le critiche, ora che il vaso di Pandora delle proteste si è spalancato. Potrebbero ancora mettersi in moto dinamiche che ricordano il 1989?
Si è discusso a lungo della possibilità di chiamare le recenti proteste in Cina “la rivoluzione dei fogli bianchi”, in riferimento ai fogli sventolati dai manifestanti in segno di protesta contro la censura. “Rivoluzione” è una parola che mette in agitazione i funzionari cinesi: implica una durata e conseguenze molto più importanti di qualche giorno di proteste. Eppure fin qui molti analisti hanno trascurato il contesto storico cinese. Fu il grande timoniere Mao Zedong in persona a dire: “Su un foglio di carta bianco si possono tracciare i caratteri più nuovi e più belli”. Le manifestazioni dei giorni scorsi potrebbero essere solo l’inizio di una storia lunga e articolata, di cui nessuno conosce il finale e il vincitore. ◆gim
◆ La fine della politica zero covid potrebbe scatenare il caos, scrive l’Economist. La pressione sta crescendo su più fronti: sociale, economico e sanitario, e non è detto che allentare i lockdown basterà a placare il malcontento. Inoltre, gli effetti positivi sull’economia sarebbero percepibili solo dal 2024. La certezza per ora è che la repressione non si è fatta attendere: la polizia ha usato la tecnologia per riconoscere e arrestare decine di manifestanti. Secondo il South China Morning Post, il presidente Xi Jinping avrebbe detto al presidente del consiglio europeo Charles Michel che i manifestanti sono “principalmente studenti frustrati”.
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Questo articolo è uscito sul numero 1490 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati