L’attacco israeliano alla Striscia di Gaza dura da più di 120 giorni, e nella città di Gaza affrontare le difficoltà quotidiane come restare al sicuro, combattere le fame e proteggersi dal freddo è già una guerra. Centinaia di migliaia di persone hanno perso le loro case. Poi anche un posto dove ripararsi. Israele li ha bombardati tutti: ospedali, scuole, ambulatori e qualunque spazio aperto dove potevano radunarsi i civili. L’intera popolazione di Gaza è stata sfollata. Dopo che la nostra casa è stata bombardata non sono stato più solo un testimone delle migliaia di persone in fuga. Io e la mia famiglia siamo andati in un rifugio delle Nazioni Unite nel nord della Striscia di Gaza, diventando a nostra volta sfollati come gli altri.
Perlustrare le macerie
Circa 600mila persone sono rimaste nel nord della Striscia a fare i conti con il lutto e le privazioni, la fame e le malattie, perché non vogliono lasciare la loro terra. Devo ammettere che non sappiamo più cosa significhi “casa”. Trovare lo spazio minimo e il riparo necessario per riposare è diventata un’odissea di angoscia e dolore: la nostra misera routine quotidiana consiste nel guardarci intorno per capire dove potremo dormire.
Scrivo per farvi conoscere quello che sta attraversando l’umanità
Io e la mia famiglia – padre, madre, sorella, moglie e figlio di due anni – abbiamo trovato riparo nel garage di un condominio distrutto. Controlliamo le previsioni meteo, preoccupati che durante la notte possa piovere. Quando succede mi tolgo il cappotto e lo avvolgo intorno al mio bambino per proteggerlo dal freddo, e prego che possa bastare.
Oltre alla battaglia per trovare riparo, c’è quella per il cibo. Non ricordo l’ultima volta che mio figlio ha mangiato un vero pasto. Il grano non si trova più, quindi abbiamo cominciato a macinare i mangimi animali a base di orzo e mais per farci il pane. Non è neanche possibile coltivare qualcosa, tra le bombe e le forniture ridotte, a cominciare dall’acqua. Gli aiuti che entrano in questo territorio assediato sono limitatissimi e insufficienti a soddisfare i nostri bisogni quotidiani.
Da quattro mesi sopravviviamo in queste condizioni, senza un reddito né mezzi di sussistenza, mentre i prezzi dei beni essenziali sono alle stelle, ammesso che si riesca a trovarli. Di conseguenza il nord della Striscia ormai è alla fame. Neonati, bambini, adulti e anziani, tutti soffrono perché non hanno da mangiare.
Un’oncia di caffè (circa 30 grammi) prima costava dieci shekel (2,50 euro) oggi ne costa 120; un litro di acqua potabile che normalmente costa uno shekel oggi arriva a quindici. Chi riesce a procurarsi il cibo poi deve cuocerlo, ma siccome non c’è gas bisogna perlustrare le macerie in cerca di qualcosa da bruciare, esponendosi ai bombardamenti.
Il sistema sanitario nel nord della Striscia è pressoché inattivo dall’inizio dell’invasione di terra, e oggi resta poco più che un pronto soccorso per i feriti o per chi ha bisogno di terapie intensive. Israele ha arrestato e ucciso centinaia di operatori sanitari, ha bombardato centinaia di strutture sanitarie mettendole fuori uso o ne ha ridotto la capacità tagliando acqua e carburante. Almeno 122 ambulanze sono state bombardate. I medicinali di base come gli antibiotici e gli antidolorifici non bastano per le migliaia di feriti, e in tanti contraggono infezioni e soffrono di disturbi respiratori.
Il numero di palestinesi uccisi è molto più alto di quanto riportato. Ci sono persone che muoiono per insufficienza renale, di cancro o per mancanza di cure prenatali, ma nessuna di queste morti è registrata. Molti potevano essere aiutati se ci fossero state attrezzature e farmaci sufficienti. Le persone si possono ancora salvare, ma sembra ci sia poca volontà di farlo.
Agli occhi del mondo
Io scrivo usando il telefono quando riesco ad avere la batteria carica e l’accesso a internet o alla rete telefonica, un’impresa più difficile che mai nel nord della Striscia. Banche, uffici postali, trasporti e telecomunicazioni, non funziona niente. La lista è infinita. Come posso spiegare al mondo, alle persone che leggono le nostre parole, che quello che stiamo subendo non è solo doloroso, ma anche evitabile?
Le richieste di sostegno non sono rivolte a ottenere solidarietà diplomatica, ma un’azione urgente che ci aiuti a sentirci umani agli occhi del mondo. Con il passare delle ore sono sempre meno i palestinesi di Gaza che possono chiedere aiuto al mondo. Ogni giorno porta altra morte.
Non sto scrivendo queste parole sulla nostra lotta quotidiana per suscitare compassione. Se la compassione spingesse le persone ad agire non saremmo dove siamo ora. Racconto la nostra battaglia perché a questo punto siamo già stati uccisi oppure ci stanno uccidendo lentamente. Facciamo appello a chi è in salute, a chi ha un letto su cui dormire, a chi ha una voce per farsi sentire fuori da questo mattatoio.
Scrivo per farvi conoscere quello che sta attraversando l’umanità. Noi palestinesi di Gaza siamo ridotti alla fame, dormiamo per strada. La nostra umanità ci è negata da un esercito che continua a usare alcuni dei metodi più dolorosi e inumani della guerra conosciuti in epoca moderna. È il momento che il mondo si opponga agli abusi e mostri rispetto per la vita umana. ◆fdl
Mohammed R. Mhawish è un giornalista e scrittore palestinese che vive a Gaza.
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Questo articolo è uscito sul numero 1549 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati