“Ci vediamo tra nove giorni”. È stata l’ultima cosa che Yanelys Núñez ha detto alla madre il 3 marzo 2019, prima di partire per Praga per seguire un corso di videogiornalismo. Non sapeva che quel viaggio sarebbe stato l’anticamera del suo esilio a Madrid. Quando si sono salutate avevano appena litigato: l’attivismo di Núñez a Cuba creava tensioni in famiglia.

Per capire la sua militanza bisogna fare un passo indietro, al 2018, che è stato un anno decisivo nella storia recente dell’isola. A maggio si è tenuta la Biennale 00, un evento artistico indipendente nato come risposta alla decisione delle autorità di cancellare la biennale dell’Avana a causa della devastazione provocata dall’uragano Irma. Nonostante le pressioni dei servizi di sicurezza statali, all’evento hanno partecipato centoquaranta artisti, cubani e stranieri. Tra gli organizzatori c’erano anche Yanelys Núñez, storica dell’arte, e il suo compagno dell’epoca, l’artista Luis Manuel Otero: due giovani neri e di origini umili che da tempo denunciavano l’elitismo nell’arte. Due mesi dopo, a luglio, sulla gazzetta ufficiale di Cuba è stato pubblicato il decreto legge 349, un meccanismo di censura e di repressione dell’arte indipendente. Tra le altre cose la norma stabilisce che una persona deve avere l’autorizzazione del governo per creare e diffondere le sue opere e per essere considerata un artista. Il decreto ha segnato un punto di svolta nella dissidenza cubana.

Il 21 luglio, proprio quando il parlamento cominciava a discutere il progetto di riforma della costituzione, Núñez si è coperta il corpo di feci in segno di protesta fuori dal Campidoglio, un simbolo di Cuba costruito nel 1929. L’idea era stata di Otero. Avrebbe dovuto essere lui il protagonista della performance se non l’avessero arrestato pochi minuti prima di cominciare, mentre era seduto con due amici sulle scale dell’edificio. Secondo i loro piani, Núñez doveva limitarsi a portare nella sua borsa le feci, una macchina fotografica e un cartello con lo slogan: “No al decreto 349. Arte libera”. Ma quando ha visto che gli agenti arrestavano Otero, ha deciso di prendere il suo posto.

“Ecco cosa fanno all’artista cubano. Libertà! Cazzo! Libertà!”, ha gridato Otero mentre gli agenti lo costringevano a salire su un’auto della polizia.

“La cacca si usa molto nelle prigioni cubane per protestare, perché la polizia non si avvicina a chi è coperto di feci. O ci mette più tempo”

Dall’altra parte della strada, Núñez si è coperta il corpo e il viso di feci. Faceva molto caldo. Sudava. Iris Ruiz, attrice e sua amica, ha cominciato a riprenderla. “Stanno calpestando la cultura cubana, per questo protestiamo”, ha detto Núñez. “Luis Manuel Otero non ha potuto farlo, quindi lo farò io. È merda, portate via anche me. Il governo deve parlare con noi perché siamo artisti. Sono una professionista, sono una storica dell’arte, non sono una delinquente”.

Nessuno l’ha toccata. Un agente della sicurezza di stato ha solo gettato per terra il cartello che Núñez teneva in mano. Oggi, dalla Spagna, spiega: “La cacca si usa molto nelle prigioni cubane per protestare, perché la polizia non si avvicina a chi è coperto di feci. O almeno ci mette più tempo”.

Le chiedo se le ha fatto schifo. “Non ci ho pensato”, dice. “Mi ribolliva così tanto il sangue che non mi ha dato fastidio neanche l’odore. È stato come truccarmi. L’ho vissuta così”.

Oltre a Otero, quel giorno la polizia ha arrestato altre quattro persone: l’attrice Iris Ruiz, il poeta Amaury Pacheco (marito di Ruiz), il rapper Soandry del Río e l’attivista José Ernesto Alonso.

Gli agenti della sicurezza hanno detto a Núñez di tornare a casa e di farsi una doccia. Lei viveva a cinquecento metri dal Campidoglio, ma prima si è fermata in un parco con una connessione wifi (all’epoca i cubani non potevano accedere a internet usando i dati del cellulare) e ha pubblicato il video della performance. Poi è andata in una delle due stazioni di polizia dove avevano portato i suoi amici, e solo dopo che Alonso è stato rilasciato si è fatta una doccia. Anche Ruiz è stata liberata quasi subito, mentre gli altri sono rimasti in carcere tre giorni.

Speranze svanite

A ottobre 2018 un gruppo di intellettuali e di attivisti aveva fondato il movimento San Isidro, per mettere in collegamento l’arte con la vita quotidiana dei cubani. Il gruppo prendeva il nome dal quartiere in cui viveva Otero. La sede era proprio la sua casa, che poi si sarebbe trasformata in un rifugio e in una trincea, sempre sorvegliata dagli agenti della sicurezza. Sul sito, il movimento San Isidro si definisce come un’iniziativa per “promuovere, proteggere e difendere la piena libertà d’espressione, associazione, creazione e diffusione dell’arte e della cultura a Cuba, per aiutare la società ad avanzare verso un futuro con dei valori democratici”.

In quel periodo nell’aria c’era speranza. Molti giovani sentivano che il paese sarebbe cambiato o che loro avrebbero potuto cambiarlo. Le leggere aperture promosse da Raúl Castro dal 2010 al 2014, la ripresa delle relazioni diplomatiche ufficiali tra gli Stati Uniti e Cuba nel 2015, la visita del presidente statunitense Barack Obama nel 2016, l’aumento dei servizi di accesso a internet e la nascita di mezzi d’informazione indipendenti come El Estornudo, Periodismo de Barrio e 14ymedio avevano fatto sentire ai cubani che il paese si stava finalmente avviando verso la normalità. Ma in poco tempo le illusioni sono svanite. La repressione è sempre stata una consuetudine, e con l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca e la ripresa delle ostilità tra i due paesi, la consuetudine si è consolidata.

Quasi quattro anni dopo buona parte del movimento culturale nato intorno a quelle speranze di cambiamento è in esilio, in carcere o è ridotto al silenzio. José Ernesto Alonso e Soandry del Río sono ancora a Cuba, ma hanno preso le distanze dalla dissidenza. Luis Manuel Otero ha passato dieci mesi nel carcere di massima sicurezza di Guanajay, nella provincia di Artemisa, dove ha fatto vari scioperi della fame e della sete per chiedere di essere liberato. È stato processato all’Avana il 30 e il 31 maggio. Era stato arrestato nella capitale l’11 luglio 2021 (giorno noto ormai come 11J) quando voleva unirsi alle proteste antigovernative che si erano diffuse in decine di città. Non si vedevano manifestazioni del genere dal 1959. Le autorità l’hanno accusato di vilipendio ai simboli della patria, oltraggio, minaccia all’ordine pubblico e diffamazione di istituzioni, organizzazioni, eroi e martiri. Iris Ruiz ha lasciato la famiglia ed è andata a Miami nell’ottobre 2021, perché la sicurezza di stato le aveva negato l’accesso all’assistenza medica e da un anno soffriva di emorragie, infiammazioni e aveva forti dolori addominali. Amaury Pacheco, suo marito, è rimasto a Cuba con i quattro figli, con la minaccia di finire in carcere per i presunti reati di istigazione a delinquere e minaccia all’ordine pubblico.

Nel 2021 i cubani sono scesi in piazza spinti da una stanchezza accumulata da decenni e dal bisogno di creare un paese nuovo

“Sapevo già di non poter restare”, dice Núñez, che ha chiesto asilo politico in Spagna e sta ancora aspettando una risposta. “Ero arrabbiata con il popolo cubano, con il suo immobilismo e la sua perenne rassegnazione. Oltre che con la comunità artistica per la mancanza di solidarietà. Poi mi sono detta: ‘Non devo liberare il paese, ognuno deve liberarsi da solo, ha la sua responsabilità come cittadino’. Ho preso coscienza delle ragioni del mio attivismo. Lo facevo soprattutto per me, per il diritto di lavorare nel mio paese, di esistere e vivere liberamente. Il desiderio di migliorare la società era in secondo piano. Sono arrivata in Spagna emotivamente a pezzi, perché sentivo di aver abbandonato gli amici e la lotta”.

Ruiz vuole rimanere negli Stati Uniti. È riuscita a partire con due dei sei figli, un ragazzo di 14 anni e un altro che tra poco ne avrà 21. Quando sono arrivati a Miami, un medico li ha visitati e ha detto che i ragazzi erano denutriti. Nel frattempo il figlio maggiore è entrato in depressione. “Ha avuto un crollo e l’ho fatto ricoverare. È sotto trattamento psichiatrico. Pacheco, mio marito, ha più di cinquant’anni. Io ne ho più di quaranta. Lui ha dedicato all’attivismo venticinque anni della sua vita e io venti, accanto a lui. I nostri figli lo hanno vissuto di riflesso, sono cresciuti ma oggi non hanno nessuna opportunità. Abbiamo rinunciato a tutto per la lotta, ma quando penso alla mia famiglia mi chiedo: ‘Ho fatto bene?’”, dice.

“Sto provando a ottenere l’asilo e poi chiederò il ricongiungimento familiare. Cosa può fare mio marito? Uscire con un bastone per strada a picchiare la polizia?”, continua Ruiz. “Deve sfruttare la sua intelligenza e creatività. È un artista, e ora non sta facendo nulla. L’esilio è difficile: in realtà nessuno se ne vuole andare. Ma a un certo punto capisci che la salute non ti permette di resistere ancora, che hai dei figli da tirare su e devi dargli un futuro. O almeno un presente, perché a Cuba manca anche questo”.

Una forte determinazione

L’isola sta vivendo una delle crisi migratorie più forti dal 1959, anno della vittoria della rivoluzione castrista. Il 15 novembre 2021, dopo una chiusura prolungata per la pandemia di covid-19, sono state riaperte le frontiere. Una settimana dopo il governo nicaraguense ha stabilito che i cubani potevano entrare nel paese senza bisogno del visto. Da allora 72.800 cubani sono entrati illegalmente negli Stati Uniti dal confine messicano. Solo nel mese di marzo erano più di 32mila, quasi il doppio del mese precedente. Il mare è stata un’altra via per chi non aveva abbastanza soldi per pagare un biglietto aereo per il Nicaragua o i trafficanti. Secondo le statistiche della guardia costiera degli Stati Uniti, dal 1 ottobre 2021 al 19 aprile 2022 sono stati intercettati 1.399 migranti cubani, quasi sempre su imbarcazioni di fortuna.

La grande maggioranza di queste persone viene espulsa.

Un’auto della polizia rovesciata durante le proteste all’Avana, 11 luglio 2021 (Yamil Lage, Afp/Getty Images)

Nel gennaio del 2017, poco prima della fine del suo mandato presidenziale, Barack Obama annunciò la sospensione della cosiddetta politica dei wet feet, dry feet (piedi bagnati, piedi asciutti) che accoglieva i cittadini cubani arrivati in maniera irregolare, ma respingeva chi era intercettato in mare. Ma i cubani hanno continuato a partire. Dal 2017 al 2020 l’emigrazione è diminuita, anche a causa delle politiche restrittive di Trump, ma alla fine del 2020 è cresciuta di nuovo. C’è una forte determinazione che spinge migliaia di cubani a emigrare verso gli Stati Uniti o altri paesi del mondo. Sperano di ottenere la libertà.

Contrariamente a quanto hanno scritto diversi mezzi d’informazione stranieri, le manifestazioni del luglio 2021 non sono state scatenate né dalla crisi economica né dalla pandemia. Cuba ha attraversato molte crisi dal 1959. Si potrebbe perfino affermare che ha vissuto in uno stato di crisi quasi permanente. Nel luglio 2021 i cubani sono scesi in piazza spinti da una stanchezza accumulata da decenni, dal bisogno di costruire un paese diverso e inventare nuovi modelli. Non è raro che i cubani sentano di avere più diritti e opportunità come immigrati senza documenti negli Stati Uniti che come cittadini nel loro paese.

Secondo i dati di alcune ong, oggi a Cuba ci sono circa novecento prigionieri politici. La maggior parte, circa 750 persone, è stata arrestata per aver partecipato alle proteste del 2021. Molti vivono in quartieri storicamente emarginati, poveri e a maggioranza nera. Finora è stato possibile stabilire il colore della pelle di 399 di questi detenuti: 185 sono neri o meticci, anche se i dati ufficiali dicono che il 65 per cento della popolazione cubana è bianca. Chi è stato accusato di sedizione contro la sicurezza dello stato ha ricevuto condanne a venti o a trent’anni di carcere. Secondo le stime di attivisti, giornalisti e organizzazioni per la difesa dei diritti umani, lo scorso luglio sono scesi in piazza tra i sessantamila e i 150mila cubani. Anche chi non è stato arrestato non si sente al sicuro. Il 12 luglio, nel quartiere La Güinera, all’Avana, il manifestante Diubis Laurencio Tejeda è morto dopo essere stato colpito da un proiettile sparato da un poliziotto. Aveva 36 anni.

L’arresto di un uomo durante una manifestazione all’Avana, 11 luglio 2021 (Adalberto Roque, Afp/Getty Images)

È possibile che lo stesso gruppo di potere governi un paese per più di sessant’anni senza ricorrere alla violenza?

Scortati sull’aereo

La paura che crea il governo autoritario cubano supera le frontiere e raggiunge il cuore di qualsiasi cittadino che abbia ancora in patria un familiare, una persona amata o anche solo il minimo interesse per il suo paese. Però l’apparato del terrore sta perdendo la sua presa. A mano a mano che la gente a Cuba ha smesso di avere paura, hanno preso coraggio anche i cubani che se n’erano andati. Gli esuli organizzano manifestazioni per la libertà in città europee, statunitensi e latinoamericane; denunciano le violazioni dei diritti umani; aiutano economicamente gli attivisti e i parenti dei prigionieri politici.

“Non volevo andarmene da Cuba. Anzi, dopo l’11 luglio pensavo che la cosa più giusta fosse restare e continuare a resistere”

Madrid ha accolto una parte significativa delle nuove generazioni di dissidenti. Non è stata una sorpresa che a metà dicembre del 2021, nel suo discorso di chiusura della terza assemblea plenaria del comitato centrale del Partito comunista di Cuba, il presidente cubano Miguel Díaz-Canel abbia parlato di una presunta “miamizzazione di Madrid”. Secondo lui, “la destra dura della vecchia metropoli sta facendo a gara con gli impresentabili politici anticubani che fanno base a Miami”.

La cosa strana con Cuba è che alcune persone sono costrette all’esilio non tanto per quello che hanno fatto mentre vivevano sull’isola, ma per le loro azioni all’estero. Uno degli esempi più chiari è quello dell’artista, editrice e attivista Salomé García Bacallao, trent’anni, tra le coordinatrici della piattaforma Justicia 11J, che ha documentato minuziosamente più di 1.400 arresti legati alle proteste dello scorso luglio. García Bacallao ha organizzato numerosi boicottaggi e iniziative di denuncia contro il governo dell’Avana. Per lei tornare a Cuba sarebbe un rischio enorme: è probabilmente una delle persone più invise alla sicurezza di stato. Ha cominciato a farsi notare per il suo attivismo nel 2020, quando viveva a Valencia, in Spagna, ed è diventata subito una referente per tutte le iniziative dei cubani in esilio. Nel febbraio 2022 si è trasferita a Miami.

Nel 2021 il caso del giovane artista Hamlet Lavastida ha chiarito molto bene le conseguenze a cui possono andare incontro i cubani che tornano nel paese. Lavastida è tornato a Cuba nel giugno 2021, dopo una residenza artistica in Germania, ma non ha neanche messo piede in strada. Ha passato quasi novanta giorni nel carcere di Villa Marista all’Avana, il cui nome ufficiale è Organo specializzato per la ricerca criminale di reati contro la sicurezza di stato. O, come ha detto lo stesso Lavastida, “uno spazio paranormale. Arriva un momento in cui il delirio fa perdere il legame con la realtà. Non ci sono categorie fisiche per descrivere quello che c’è lì dentro”.

La causa del suo arresto? Alcuni messaggi condivisi su una chat privata in cui proponeva a chi era a Cuba di scrivere sulle banconote cubane simboli e parole della dissidenza. L’iniziativa non si è mai concretizzata, ma il fatto di parlarne è bastato all’artista per essere accusato di istigazione a delinquere e disobbedienza civile. La polizia politica non ha bisogno di dimostrare nulla quando vuole mettere qualcuno dietro le sbarre. “A essere sincero, Cuba somiglia molto a Villa Marista. Tutto il paese le somiglia”, ha detto Lavastida. “Un posto in cui non c’è fiducia verso gli altri. Dove servono cinismo, sarcasmo e falsità. È una versione in piccolo dell’intero paese”, ha aggiunto.

Lavastida è stato rilasciato nel settembre 2021, dopo quasi tre mesi di detenzione, in cambio di un accordo: lui e la poeta e attivista Katherine Bisquet, che era la sua compagna, dovevano lasciare Cuba. Anche Bisquet era un personaggio scomodo: si era opposta pubblicamente alla riforma della costituzione, che poi era stata sottoposta a un referendum nel febbraio 2019. Nel novembre 2020 aveva partecipato alle proteste del movimento San Isidro, a casa di Otero, per chiedere la liberazione del rapper Denis Solís. E quello stesso mese aveva manifestato insieme ad altre centinaia di persone davanti alla sede del ministero della cultura all’Avana. Non dava segni di voler smettere. Nel 2021 gli agenti della sicurezza di stato si erano installati per vari mesi intorno a casa sua, all’Avana, dove viveva con l’artista Camila Lobón, per impedire a entrambe di uscire o di ricevere delle visite. Lobón poi è andata negli Stati Uniti.

Il rapper Maykel “Osorbo” Castillo (Dr)

Bisquet e Lavastida hanno abbandonato Cuba alla fine del settembre 2021. Sono stati scortati da poliziotti e agenti della sicurezza di stato fino a un aereo diretto in Polonia. Sono stati esiliati con la forza. “Lasciare Cuba non è stato un trauma. Sapevo che prima o poi sarebbe successo”, dice Bisquet. “Mi ha colpito però come mi hanno espulso, la naturalezza con cui gli agenti mi hanno accompagnato fino all’aereo: come se stessi partendo per partecipare a un evento importante del governo e avessi bisogno di una scorta, di qualcuno che mi aiutasse con le valigie. Ho saltato le procedure doganali come se fossi la presidente di Cuba e non una presunta criminale senza nessun diritto di scegliere il mio destino”. Da qualche mese Bisquet vive a Madrid.

“Non mi vedo solo come un’esule. Mi vedo come una sfollata, come una persona cacciata. Non ho scelto io di andarmene. Non in quel momento. Il mio esilio forzato non mi porta a vedermi come un’emigrante che pensa al proprio futuro e cresce nella sua nuova vita. Mi vedo come una persona in attesa, con una vita in sospeso. Non ho voglia di costruire nulla. Mi limito a sognare un futuro possibile dal letto”. L’attivista ammette che il suo rapporto con Cuba è segnato dal disgusto, e che ogni cosa che vede del paese la ripugna. “Ho cercato di trovare a Cuba una speranza per poter costruire una vita lì. Ci eravamo riusciti, ma poi è finito tutto. Il mio rapporto con Cuba non passa dalla terra o dalla patria. Dipende dalla mia famiglia e dai miei amici. Molti sono in esilio e altri sono in carcere. Il mio legame con Cuba è diviso tra l’esilio e il carcere”.

Hamlet Lavastida oggi vive a Berlino, dove sta cercando di trasformare la sua esperienza in arte.

Salomé García Bacallao (www.radiotelevisionmarti.com)

“Ho sempre pensato che mi sarebbe successo qualcosa di simile, ma nulla ti prepara a viverlo. Cercherò di essere analitico e obiettivo per non cadere in eccessi o discorsi altisonanti”, dice l’artista parlando dei suoi lavori futuri. Anche nelle suo opere passate, caratterizzate da una profonda ricerca storica, Lavastida dialogava con figure dell’arte e della politica che avevano attraversato esperienze simili. Ora la sua storia e la sua memoria sono parte della materia prima con cui crea. Cuba non esiste solo sull’isola, ma anche fuori: “È una parte indissolubile dell’essere cubano perché, in fin dei conti, l’essenza del paese si è costruita anche in esilio”, dice.

Cadere nel vuoto

Con qualche variazione, di recente hanno abbandonato Cuba decine di artisti, giornalisti, ricercatori e difensori dei diritti umani. O almeno l’ha fatto chi ha avuto l’opportunità di scegliere tra l’esilio e il carcere, perché l’esilio cubano è fondamentalmente bianco, istruito, intellettuale. Nelle foto scattate a Madrid si nota. Yanelys Núñez, una donna nera, è fino a un certo punto un caso eccezionale, perché ha comunque studiato all’università. Chi ha ereditato la pelle nera, la povertà o l’emarginazione, non ha una laurea e magari si oppone al governo può andare incontro a una sorte molto diversa.

È il caso di Luis Manuel Otero e del suo amico, il rapper Maykel Castillo, noto come Maykel Osorbo. Entrambi neri, di origini umili e autodidatti. Nel 2021, per la sua partecipazione alla canzone Patria y vida, che poi è diventata una specie di inno delle proteste di luglio, Castillo ha vinto due premi Grammy latino. La notizia l’ha raggiunto in un carcere di massima sicurezza a Pinar del Río. È detenuto dal 18 maggio 2021. È stato processato all’Avana il 30 e 31 maggio di quest’anno.

Gli artisti Yanelys Núñez e Luis Manuel Otero Alcántara (Lihue Althabe)

La sicurezza di stato cubana ha promesso alla storica dell’arte Carolina Barrero che, se avesse abbandonato l’isola, avrebbe liberato Castillo. Da mesi il rapper soffre di un’infiammazione dei gangli. Barrero ha accettato. Era già stata arrestata e interrogata decine di volte, aveva passato sei mesi agli arresti domiciliari e sotto sorveglianza. Ma niente l’aveva convinta ad andarsene dal paese. Il suo è un caso particolare. A differenza di molti cubani, lei era rientrata a Cuba per lottare per la libertà: alla fine del 2020, dopo aver vissuto in Spagna per quasi dieci anni, Barrero era tornata con l’intenzione di restare. La sua è una lezione di resistenza. Il governo è riuscito a farle lasciare l’isola proponendole di scambiare la sua partenza con la liberazione di Castillo. Gli agenti l’hanno anche minacciata di arrestare alcune madri di prigionieri politici e una sua amica attivista se avesse rifiutato la proposta. Barrero è partita pochi giorni dopo essere stata arrestata per aver partecipato a una protesta davanti a un tribunale in cui si stavano processando alcuni partecipanti alle manifestazioni dell’11 luglio.

“In quel momento non volevo andarmene. Non ho mai sostenuto che non me ne sarei mai andata da Cuba, così come non avrebbe avuto senso dire che non sarei mai tornata. Però non avevo previsto di partire. Non ero esaurita, non avevo bisogno di riprendermi, nonostante la violenza. Volevo restare a Cuba: anzi, dopo l’11 luglio pensavo che la cosa più giusta fosse rimanere nel paese e continuare a resistere, anche se rispetto la libertà individuale e mi sembra legittimo decidere di volersene andare via, per qualsiasi ragione. Per me è stato come cadere nel vuoto: sopravvivo grazie alla generosità degli amici. Non ho una casa, non ho un lavoro”, racconta.

Fantasmi

Nessuno sa se sia possibile tornare. L’esilio della giornalista Karla Pérez e della ricercatrice e professoressa universitaria Anamely Ramos, entrambe critiche nei confronti del governo, hanno mandato un altro messaggio importante: le autorità possono impedirti di rientrare nel tuo paese. Sia Pérez sia Ramos hanno saputo di non poter rientrare a Cuba quando erano in aeroporto. Gliel’ha comunicato il personale della compagnia aerea su cui avrebbero dovuto viaggiare. Pérez si trovava in Costa Rica, dove aveva studiato giornalismo dopo essere stata espulsa da un corso a Cuba per motivi politici, mentre Ramos era negli Stati Uniti in vacanza. Oggi il loro attivismo prosegue dall’estero: forse è la dimensione più profonda dell’esilio, perché è una conferma dell’impossibilità di tornare nel proprio paese. La diaspora cubana è piena di storie simili.

Da sapere
Un processo contestato

◆ Il 30 e il 31 maggio 2022 si è svolto nel tribunale del municipio di Marianao, all’Avana, il processo a porte chiuse contro l’artista Luis Manuel Otero Alcántara e il rapper Maykel “Osorbo” Castillo, probabilmente i volti più noti della dissidenza cubana. Entrambi fanno parte del movimento San Isidro e hanno partecipato al video della canzone Patria y vida, diventata una sorta di inno per la libertà a Cuba. Sono stati arrestati nel 2021, anche se in momenti e circostanze diverse. Rischiano rispettivamente sette e dieci anni di carcere per vilipendio, istigazione a delinquere e minaccia all’ordine pubblico. Ma secondo gli attivisti per i diritti umani i due artisti sono stati processati per il loro impegno in difesa della libertà d’espressione. La stampa straniera e i diplomatici europei non hanno potuto assistere al processo. Molti giornalisti indipendenti cubani hanno denunciato che agenti della sicurezza gli hanno impedito di uscire di casa e hanno interrotto la connessione internet. La sentenza è attesa nei prossimi giorni. Cnn, Afp


Lo scrittore Reinaldo Arenas, che abbandonò Cuba per andare negli Stati Uniti nel 1980, quando in sei mesi 125mila persone si imbarcarono dal porto di Mariel, conosceva bene il sentimento di sradicamento provocato dall’esilio. Nella sua autobiografia Prima che sia notte (Guanda 2016), che finisce nel 1990, l’anno in cui Arenas si suicidò, si legge: “Mi rendo conto che per un esule non esiste un posto giusto in cui vivere. Non esiste perché il posto dove abbiamo sognato, abbiamo scoperto un paesaggio, abbiamo letto il nostro primo libro, abbiamo avuto la nostra prima avventura sentimentale è sempre presente nei nostri sogni; in esilio non si è che fantasmi, ombre di qualcuno che non si realizza mai completamente; da quando sono in esilio io non esisto più; da allora ho cominciato a fuggire da me stesso”.

Forse se Arenas avesse visto le manifestazioni dello scorso luglio avrebbe sentito che il luogo dei suoi sogni poteva tornare a essere il suo luogo reale.

È quello che è successo a Yanelys Núñez. “Mi sono allontanata da Cuba perché non immaginavo che una cosa del genere potesse capitare”, dice. “Ho fatto fatica a credere che fosse vero, ma poi con i giorni ho capito l’importanza di quello che era successo, non solo per chi vive lì ma anche per i cubani che sono in esilio. Ora ce l’ho con la comunità internazionale, però mi sono riconciliata con il popolo cubano. In fondo non era quello che abbiamo sempre voluto in tutti questi anni? Siamo scesi in piazza e abbiamo fatto sentire la nostra voce. E adesso?”. ◆ fr

Mónica Baró Sánchez è una giornalista e scrittrice cubana nata nel 1988. Ha lavorato per alcuni siti cubani indipendenti, come El Estornudo e Periodismo de Barrio. Nel 2019 ha vinto il premio Gabriel García Márquez con un reportage su un caso di avvelenamento per piombo in un quartiere dell’Avana. Oggi vive a Madrid.

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Questo articolo è uscito sul numero 1464 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati